Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 15995 del 07/07/2010

Cassazione civile sez. III, 07/07/2010, (ud. 12/04/2010, dep. 07/07/2010), n.15995

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VARRONE Michele – Presidente –

Dott. FEDERICO Giovanni – Consigliere –

Dott. TALEVI Alberto – rel. Consigliere –

Dott. VIVALDI Roberta – Consigliere –

Dott. AMBROSIO Annamaria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

C.S. (OMISSIS) in proprio e quale procuratore generale

di C.E. e di CU.ST. tutti anche quali eredi

di S.A., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA SISTINA

121, presso lo studio dell’avvocato PANUCCIO GIUSEPPE che lo

rappresenta e difende giusta delega a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO in persona del Ministro p.t.; elettivamente

domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA

GENERALE DELLO STATO, da cui è difeso per legge;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 200/2005 della CORTE D’APPELLO di REGGIO

CALABRIA, emessa il 6/10/2005, depositata il 10/10/2005, R.G.N.

296/2003;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

12/04/2010 dal Consigliere Dott. TALEVI Alberto;

udito l’Avvocato GIUSEPPE PANUCCIO;

udito il P.M. in persona dell’Avvocato Generale Dott. FEDELI Massimo

che ha concluso per il rigetto del ricorso.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Nell’impugnata decisione lo svolgimento del processo è esposto come segue.

“…. Con atto notificato il 19 luglio 1991 i sigg.ri C.S., E., P. e C.S. e S.A. citavano innanzi al Tribunale di Reggio Calabria il Ministero dell’Interno, in persona del Ministro pro tempore e, premesso:

– che con distinti contratti avevano dato in locazione al Ministero convenuto, per la durata di sei anni a decorrere dal 20 luglio 1985, le diverse parti di un immobile di loro proprietà sito in (OMISSIS) per essere adibito a caserma dei carabinieri, sala mensa ed autorimessa;

– che il Prefetto, con lettera raccomandata del 28 aprile 1987, aveva rescisso i contratti, pretendendo in tal modo di esercitare la facoltà di recesso unilaterale prevista dall’art. 4 degli stessi;

– che i danni che l’immobile locale aveva subito nel corso del rapporto erano stati quantificati al momento della riconsegna dei locali in L. 65.930.000, ma l’amministrazione locataria aveva versato ai locatori solo la somma di L. 56.930.000, restando così debitrice nei loro riguardi del residuo importo di L. 9.000.000;

Tanto premesso, gli attori chiedevano, in via principale, che il giudice adito, dichiarata l’inefficacia della clausola di cui all’art. 4 dei contratti perchè clausola vessatoria non specificatamente approvata ai sensi dell’art. 1341 c.c. condannasse il Ministero dell’Interno al pagamento dei canoni dovuti sino alla scadenza, con interessi e rivalutazione. In via subordinata, instavano per la condanna de convenuto al pagamento dei canoni dovuti per i sei mesi successivi alla comunicazione del recesso, giusta il disposto dei suddetto art. 4.

Chiedevano in ogni caso la condanna dell’amministrazione convenuta al pagamento della somma di L. 9.000.000.

Costituitosi in giudizio, il Ministero dell’Interno, dopo aver precisato che le parti avevano stipulato in tempi diversi tre differenti contratti di locazione e che la facoltà di recesso era stata esercitata solo con riferimento all’ultimo di essi, essendo i primi due scaduti rispettivamente il 28 febbraio 1997 e il 31 dicembre 1986 a seguito di disdetta comunicata tempestivamente dai locatori, contestava la fondatezza della domanda e ne chiedeva il rigetto, sostenendo che la clausola di cui all’art. 4 del contratto ancora in vigore non poteva essere considerata vessatoria – che nessuna somma era dovuta ai locatori, giacchè l’amministrazione locatario, aveva già versalo loro un indennizzo per i mesi di detenzione sine titulo dei locali dopo la scadenza dei contratti; che, in particolare, l’importo di L. 9.000.000 preteso dagli attori non era dovuto, riguardando il ripristino dell’impianto di riscaldamento, la cui manutenzione ordinaria è posta ex lege a carico del locatore.

