Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 15983 del 27/07/2020

Cassazione civile sez. VI, 27/07/2020, (ud. 05/03/2020, dep. 27/07/2020), n.15983

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE T

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MOCCI Mauro – Presidente –

Dott. CAPRIOLI Maura – rel. Consigliere –

Dott. LA TORRE Maria Enza – Consigliere –

Dott. DELLI PRISCOLI Lorenzo – Consigliere –

Dott. RAGONESI Vittorio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 13609-2019 proposto da:

POLTI SPA, in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA ANTONIO BERTOLONI, 55, presso

lo studio dell’avvocato SIMONE STEFANELLI, rappresentata e difesa

dall’avvocato RICCARDO CORBETTA;

– ricorrente –

contro

COMUNE DI BULGAROGRASSO, in persona del Sindaco pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA, VIA A. GRAMSCI 14, presso lo

studio dell’avvocato ANTONELLA GIGLIO, che lo rappresenta e difende

unitamente all’avvocato LUCA ARIGO’;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 789/8/2019 della COMMISSIONE TRIBUTARIA

REGIONALE della LOMBARDIA, depositata il 21/02/2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 05/03/2020 dal Consigliere Relatore Dott. MAURA

CAPRIOLI.

 

Fatto

RITENUTO CHE:

La CTR di Lombardia rigettava l’appello proposto dalla società Politi s.p.a. avverso la sentenza della CTP di Como con cui era stato parzialmente accolto il ricorso della contribuente in relazione agli avvisi di accertamento Tarsu 2011 e 2012 emessi dal Comune di Bulgarograsso

Rilevava la correttezza dell’operato del Comune che aveva proceduto ai necessari sopraluoghi alla presenza dei responsabili delle aree produttive e di quelle in cui si formano gli imballaggi primari e secondari.

Osservava, per quanto attiene alla denunciata illegittimità del Regolamento comunale, limitatamente alla parte in cui non sarebbero stati determinati in modo certo, i criteri qualitativi e quantitativi di assimilazione dei rifiuti speciali a quelli solidi urbani la genericità della contestazione unitamente alla carenza della prova che i rifiuti fossero smaltiti dalla società in modo alternativi assicurati dall’ente impositore.

Avverso tale sentenza la società Politi s.p.a. propone due motivi di corso cui resiste con controricorso il Comune di Bulgarograsso.

Diritto

CONSIDERATO CHE:

Con il primo motivo la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 198, comma 2, lett g), e del D.Lgs. n.22 del 1997, art. 21, comma 2, lett g)

Sostiene la società, che mancando all’interno della delibera comunale di assimilazione dei rifiuti speciali a quelli urbani la ” specificazione dei limiti quantitativi”, detta delibera sarebbe illegittima e come tale avrebbe dovuto essere disapplicata dal giudice di appello con il conseguente annullamento degli avvisi di accertamento impugnati.

Il motivo è infondato.

il D.Lgs. 5 febbraio 1997, n. 22, art. 21, comma 2, lett. g), come è noto, ha attribuito ai Comuni la facoltà di assimilare o meno ai rifiuti urbani quelli derivanti dalle attività economiche.

Con riferimento alle annualità di imposta dal 1997 in poi, assumono quindi decisivo rilievo le indicazioni dei regolamenti comunali circa l’assimilazione dei rifiuti provenienti dalle attività economiche ai rifiuti urbani ordinari (Vedi Cass. n. 21342 del 2008; Cass. n. 14816 del 2010 e Cass. n. 22223 del 2016), in quanto con l’entrata in vigore del D.Lgs. n. 22 del 1997, è stato restituito ai Comuni (cfr Cass. n. 18303 e n. 18382 del 2004) il potere di assimilare ai rifiuti urbani ordinari alcune categorie di rifiuti speciali, fra cui quelli prodotti da ditte commerciali, anche “per qualità e quantità” (art. 21, comma 2, lett. g).

