Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 15966 del 27/06/2017


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Cassazione civile, sez. lav., 27/06/2017, (ud. 29/03/2017, dep.27/06/2017),  n. 15966

 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI CERBO Vincenzo – Presidente –

Dott. CURCIO Laura – Consigliere –

Dott. DE GREGORIO Federico – Consigliere –

Dott. ESPOSITO Lucia – rel. Consigliere –

Dott. CINQUE Guglielmo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 29199/2015 proposto da:

P.G., C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in

ROMA, PIAZZA EUCLIDE 47, presso lo studio dell’avvocato CARLO

FERRUCCIO LA PORTA, che lo rappresenta e difende unitamente

all’avvocato ALESSANDRO MENCONI, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

LUNEZIA ALIMENTARIA S.R.L. C.F. (OMISSIS), in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE

G. MAZZINI 134, presso lo studio dell’avvocato CLAUDIO SADURNY, che

la rappresenta e difende unitamente agli avvocati ALBERTO ARPESELLA,

ALFONSO FERRO, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 303/2015 della CORTE D’APPELLO di GENOVA,

depositata il 12/10/2015 R.G.N. 163/2015;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

29/03/2017 dal Consigliere Dott. LUCIA ESPOSITO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FINOCCHI GHERSI Renato, che ha concluso per l’inammissibilità o in

subordine rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato LA PORTA CARLO FERRUCCIO;

udito l’Avvocato FERRO ALFONSO e l’Avvocato SADURNY CLAUDIO.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. La Corte d’appello di Genova, con sentenza del 12 ottobre 2015, respinse il reclamo proposto da P.G. nei confronti di Lunezia Alimentaria s.r.l. avverso la sentenza del giudice di primo grado che aveva confermato l’ordinanza emessa a seguito della fase sommaria con la quale era stata rigettata l’impugnativa del licenziamento disciplinare per giusta causa intimato al predetto lavoratore il 9 settembre 2013.

2. Al P., dipendente della società con mansioni di piazzista, era addebitato di essersi appropriato di merce mediante falsa indicazione dei “resi”. Rilevò la Corte che assumevano valore determinante ai fini della prova degli addebiti, almeno con riferimento alle condotte contestate relativamente alle giornate del 25, 26, 27 e 29 luglio 2013, le anomalie riscontrate dalla datrice di lavoro circa le risultanze del palmare in dotazione al P., nel quale venivano inseriti dati relativi ai resi giornalieri. Era stato accertato, infatti, che i resi consegnati al magazziniere e riportati in fattura non corrispondevano per difetto ai dati relativi ai resi contenuti nel palmare. Ritenne la Corte che le risultanze richiamate consentivano di presumere che la differenza (maggior reso rispetto a quello riconsegnato) fosse stata oggetto di appropriazione da parte del medesimo P.. Gli illeciti, anche in relazione ai limitati periodi indicati, erano ritenuti dalla Corte di per sè adeguati, per gravità, a compromettere irrimediabilmente il vincolo fiduciario instaurato tra le parti.

2. Avverso la sentenza propone ricorso per cassazione il ricorrente sulla base di 10 motivi, illustrati con memoria. Resiste con controricorso la società.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo il ricorrente deduce nullità della sentenza, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, violazione dell’art. 132, n. 4 e dell’art. 118 disp. att. c.p.c., in correlazione alla L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 5, art. 2697 c.c., art. 115 c.p.c. ed all’art. 116 c.p.c.. Rileva l’inidoneità della pretesa “discordanza documentale” (tra i resi consegnati al magazziniere e riportati in fattura e i dati relativi ai resi risultanti dal palmare) a rappresentare prova valida e sufficiente del fatto materiale dell’appropriazione, anche in relazione all’attività di verifica mediante inventario dei resi svolta dalla società e in relazione alle mansioni di 2^ livello piazzista attribuite al lavoratore.

1.2. Il motivo, rubricato come violazione delle norme sul procedimento, concerne in realtà l’erronea valutazione delle risultanze istruttorie. Lo stesso, pertanto, è inammissibile perchè si limita a proporre una valutazione degli elementi istruttori alternativa rispetto a quella offerta in sentenza, in tal modo sottoponendo alla Corte di legittimità questioni di mero fatto atte a indurre a un preteso nuovo giudizio di merito precluso in questa sede (cfr. Cass. del 28/11/2014 n. 25332).