Con sentenza del 7 luglio 2003 il Tribunale adito accoglieva la domanda subordinata proposta dagli attori e condannava il Ministero dell’Interno al pagamento della somma di L. 61.568.400, oltre interessi legali, e dell’ulteriore importo di L. 9.000.000, con interessi e rivalutazione, nonchè alle spese di lite. La sentenza veniva impugnata dal Ministero dell’Interno con atto di citazione notificato il 22 aprile 2003.

Resisteva all’impugnazione C.S. il quale si costituiva non in proprio bensì quale procuratore generale delle sorelle E. P. e St..

Disposto dalla Corte il mutamento del rito con ordinanza emessa all’udienza de 19 maggio 2005, la causa veniva decisa all’odierna udienza come da dispositivo, del quale veniva data immediata lettura.

Con sentenza 1 – 10.10.2005 la Corte d’Appello di Reggio Calabria, definitivamente pronunciando, provvedeva come segue.

“… a) dichiara la contumacia degli appellati C.S. e S.A.;

b) in parziale accoglimento dell’appello, dichiara dovuti ai locatori, a causa del recesso contrattuale esercitato dall’amministrazione locatario, le somme corrispondenti a sei mensilità di canoni quali correnti all’atto della comunicazione di recesso, per ciascuno dei tre contratti;

c) condanna l’appellante al pagamento delle suddette somme in favore degli appellati, con gli interessi legali dalla domanda al soddisfo;

d) rigetta la domanda proposta dagli attori in primo grado volta ad ottenere la condanna del Ministero oggi appellante al pagamento della somma di L. 9.000.000;

e) dichiara interamente compensate tra le parti le spese di questo grado del giudizio, confermando la sentenza impugnata nel capo relativo alla statuizione sulle spese del primo grado”.

Contro questa decisione ha proposto ricorso per cassazione C.S. in proprio e quale procuratore generale di C.E. e di Cu.St., tutti anche quali eredi di S.A..

Ha resistito con controricorso il Ministero dell’Interno.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo la parte ricorrente denuncia “VIOLAZIONE E FALSA APPLICAZIONE DEGLI ARTT 1326, 1327 C.C. E DEGLI ARTT. 1362, 1363, 1366 C.C. IN RELAZIONE ALL’ART 360 C.P.C., N. 3; OMESSA ED INSUFFICIENTE MOTIVAZIONE CIRCA UN PUNTO DECISIVO DELLA CONTROVERSIA” esponendo doglianze da riassumere come segue Accertato che i contratti di locazione si sono rinnovati ex L. n. 392 del 1978 ed accertato che il conduttore è obbligato a corrispondere sei mesi di pigione, è illogica ed illegittima la decisione di non riconoscere l’ammontare del canone nell’importo determinato dalla stessa Prefettura, conduttrice ed in parte corrisposto. Si legge a pag. 9 della sentenza: “E invero le somme dovute dal Ministero dell’Interno agli odierni appellati non possono essere determinate – così come ha operaio il Tribunale – sulla scorta della valutazione fatta dall’Ute nella nota in data 11 gennaio 1989 indirizzata alla Prefettura di Reggio Calabria, trattandosi di una valutazione proveniente da un terzo estraneo all’amministrazione appellante, che non risulta essere stata mai trasfusa in un contratto stipulato dalle odierne parti in causa…”. Il Giudice dei Merito ha omesso di considerare che la determinazione del canone è stata espressamente chiesta e demandata dalle parti all’UTE. L’ufficio Tecnico erariale non è soggetto terzo rispetto al Ministero, ma è l’organo tecnico dello Stato stesso. Le parti, sia pure con atti separati, hanno accettato la determinazione effettuata dall’Ute: i locatori con dichiarazione espressa di accettazione, il Ministero non solo con propria nota e contestuale dichiarazione, ma anche con il proprio comportamento. Che la Prefettura abbia riconosciuto di dover corrispondere l’importo determinato dall’Ute si evince:

a) dalla nota del Ministero dell’Interno del 16.9.1989;

b) dai mandati di pagamento effettuati;

c) dalla verifica contabile dell’importo corrisposto. Il comportamento del Ministero, peraltro, altera il rapporto di buona fede, in quanto ha riconosciuto il canone nell’entità determinata dall’Ute, ma poi sostenenendo che la sua obbligazione era limitata al tempo del rilascio e non ai sei mesi intercorrenti dalla data di recesso al rilascio ha omesso di adempiere all’obbligazione di pagamento assunta.