Il D.Lgs. n. 22 del 1997, emanato in attuazione delle Dir. 91/156/CEE sui rifiuti, 91/689/CEE sui rifiuti pericolosi e 94/62/CE sugli imballaggi e sui rifiuti di imballaggio, ha previsto, nel Titolo I (“Gestione dei rifiuti”), che:

a) la gestione dei rifiuti costituisce attività di pubblico interesse ed è disciplinata al fine di assicurare un’elevata protezione dell’ambiente e controlli efficaci; i rifiuti devono essere recuperati o smaltiti senza pericolo per la salute dell’uomo e senza usare procedimenti o metodi che potrebbero recare pregiudizio all’ambiente (art. 2, commi 1 e 2);

b) le autorità competenti favoriscono il recupero dei rifiuti, nelle varie forme previste (reimpiego, riciclaggio, ecc), allo scopo di ridurre lo smaltimento dei rifiuti, che costituisce la fase residuale della “gestione” degli stessi, la quale comprende le operazioni di raccolta, trasporto, recupero e smaltimento (artt. 4 e 5, e art. 6, comma 1, lett. d);

c) sono rifiuti “urbani”, tra l’altro, quelli non pericolosi provenienti da locali e luoghi adibiti ad usi diversi da quello di civile abitazione, assimilati ai rifiuti urbani per qualità e quantità, ai sensi dell’art. 21, comma 2, lett. g), mentre sono rifiuti “speciali”, tra l’altro, quelli “da attività commerciali” (art. 7, comma 2, lett. b, e comma 3, lett. e);

d) i comuni “effettuano la gestione dei rifiuti urbani e dei rifiuti assimilati avviati allo smaltimento in regime di privativa”; con appositi regolamenti stabiliscono, fra l’altro, “le disposizioni necessarie a ottimizzare le forme di conferimento, raccolta e trasporto dei rifiuti primari di imballaggio”, nonchè “l’assimilazione per qualità e quantità dei rifiuti speciali non pericolosi ai rifiuti urbani ai fini della raccolta e dello smaltimento”; la privativa suddetta “non si applica (….) alle attività di recupero dei rifiuti assimilati” (dal 1 gennaio 2003, “alle attività di recupero dei rifiuti urbani o assimilati”, ai sensi della L. n. 179 del 2002, art. 23) (art. 21, comma 1, comma 2, lett. e) e g), e comma 7).

Come in precedenza già evidenziato, lo stesso decreto, art. 49, ha istituito la “tariffa per la gestione dei rifiuti urbani” (usualmente denominata TIA, “tariffa di igiene ambientale”), in sostituzione della soppressa TARSU, prevedendo, in particolare, nella modulazione della tariffa, agevolazioni per la raccolta differenziata, “ad eccezione della raccolta differenziata dei rifiuti di imballaggio, che resta a carico dei produttori e degli utilizzatori” (comma 10), e disponendo altresì che “sulla tariffa è applicato un coefficiente di riduzione proporzionale alle quantità di rifiuti assimilati che il produttore dimostri di aver avviato al recupero mediante attestazione rilasciata dal soggetto che effettua” detta attività (comma 14).

Dalla lettura organica di tali disposizioni si evince che costituisce regola generale quella secondo cui la privativa comunale opera sempre in presenza di rifiuti urbani e assimilati; che tuttavia, per i rifiuti assimilati, in caso di comprovato avviamento al recupero ai sensi del decreto Ronchi, art. 21, comma 7, sussiste la possibilità di un esonero dalla privativa comunale che determina, non già la riduzione della superficie tassabile, prevista dal D.Lgs. n. 507 del 1993, art. 62, comma 3, istitutivo della TARSU, per il solo caso di produzione di rifiuti speciali (non assimilabili o non assimilati), bensì il diritto ad una riduzione tariffaria determinata in concreto – a consuntivo – in base a criteri di proporzionalità rispetto alla quantità effettivamente avviata al recupero (in virtù di quanto previsto, in generale, già dal D.Lgs. n. 507 del 1993, art. 67, comma 2, e poi, più specificamente, dal decreto Ronchi, art. 49, comma 14, e dal D.P.R. n. 158 del 1999, art. 7, comma 2). (Vedi Cass. Sez. 5 n. 9731 del 2015)

Il D.P.R. n. 158 del 1999, art. 7, che nella fase transitoria può essere applicato dai comuni anche ai fini della TARSU, nell’approvare il “metodo normalizzato per la determinazione della tariffa di riferimento per la gestione dei rifiuti urbani”, prevede, infatti, non già l’esenzione dall’imposta, ma soltanto una sua riduzione nel caso in cui i rifiuti speciali assimilati a quelli urbani vengano avviati a recupero direttamente dal produttore, purchè il servizio sia istituito e sussista la possibilità dell’utilizzazione.