2. Con il secondo motivo deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione dell’art. 2727 c.c. e dell’art. 2729 c.c. in correlazione alla L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 5, all’art. 2697 e agli artt. 115 e 116 c.p.c.. Rileva che, anche a voler far sorgere dalla pretesa discordanza documentale tra i resi risultanti dal palmare e quelli indicati nelle fatture che le merci fossero realmente mancanti, tale presunzione non poteva ritenersi idonea a legittimare altra presunzione, in forza della quale gli stessi resi erano stati sottratti dal P., trattandosi di doppia presunzione espressamente vietata dall’art. 2727 c.c..

2.2. Il motivo è infondato. Erroneamente, infatti, la mancanza delle merci è indicata come desunta in termini di presunzione dalla discordanza tra le risultanze documentali relative ai resi e quelle risultanti dai dati inseriti nel palmare, laddove si tratta in realtà di un fatto acquisito come noto in virtù di una prova diretta, fatto sul quale ben può fondarsi il ragionamento presuntivo in forza del quale si è giunti all’accertamento della condotta appropriativa, senza che si incorra in una non consentita ipotesi di presumptio de presunto.

3. Con il terzo motivo il ricorrente deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione dell’art. 2909 c.c. in correlazione alla L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 5, all’art. 2697 c.c. ed agli artt. 115 e 116 c.p.c.. Rileva l’inattendibilità dei testi le cui deposizioni erano state poste a fondamento dell’accusa. Osserva, altresì, che la Corte territoriale perviene ad un accertamento di attendibilità del teste A. attraverso la palese violazione del giudicato sostanziale interno ex art. 2909 c.c., in relazione alla decisione contenuta nell’ordinanza pronunciata dal giudice di prime cure.

3.2. Anche la terza doglianza è priva di fondamento. Premesso che nella specie non risulta formulata alcuna censura sotto il profilo del vizio motivazionale e che la sentenza indica in maniera coerente e diffusa le ragioni che hanno determinato il giudizio riguardo all’attendibilità dei testi, giova richiamare al riguardo il principio in forza del quale “L’esame dei documenti esibiti e delle deposizioni dei testimoni, nonchè la valutazione dei documenti e delle risultanze della prova testimoniale, il giudizio sull’attendibilità dei testi e sulla credibilità di alcuni invece che di altri, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale, nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata” (Cass. 2/08/2016 n. 16056). Improprio si rivela, poi, il richiamo al giudicato sostanziale con riguardo al giudizio riguardo l’attendibilità di un teste, il quale non solo non integra una statuizione, ma è reso per di più nell’ambito della fase sommaria, destinata ad essere superata a seguito della pronuncia a cognizione piena.

4. Deduce, ancora, il ricorrente, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione dell’art. 214 c.p.c., dell’art. 216 c.p.c., nonchè della L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 48 e dell’art. 416 c.p.c., comma 3, in correlazione alla L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 5, all’art. 2697 c.c. ed agli artt. 115 e 116 c.p.c.. Osserva che la Corte territoriale ha dato per scontato che il P. avesse effettivamente consegnato alla società nelle giornate del 25, 26, 27, e 29 luglio 2013 stampe contenenti indicazioni parziali dei resi, mentre tale circostanza, trovando fondamento nella sola deposizione del teste A.G., rispetto al quale difettava l’attendibilità, non era da ritenere adeguatamente dimostrata.

5. Con il quinto motivo il ricorrente deduce, altresì, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione dell’art. 244 c.p.c., in correlazione all’art. 253 c.p.c., art. 421 c.p.c., L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 5, art. 2697 c.c. ed agli artt. 115 e 116 c.p.c.. Rileva che nella ricostruzione degli accadimenti la Corte territoriale pone a fondamento non fatti storici riferiti dal teste A.G. ma mere valutazioni tecniche in relazione al funzionamento del palmare (“il teste ha spiegato che il piazzista non poteva cancellare i dati inseriti nel palmare, trattandosi di un’operazione impossibile, poteva, però stampare i dati immessi fino a quel momento, e inserire successivamente ulteriori dati relativi alle operazioni irregolari”).

6. Deduce, ancora, il ricorrente, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, nullità della sentenza in violazione dell’art. 132 c.p.c., n. 4 e dell’art. 118 disp. att. c.p.c., in correlazione alla L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 5, art. 2697 c.c., art. 115 c.p.c. ed all’art. 116 c.p.c.. Osserva che, poichè nessuna legittima prova è stata fornita dalla società riguardo alla sottrazione di merce tramite la redazione di documentazione falsa, resta la possibilità per il lavoratore di fornire la prova del carattere ritorsivo del licenziamento in relazione alle rivendicazioni economiche dallo stesso avanzate, sussistendone i presupposti.