Il motivo non può essere accolto, in quanto la Corte ha esposto una motivazione immune dai vizi denunciati.

Il giudice di secondo grado ha infatti chiaramente, pur se implicitamente, basato il proprio assunto sul principio di diritto secondo il quale “Poichè la P.A. non può assumere impegni e concludere contratti se non nelle forme stabilite dalla legge e dai regolamenti, i contratti conclusi dallo Stato e dagli enti locali (nella specie, contratto di prestazione di servizi) richiedono la forma scritta “ad substantiam”, con esclusione di qualsivoglia manifestazione di volontà implicita o desumibile da comportamenti meramente attuativi; tale regola può dirsi espressione dei principi di buon andamento ed imparzialità della P. A. posti dall’art. 97 Cost., ed assolve a funzione di garanzia del regolare svolgimento dell’attività amministrativa, permettendo di identificare con precisione l’obbligazione assunta ed il contenuto negoziale dell’atto, così controllabile da parte dell’autorità tutoria” (Cass. Sentenza n. 22537 del 26/10/2007).

Ed è in base a detta implicita applicazione che ha ritenuto di doversi attenere al canone contrattuale, dato che la valutazione fatta dall’UTE “…non risulta essere mai stata trasfusa in alcun contralto stipulato dalle odierne parti in causa…” (in altri termini: mancando una valida pattuizione scritta tra le parti in causa avente ad oggetto detta valutazione UTE, non rimane che applicare la previsione contrattuale).

Di fronte a tale ineccepibile giudizio la parte ricorrente ha esposto censure prive di pregio (tra l’altro ed anzitutto in diritto nella parte in cui presuppongono direttamente od indirettamente l’accoglimento di un principio di diritto non coincidente con quello ora enunciato).

Con il secondo motivo la parte ricorrente denuncia “VIOLAZIONE DELL’ART. 360 N. 3 CON RIFERIMENTO AGLI ARTT. 1587 E 1590 C.C.” esponendo doglianze da riassumere come segue. Sul punto la sentenza così si esprime: “…Ed invero, per quanto riguarda la manutenzione dei locali concessi in locazione, le parli, con la clausola n. 6, non solo hanno richiamato le disposizioni di cui agli artt. 1576 e 1609 c.c. (le quali pongono a carico del locatore l’obbligo sia della manutenzione ordinaria che di quella straordinaria, lasciando al conduttore solo le riparazioni di piccola manutenzione), ma altresì hanno espressamente e specificatamente previsto che “il proprietario locatore si obbliga a dotare i locali di impianto elettrico e alla sua manutenzione e inoltre a fornire e mantenere in efficienza i mezzi di riscaldamento…”. Sicchè – contrariamente a quanto affermato dal Tribunale – non può essere riconosciuta ai locatori fa somma di L. 9.000.000 pretesa per il ripristino dell’impianto di riscaldamento, la relativa spesa essendo a loro carico. La sentenza sul punto deve essere, perciò, riformata.”. Non vi è dubbio che i locatori avevano l’obbligo (adempiuto) di provvedere alla manutenzione dell’impianto ma la questione verte non in ordine a tale obbligo, ma in ordine alla condizione dello stesso impianto che, quando l’immobile è stato riconsegnato, era danneggiato e non nelle condizioni in cui era stato originariamente consegnato. La prova che il deterioramento era da imputare a vetustà o omessa manutenzione era a carico della parte locataria, che non l’ha fornita. I ricorrenti, invece, hanno dato prova attraverso l’esibizione del verbale di consegna e l’accertamento dell’Ute che l’impianto era funzionante e che lo stesso non è stato riconsegnato nelle stesse condizioni in cui, originariamente era stato oggetto di consegna, anzi dal verbale di riconsegna si evince che proprio nel mese di marzo 1987 la sig.ra S. aveva completato un intervento di manutenzione, mentre a distanza di soli tre mesi, cioè in occasione del rilascio l’impianto,è consegnato danneggiato, tanto che l’UTE stima il danno conseguente in L. 9.000.000.

Il motivo di ricorso non può essere accolto.

