Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 16003 del 28/07/2020

Cassazione civile sez. VI, 28/07/2020, (ud. 04/03/2020, dep. 28/07/2020), n.16003

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Presidente –

Dott. FALASCHI Milena – Consigliere –

Dott. SCARPA Antonio – Consigliere –

Dott. FORTUNATO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. BESSO MARCHEIS Chiara – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 9563/2019 R.G. proposto da:

ASAP S.R.L., in persona del legale rappresentante p.t, rappresentata

e difesa dall’avv. Antonio Dipasquale, elettivamente domiciliata in

Roma, Via Piemonte n. 32, presso l’avv. Giuseppe Spada.

– ricorrente –

contro

B.A., B.R., B.V., B.G.,

rappresentati e difesi dall’avv. Gaetano Barone e dall’avv.

Guglielmo Barone, elettivamente domiciliati in Roma, Piazza Capponi,

presso l’avv. Carlo Cermignani.

– controricorrenti –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Catania, n. 2500/2018,

depositata in data 27.11.2018.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del giorno

4.3.2020 dal Consigliere Giuseppe Fortunato.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

B.A., B.R. e B.V. hanno adito il Tribunale di Ragusa, esponendo che, con contratto del 31.8.2011, avevano ceduto alla Assenza Appalti s.r.l. (ora Asap s.r.l.), un suolo edificarle sito in (OMISSIS) per il prezzo di Lire 600.000.000; che, con la medesima scrittura, la società acquirente aveva assunto l’obbligo di realizzare 16 villette sulla porzione rimasta in proprietà degli attori, per un corrispettivo di Lire 530.000.000 e con termine di consegna delle opere di anni due dalla stipula del contratto; che, decorso detto termine, i lavori non erano stati completati.

Hanno chiesto di condannare la società convenuta alla consegna delle opere e al risarcimento del danno, o, in subordine, di dichiarare risolto sia l’appalto che la vendita, disponendo le conseguenti restituzioni ed il risarcimento dei danni.

La convenuta ha contestato la domanda, eccependo la nullità del contratto poichè avente ad oggetto opere abusive (in particolare, taluni locali seminterrati), instando, in via riconvenzionale, per la restituzione di Lire 259.000.00, oggetto di anticipazioni effettuate in esecuzione del rapporto o, in subordine, per la risoluzione del contratto per eccessiva onerosità sopravvenuta.

Il tribunale ha accolto la domanda principale, ordinando l’esecuzione delle opere e il pagamento di Euro 245.000,00 a titolo di penale, con rigetto delle riconvenzionali.

La sentenza è stata parzialmente riformata in appello.

La Corte di Catania, ritenuto non pertinente, perchè riguardante altra impresa, l’istanza di recupero del seminterrato, ha stabilito che la società era rimasta totalmente inerte nell’esecuzione dei lavori, nonostante l’avvenuto rilascio della concessione edilizia, cui l’Asap s.r.l. aveva rinunciato per ragioni non riguardanti i fatti dedotti in giudizio, rilevando che fa fattibilità delle opere in progetto era stata attestata da uno studio geologico acquisito al processo.

Ha accolto la richiesta di riduzione della penale, ritenendo che l’importo inizialmente liquidato dal Tribunale non fosse proporzionato all’effettiva entità del danno causato dal ritardo, nè fosse ricollegabile all’utilità che i resistenti intendevano inizialmente conseguire, stimando congruo il minor importo di Euro 125.000.

La cassazione della sentenza è chiesta dalla Asap s.r.l. con ricorso in due motivi.

B.A., B.R., B.V. e B.G. hanno proposto controricorso.

Su proposta del relatore, secondo cui il ricorso, in quanto manifestamente infondato, poteva esser definito ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c., in relazione all’art. 375 c.p.c., comma 1, n. 5, il Presidente ha fissato l’adunanza in camera di consiglio.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il primo motivo censura la violazione degli artt. 1419 e 1419 c.c., degli artt. 115 e 116 c.p.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, per aver la sentenza erroneamente escluso la nullità dell’appalto per la realizzazione di villette sebbene gli scantinati fossero abusivi, non potendosi, in ogni caso, disporre la condanna all’integrale esecuzione dei lavori, permanendo l’impossibilità di realizzare i seminterrati e le opere sovrastanti. Il motivo è infondato.

Nel contratto di appalto avente ad oggetto la costruzione di immobili non conformi alla concessione edilizia, occorre distinguere la difformità totale da quella solo parziale delle opere.

Nel primo caso, che si verifica ove l’edificio sia radicalmente diverso per caratteristiche tipologiche e volumetrie rispetto al progetto approvato dall’amministrazione, l’opera, è da equiparare a quella posta in essere in assenza di concessione, con conseguente nullità del contratto per illiceità dell’oggetto e per violazione di norme imperative; nel secondo caso, che ricorre quando la modifica riguardi parti non essenziali del progetto, il contratto non è inficiato da nullità (Cass. 30703/2018; Cass. 2187/2011).