7. Con la settima doglianza il ricorrente deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione della L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 5, in correlazione all’art. 2697 c.c.. Osserva che la sentenza, oltre che illogica e incomprensibile, si rivela contraria alle citate norme di legge laddove giustifica la differenziazione tra la sanzione irrogata al P. e quella irrogata agli altri dipendenti.

7.1. Le doglianze da 4 a 7 sono inammissibili poichè tutte attinenti a valutazioni delle risultanze istruttorie alternative rispetto a quelle espressa in sentenza, non sindacabili in sede di legittimità. Nè può valere, quanto al motivo sub 5, il rilievo attinente alla considerazione da parte della Corte territoriale di valutazioni tecniche espresse dal teste, poichè alcuna violazione delle norme attinenti all’esame testimoniale viene in considerazione, avendo il teste riferito in ordine alle modalità di funzionamento del palmare e, quindi, su un fatto, senza esprimere giudizi tecnici o apprezzamenti. In ordine, poi al motivo sub 7 si evidenzia che, a fronte della puntuale indicazione da parte della Corte territoriale riguardo alle ragioni che inducono a ritenere meno gravi le condotte contestate ad altri due lavoratori, il ricorrente si limita genericamente a proporre una sua diversa interpretazione delle risultanze processuali sul punto.

8. Deduce ancora il ricorrente, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione della L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 7, comma 2 e degli artt. 1175 e 1375 c.c.. Rileva che il lavoratore, nonostante le reiterate e formali richieste di poter visionare la documentazione aziendale afferente l’addebito, ha dovuto subire un procedimento disciplinare “al buio” senza avere la possibilità di difendersi. Poichè la ricostruzione fattuale dell’addebito si fonda sul mero esame e confronto di documenti disposizioni aziendali, stampe dei resi, palmare e fatture; il rifiuto di far visionare la documentazione aveva di fatto impedito ogni difesa.

8.2. Il motivo è infondato. Questa Corte ha già chiarito che “La L. n. 300 del 1970, art. 7, non prevede, nell’ambito del procedimento disciplinare, l’obbligo per il datore di lavoro di mettere a disposizione del lavoratore, nei cui confronti sia stata elevata una contestazione di addebiti di natura disciplinare, la documentazione aziendale relativa ai fatti contestati, restando salva la possibilità per il lavoratore medesimo di ottenere, nel corso del giudizio ordinario di impugnazione del licenziamento irrogato all’esito del procedimento suddetto, l’ordine di esibizione della documentazione stessa. Il datore di lavoro è tenuto, tuttavia, ad offrire in consultazione all’incolpato i documenti aziendali solo in quanto e nei limiti in cui l’esame degli stessi sia necessario al fine di una contestazione dell’addebito idonea a permettere alla controparte un’adeguata difesa; ne consegue che, in tale ultima ipotesi, il lavoratore che lamenti la violazione di tale obbligo ha l’onere di specificare i documenti la cui messa a disposizione sarebbe stata necessaria al predetto fine” (Cass. 28/11/2010 n. 23304, conforme Cass. 13/3/2013 n. 6337). La pretesa attinente alla consultazione dei documenti aziendali da parte dell’incolpato si fonda, pertanto, non su una specifica disposizione di legge, ma sui principi di correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto, ed è ravvisabile soltanto laddove l’esame dei documenti sia necessaria al fine di permettere alla controparte un’adeguata difesa. Tanto premesso, la Corte territoriale ha adeguatamente motivato sul punto, osservando che “la contestazione disciplinare… descrive in modo dettagliato le condotte ascritte… e fa, inoltre, riferimento ad un allegato contenente il prospetto analitico degli ammanchi riscontrati sino a quel momento”, in tal modo evidenziando che nessuna lesione del diritto di difesa poteva ritenersi in concreto realizzata a seguito della mancata ottemperanza alla richiesta di produzione documentale. Per altro verso, neppure il ricorrente ha prospettato l’esistenza di discordanze tra i prospetti allegati alla contestazione e le risultanze documentali, nè altre ragioni in forza delle quali la mancata consultazione dei documenti aziendali, resisi disponibili sin dall’instaurazione del giudizio nella fase sommaria, abbia potuto in qualche modo compromettere l’esplicazione da parte sua dell’attività difensiva.