La mera circostanza che i locatori non abbiano ricevuto in restituzione l’impianto di riscaldamento nelle stesse condizioni in cui lo stesso è stato consegnato non potrebbe in ogni caso ritenersi di per sè sufficiente a sorreggere le loro conclusioni; se la diversità di condizioni derivasse dal normale deterioramento o consumo risultante dall’uso della cosa in conformità del contratto (e nulla nell’assunto in questione prospetta ritualmente in concreto una diversa causa) la tesi in esame dovrebbe ritenersi infatti infondata (anzitutto in diritto) sulla base della stessa normativa invocata nel motivo di ricorso.

Detto motivo (per avere un senso) sembra dunque presupporre (ma tale insufficiente chiarezza è già da sola una sufficiente causa di inammissibilità) che nella specie la riconsegna in condizioni diverse da quelle originarie consista nella presenza di danni ulteriori rispetto a quelli derivanti da normale deterioramento o consuma risultante dall’uso della cosa in conformità del contratto (secondo l’espressione usata da legislatore nell’art 1590 c.c. espressamente citato nei ricorso); ed in particolare rispetto ai danni prevenibili e/o superabili con la suddetta manutenzione.

Le doglianze in esame, così interpretate (se la tesi difensiva fosse diversa, le doglianze medesime dovrebbero essere considerate inammissibili in quanto ancor più prive della necessaria specificità e chiarezza) debbono però ritenersi (prima ancora che prive di pregio) inammissibili pure per le seguenti ragioni. Proprio in quanto un assunto difensivo nei termini predetti non è stato considerato nel l’impugnata decisione, la parte ricorrente avrebbe dovuto indicare ritualmente se e sulla base di quali atti, nonchè – per il principio di autosufficienza del ricorso, cfr. tra le altre Cass. Sentenza n. 6807 del 21/03/2007; Cass. Sentenza n. 15952 del 17/07/2007 – in che termini, le tesi medesime (circa detti danni ulteriori nel senso suddetto) erano state sottoposte al giudizio del Giudice di primo grado e perchè (in qual modo ed in che termini) erano entrate a far parte della materia processuale di secondo grado (cfr. tra le altre Cass. Sentenza n. 20518 del 28/07/2008: “Ove una determinata questione giuridica – che implichi un accertamento di fatto – non risulti trattata in alcun modo nella sentenza impugnata, il ricorrente che proponga detta questione in sede di legittimità ha l’onere, ai fine di evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura, non solo di allegare l’avvenuta deduzione della questione innanzi al giudice di merito, ma anche di indicare in quale atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Corte di Cassazione di controllare “ex actis” la veridicità di tale asserzione prima di esaminare nel merito la questione stessa”; cfr, anche Cass. N. 14590 del 2005). Una ulteriore autonoma ragione di inammissibilità va ravvisata nella circostanza che gli asseriti danni in questione non vengono ritualmente (ed in particolare analiticamente) specificati in concreto (quanto a natura, entità ecc); una terza ragione autonoma di inammissibilità consiste nella mancata rituale (ed in particolare analitica) indicazione delle prove degli asseriti danni e del loro contenuto (non bastando un generico rinvio alle affermazioni dell’UTE).

La predetta mancanza di pregio deriva dalla non configurabilità (comunque) dei vizi in questione con riferimento alla decisione impugnata (si consideri tra l’altro che l’onere probatorio incombeva sugli attuali ricorrenti in quanto originari attori).

Con il terzo motivo la parte ricorrente denuncia “VIOLAZIONE DELL’ART. 360 N. 3 CON RIFERIMENTO ALL’ART. 92 C.P.C.” esponendo che la sentenza è errata nella parte in cui ha ritenuto di dover compensare le spese relative al giudizio di secondo grado; essendo stato evidenziato che il Ministero era soccombente; con la conseguenza che lo stesso avrebbe dovuto essere condannato al pagamento delle spese e competenze del giudizio di secondo grado. Anche il motivo in esame deve ritenersi privo di pregio in considerazione:

-A) di quanto sopra esposto;

-B) del fatto che la motivazione sul punto esposta nell’impugnata sentenza è impeccabile.

Sulla base di quanto sopra esposto il ricorso va respinto.

La complessità della fattispecie costituisce giusto motivo per compensare le spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

LA CORTE rigetta il ricorso; compensa le spese del giudizio di cassazione.

Così deciso in Roma, il 12 aprile 2010.

Depositato in Cancelleria il 7 luglio 2010

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