Ai produttori di rifiuti assimilati che dimostrino di aver avviato al recupero i rifiuti stessi, è riconosciuta, dunque, a norma del D.Lgs. n. 22 del 1997, la possibilità di sottrarsi entro certi limiti alla privativa comunale; presupposto dell’esonero, e della conseguente riduzione proporzionale del tributo, è la qualificazione del rifiuto come assimilabile all’urbano.

Tanto premesso, occorre verificare se, ai fini dell’assimilazione dei rifiuti speciali non pericolosi ai rifiuti urbani, sia sufficiente un criterio qualitativo, e quindi la mera riconducibilità del rifiuto ad una delle tipologie di cui alla deliberazione CIPE del 27 luglio 1984, o sia necessario combinare tale criterio con quello quantitativo, che renda almeno astrattamente possibile uno smaltimento degli stessi ad opera del servizio pubblico di raccolta.

Tale verifica ha una evidente ricaduta sulla legittimità o meno di quelle disposizioni dei regolamenti comunali che prevedono l’assimilazione del rifiuto sulla base del solo criterio qualitativo e non anche di quello quantitativo.

Su tale questione deve rilevarsi, all’interno di questa stessa sezione della Corte, la presenza di pronunce in apparente contrasto.

Secondo un precedente orientamento la dichiarazione di assimilazione dei rifiuti speciali non pericolosi a quelli urbani, prevista dal del D.Lgs. n. 22 del 1997, art. 21, comma 2, presuppone, necessariamente, la concreta individuazione delle caratteristiche, non solo qualitative, ma anche quantitative dei rifiuti speciali, poichè l’impatto igienico ed ambientale di un materiale di scarto non può essere valutato a prescindere dalla sua quantità (Vedi Cass. Sez. 5, n. 30719 del 2011; Cass. Sez. 5 n. 9631 del 2012; Cass. Sez. 6-5, n. 18018 del 2013).

Da tale indirizzo si è apparentemente discostata Cass. Sez 5 n. 9214 del 2018, affermando che, ai sensi del D.Lgs. n. 22 del 1997, artt. 7,10 e 21, sono soggetti a tassazione i rifiuti speciali non pericolosi, se assimilati ai rifiuti solidi urbani da una delibera comunale, e ciò anche nell’ipotesi in cui la stessa non ne individui le caratteristiche quantitative e qualitative, spettando al contribuente solo una riduzione tariffaria in base a criteri di proporzionalità, nel caso in cui dimostri una riduzione della superficie tassabile ovvero che i rifiuti speciali siano avviati a recupero direttamente dal produttore, purchè il servizio pubblico di raccolta e smaltimento sia istituito e sussista la possibilità per l’istante di avvalersene.

I due orientamenti sono tuttavia passibili di una composizione, che trova conforto nell’interpretazione letterale e sistematica del dato normativo, se applicati entrambi con le seguenti precisazioni.

L’utilizzo del criterio combinato della qualità e quantità trova il suo principale argomento giustificativo nel D.Lgs. n. 22 del 1997, art. 21, che, nel definire le competenze del Comune in materia, al comma 2, lett. g), fa riferimento ad una “assimilazione per qualità e quantità dei rifiuti speciali non pericolosi ai rifiuti urbani ai fini della raccolta e dello smaltimento”.

Tale doppio criterio corrisponde anche alla “ratio legis”, da individuarsi sia nella necessità di escludere ogni ipotesi di danno ambientale correlato alla raccolta e allo smaltimento del rifiuto assimilato, sia in quella di assicurare una gestione dei rifiuti urbani da parte dei Comuni ispirata a principi di efficienza, efficacia ed economicità; è evidente che tali finalità possono essere garantite solo predeterminando, almeno astrattamente, la quantità di rifiuto assimilabile conferibile, non essendo ipotizzabile un servizio pubblico di smaltimento di potenzialità illimitata rispetto ad un rifiuto per definizione non uguale a quello urbano, seppure ad esso assimilabile perchè non pericoloso.