9. Deduce, altresì il ricorrente, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, nullità della sentenza in violazione dell’art. 132 c.p.c., n. 4 e dell’art. 118 disp. att. c.p.c., in correlazione alla L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 7, comma 2, art. 1175 c.c., art. 1375 c.c., L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 5 e all’art. 2697 c.c.. Rileva che il ragionamento della Corte territoriale, secondo il quale “per comprendere quali siano le condotte contestate non occorre far riferimento alla documentazione” è apodittico illogico, contraddittorio e incomprensibile, come tale inidoneo a rivelare la ratio decidendi.

9.2. La censura è priva di fondamento. Ed invero deve ritenersi che la motivazione incorre nella sanzione della nullità laddove non permetta di comprendere le ragioni poste a fondamento della medesima e, quindi, le basi della sua genesi e l’iter logico seguito per pervenire da esse al risultato enunciato, sì che ne riesce integrata una sostanziale inosservanza dell’obbligo imposto al giudice di esporre concisamente i motivi in fatto e in diritto della decisione (Cass. 3 giugno 2016 n. 11508). Alla stregua di tale valutazione la motivazione non può certo dirsi incomprensibile, come è dimostrato, peraltro, dall’articolata censura mossa nel precedente motivo di ricorso proprio sul punto oggetto di contestazione, significativa del recepimento da parte del ricorrente del significato esplicitato.

10. Con l’ultima doglianza il ricorrente deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione della L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 7, commi 3 e 4. Osserva che la sentenza impugnata esclude la tardività della contestazione disciplinare sul presupposto che il lasso di tempo di poco più di un mese dall’inizio degli accertamenti non fosse eccessivo in relazione alla complessità della contestazione disciplinare. Osserva che la contestazione era stata ritenuta fondata soltanto in relazione ai giorni 25, 26, 27 e 29 luglio 2013, attraverso il mero raffronto documentale, talchè poteva essere formalizzata al termine dei primi giorni in cui fu effettuato il controllo. La tempestività della contestazione, intesa come assoluta immediatezza, pertanto, avrebbe dovuto trovare rigorosa applicazione quale imprescindibile presupposto di legittimità del licenziamento, con la conseguenza che il lungo lasso temporale aveva irrimediabilmente precluso al P. di verificare ciò che gli veniva contestato.

10.2. Anche l’ultima doglianza è infondata. Questa Corte, infatti, ha avuto modo di rilevare che “Nel licenziamento per giusta causa, il principio dell’immediatezza della contestazione dell’addebito deve essere inteso in senso relativo, potendo in concreto essere compatibile con un intervallo di tempo più o meno lungo, quando l’accertamento e la valutazione dei fatti sia molto laborioso e richieda uno spazio temporale maggiore, e non potendo, nel caso in cui il licenziamento sia motivato dall’abuso di uno strumento di lavoro, ritorcersi a danno del datore di lavoro l’affidamento riposto nella correttezza del dipendente, o equipararsi alla conoscenza effettiva la mera possibilità di conoscenza dell’illecito, ovvero supporsi una tolleranza dell’azienda a prescindere dalla conoscenza che essa abbia degli abusi del dipendente. In ogni caso, la valutazione della tempestività della contestazione costituisce giudizio di merito, non sindacabile in cassazione ove adeguatamente motivato. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata, che, in riferimento al licenziamento di un dipendente di un’azienda telefonica determinato dall’uso scorretto del telefono cellulare di servizio, consistito nell’invio di decine di migliaia di “s.m.s.”, aveva escluso l’intempestività della contestazione, intervenuta a pochi mesi di distanza dall’inizio delle necessarie verifiche, le quali avevano richiesto l’esame di complessi tabulati e prospetti, al fine di distinguere il traffico telefonico di servizio da quello illecito)” (Cass. 8/03/2010 n. 5546). Ne consegue che il dedotto vizio di violazione di legge non è ravvisabile, posto che i giudici del merito, con argomentazione non censurata sotto il profilo motivazionale, hanno ritenuto congruo il periodo intercorso tra l’inizio degli accertamenti e la contestazione, avuto riguardo alle verifiche necessarie e alla circostanza che a cavallo del lasso temporale cadeva il periodo estivo.

11. In base alle svolte argomentazioni il ricorso va rigettato. Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

PQM

 

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in complessivi Euro 4.000,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15% e accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 29 marzo 2017.

Depositato in Cancelleria il 27 giugno 2017

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