Nello specifico, il Giudice distrettuale ha escluso la difformità totale dell’opera rispetto al progetto, ponendo in rilievo, in replica al primo motivo di appello (vertente sull’asserita impossibilità di disporre l’esecuzione integrale delle opere), come fosse inconferente anche “ogni riferimento al piano scantinato dell’istanza finalizzata al recupero, in quanto riguardante altra impresa”, stabilendo, altresì, che era stata l’appaltatrice a rinunciare alla già rilasciata concessione edilizia e ciò per ragioni che nulla avevano a che fare con gli impedimenti dedotti in giudizio.

Le suddette conclusioni, vertenti sull’insussistenza del carattere abusivo dei lavori e sulla possibilità di dare esecuzione all’appalto nei termini concordati dalle parti (anche sulla scorta della non pertinenza delle doglianze – afferenti alla realizzazione degli scantinati), involgono accertamenti di merito comunque insindacabili in cassazione sotto i profili dedotti in ricorso.

2. Il secondo motivo censura la violazione degli artt. 1467 e 1469 c.c., degli artt. 115 e 116 c.p.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, per aver la Corte d’appello erroneamente respinto la domanda di risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta, non considerando che l’impossibilità di realizzare gli scantinati aveva reso gli immobili meno appetibili sul piano commerciale, rendendo eccessivamente oneroso anche del prezzo di acquisto del terreno. Si assume inoltre che: a) il giudice di secondo grado, negando il carattere abusivo delle opere, avrebbe reso una sentenza insuscettibile di esecuzione; b) nessun inadempimento poteva imputarsi all’appaltatrice, che aveva fatto il possibile per eseguire il contratto; e) occorreva ulteriormente ridurre la penale, avendo l’impresa anticipato costi rilevanti.

La censura è inammissibile anzitutto nella parte in cui è diretta a travolgere la statuizione di rigetto della domanda di risoluzione per eccessiva onerosità, non confrontandosi con la ratio decidendi della sentenza impugnata.

Il giudice di merito ha negato in fatto (con riferimento ai termini concreti dell’accordo e al contenuto dell’operazione posta in essere dalle parti) qualsivoglia correlazione tra l’appalto delle opere e la vendita del suolo e quindi tra l’entità del prezzo di trasferimento degli immobili e l’impegno a realizzare le villette, per cui il prospettato deprezzamento di queste ultime non poteva in alcun caso incidere sul sinallagma del contratto di vendita, stante la ravvisata autonomia dei due rapporti, pur se contestualmente costituiti. Le censura, non attingendo le conclusioni formulate al riguardo dalla Corte di merito, non può condurre alla cassazione della sentenza. Per altro verso la ricorrente, nel ribadire di non dover rispondere dell’impossibilità di realizzare parte del manufatto, non introduce alcuna argomentazione idonea a confutare quanto motivatamente affermato dal giudice distrettuale, secondo cui l’Asp aveva rinunciato alla concessione edilizia per ragioni diverse dagli evidenziati impedimenti (cfr. sentenza, pag. 5), rendendosi responsabile dei ritardi.

Risultano parimenti inammissibili le ragioni di doglianza sia relativamente alla nullità dell’appalto (già disattese con l’esame del primo motivo di ricorso), sia nel punto in cui sollecitano un’ulteriore riduzione della penale.

Le descritte contestazioni non appaiono supportate da alcuna argomentazione volta ad inficiare il ragionamento che ha condotto la Corte distrettuale ad effettuare già un notevole abbattimento delle somme liquidate a titolo di penale, trascurando inoltre che il giudizio sull’eccessività della penale e sulla misura della riduzione equitativa dell’importo previsto in contratto è affidato al prudente apprezzamento del giudice, il cui esercizio è incensurabile in sede di legittimità se, come nel caso di specie, logicamente motivato (Cass. 23750/2018; Cass. 2231/2012; Cass. 6158/2007). Il ricorso è quindi respinto, con aggravio di spese secondo soccombenza.

Si dà atto che sussistono le condizioni per dichiarare che la ricorrente è tenuta a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per l’impugnazione, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, se dovuto.

PQM

rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese di lite, pari ad Euro 200,00 per esborsi ed Euro 5000,00 per compenso, oltre ad iva, c.p.a. e rimborso forfettario delle spese generali, in misura del 15%.

Da atto che sussistono le condizioni per dichiarare che la ricorrente è tenuto a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per l’impugnazione, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 4 marzo 2020.

Depositato in Cancelleria il 28 luglio 2020

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