Predeterminare se un rifiuto è assimilabile o meno per qualità e quantità è dunque accertamento preliminare indispensabile, in quanto, nel caso in cui la potestà di assimilazione attribuita dalla norma di legge ai Comuni sia stata correttamente esercitata, il contribuente non potrà mai beneficiare di una esenzione totale dal tributo, sebbene l’intera superficie imponibile sia produttiva di rifiuti assimilati e si avvalga per l’intero dello smaltimento; in tal caso infatti avrà solo diritto ad una riduzione della tariffa, prevista dal decreto Ronchi, art. 49, comma 14, e dal D.P.R. n. 158 del 1999, art. 7, comma 2.

Nell’ipotesi in cui l’assimilazione non sia stata legittimamente disposta dall’ente locale, per violazione del criterio qualitativo, o anche per l’omessa previsione dell’ulteriore criterio quantitativo, non si rientrerà, invece, nel campo di operatività del D.Lgs. n. 22 del 1997, art. 21, ma, previa disapplicazione della delibera comunale illegittima per contrasto con il D.Lgs. n. 22 del 1997, art. 21, comma 2, lett. g), dovrà trovare applicazione solo la pregressa disciplina che in tema di rifiuti speciali prevedeva al D.Lgs. n. 507 del 1993, art. 62, comma 3, la possibilità di una esenzione o riduzione delle superfici tassabili.

E noto che il potere-dovere del giudice tributario di disapplicare gli atti amministrativi costituenti il presupposto dell’imposizione è espressione del principio generale dell’ordinamento, contenuto nella L. 20 marzo 1865, n. 2248, art. 5, allegato E, dettato dall’interesse, di rilevanza pubblicistica, all’applicazione in giudizio di tali atti solo se, ed in quanto, legittimi.

Ne consegue che detto potere deve essere esercitato – purchè gli atti in questione siano stati investiti dai motivi di impugnazione dedotti dal contribuente in relazione all’atto impositivo impugnato anche d’ufficio, ed indipendentemente dall’avvenuta impugnazione dell’atto avanti al giudice amministrativo, con il solo limite dell’eventuale giudicato amministrativo diretto di affermata legittimità dell’atto. (Vedi Cass. Sez. U n. 6265 del 2006; Cass. Sez. 5 n. 9631 del 2012 e Cass. Sez. 5 n. 1942 del 2019).

Disapplicata la delibera, l’esercizio illegittimo del potere di assimilazione potrà essere equiparato al mancato esercizio del potere di assimilazione dei rifiuti speciali ai rifiuti solidi urbani da parte del Comune, rispetto al quale si è già affermato da questa Corte che ” non comporta che detti rifiuti siano, di per sè, esenti dalla tassa, in quanto essi sono soggetti alla disciplina stabilita per i rifiuti speciali dal D.Lgs. n. 507 del 1993, art. 62, comma 3 (applicabile ratione temporis), che rapporta la stessa alle superfici dei locali occupati o detenuti, con la sola esclusione della parte della superficie in cui, per struttura e destinazione, si formano esclusivamente i rifiuti speciali non assimilati. (Cass. Sez. 5, n. 1975/2018, Zoso, Rv. 646900-01).

Il D.Lgs. n. 507 del 1993, art. 62, comma 3, prevede che “nella determinazione della superficie tassabile non si tiene conto di quella parte di essa ove per specifiche caratteristiche strutturali e per destinazione si formano, di regola, rifiuti speciali, tossici o nocivi, allo smaltimento dei quali sono tenuti a provvedere a proprie spese i produttori stessi in base alle norme vigenti. Ai fini della determinazione della predetta superficie non tassabile il Comune può individuare nel regolamento categorie di attività produttive di rifiuti speciali tossici o nocivi alle quali applicare una percentuale di riduzione rispetto alla intera superficie su cui l’attività viene svolta”.

Va infine ricordato che l’esonero da tassazione previsto dal citato art. 62, comma 3, per le superfici di formazione di rifiuti speciali smaltiti in proprio integra comunque un’eccezione, i cui presupposti spetterà al contribuente allegare e provare (Vedi Cass. 9 marzo 2004, n. 4766; Cass. 14 gennaio 2011, n. 775; Cass. 31 luglio 2015, n. 16235), e che la facoltà di individuare categorie di attività produttive di rifiuti speciali cui applicare una percentuale di riduzione, attribuita ai Comuni dalla stessa norma esige uno specifico esercizio regolamentare, restando, in difetto, le superfici esenti da tassazione (Cass., Sez. un., 30 marzo 2009, n. 7581; Cass. Sez. 5 n. 9630 del 2012; Cass. Sez. 5 n. 10548 del 2017).

Nella specie risulta pacifico,pur rilevandosi che la con delibera c.c. n. 16del 1998 il Comune abbia provveduto unicamente all’individuazione dei criteri qualitativi e non quantitativi dei rifiuti assimilati e quindi non abbia esercitato correttamente il potere che la legge attribuisce allo stesso la conseguenza che la ricorrente ne vuole far discendere non è l’inapplicabilità del tributo ma l’esenzione della tassazione ai sensi del D.Lgs. n. 507 del 1993, art. 62, comma 3, della sola parte in cui si formano in via esclusiva rifiuti speciali non assimilati. Esenzione che è stata esclusa dalla CTR,alla stregua della documentazione prodotta,con una valutazione in fatto insindacabile in sede di legittimità.

Con un secondo motivo la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in relazione al D.Lgs. n. 22 del 1997, art. 43, comma 20, e al D.Lgs. n. 507 del 1993, art. 62, comma 3, omesso esame di un fatto decisivo della controversia ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, in merito alla intassabilità dei magazzini per la natura speciale dei rifiuti ivi prodotti, violazione dell’art. 116 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4.

Lamenta in particolare che la Commissione Tributaria Regionale non avrebbe considerato che i rifiuti speciali costituiti dagli imballaggi secondari e terziari non potevano essere assimilati ai rifiuti solidi urbani.

Critica la valutazione del materiale probatorio da parte del giudice di appello sostenendo di aver dimostrato il conferimento dei rifiuti non assimilati a soggetti autorizzati limitandosi il Comune a smaltire unicamente i rifiuti prodotti da uffici e servizi annessi.

Il motivo deve essere ritenuto inammissibile poichè si fa richiesta, in sede di legittimità, di svolgere nuova valutazione degli elementi istruttori.

Come già in molte occasioni affermato “l’esame dei documenti esibiti e delle deposizioni dei testimoni, nonchè la valutazione dei documenti e delle risultanze della prova testimoniale, il giudizio sull’attendibilità dei testi e sulla credibilità di alcuni invece che di altri, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale, nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata (ex multis Cass. n. 19011/2017; Cass.n. 16056/2016).

La valutazione richiesta non può neppure trovare sponda sul versante dell’esame della motivazione e della sua denunciata carenza e contraddittorietà, in quanto le Sezioni Unite di questa Corte, con la sentenza n. 8053/2014 hanno chiarito che “La riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni

inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente

incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione”.

L’assenza di precise indicazioni inerenti una delle ipotesi sopra enunciate rende quindi inammissibile la censura nella parte in pretende di sottoporre ad un sindacato di legittimità la ricostruzione di fatto operata dal giudice di merito il quale ha escluso, sulla base della documentazione prodotta,che la contribuente abbia provato di avviare autonomamente allo smaltimento i rifiuti che provengono da aree adibite a magazzino.

Il ricorso va rigettato.

Le spese della fase di legittimità seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo secondo i criteri di legge vigenti.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità in favore della controricorrente, che liquida in Euro 4500,00 oltre il 15% per spese generali, IVA e C.N.P.A., come per legge; dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

Così deciso in Roma, il 4 marzo 2020.

Depositato in Cancelleria il 27 luglio 2020

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