Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 15965 del 27/06/2017


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Cassazione civile, sez. lav., 27/06/2017, (ud. 29/03/2017, dep.27/06/2017),  n. 15965

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI CERBO Vincenzo – Presidente –

Dott. CURCIO Laura – Consigliere –

Dott. DE GREGORIO Federico – Consigliere –

Dott. ESPOSITO Lucia – rel. Consigliere –

Dott. CINQUE Guglielmo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 9978-2015 proposto da:

P.R., C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA

L. SETTEMBRINI 28, presso lo studio dell’avvocato ULPIANO

MORCAVALLO, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato

ANDREA ANGELO BELLOLI, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

SWARCO MIZAR S.P.A., P.I. (OMISSIS), già MIZAR AUTOMAZIONE S.P.A.,

in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente

domiciliata in ROMA, VIA DELL’IMBRECCIATO, 95, presso lo studio

dell’avvocato GIANLUCA CICCONETTI, rappresentato e difeso dagli

avvocati FEDERICO PRADELLA, FRANCESCO ZANARDI, GIOVANNI CAMPARA,

giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 3/2015 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 13/02/2015 R.G.N. 570/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

29/03/2017 dal Consigliere Dott. LUCIA ESPOSITO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FINOCCHI GHERSI Renato, che ha concluso per l’accoglimento del

ricorso per quanto di ragione;

udito l’Avvocato GIARDIELLO ENZO per delega Avvocato MORCAVALLO

ULPIANO;

udito l’Avvocato MACCIONI FRANCESCA per delega verbale Avvocati

ZANARDI FRANCESCO e CICCONETTI GIANLUCA.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. La Corte d’appello di Milano, con sentenza del 13/2/2015, riformando parzialmente la decisione del giudice di primo grado che aveva ritenuto illegittimo il recesso intimato da Swarco Mizar s.p.a. nei confronti dell’agente P.R. e condannato la società al pagamento nei confronti del predetto di provvigioni ex art. 1748 c.p.c., comma 3, indennità di risoluzione, indennità suppletiva di clientela e rimborso spese, rideterminò gli importi riconosciuti all’agente per i titoli indicati, escludendo dal computo dei medesimi alcuni affari, in parte risultanti da documentazione ritenuta prodotta tardivamente.

2. Avverso la sentenza propone ricorso per cassazione il P. sulla base di due motivi illustrati con memorie. Resiste la società con controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo il ricorrente deduce violazione o falsa applicazione degli artt. 61, 191, 210, 414 e 421 c.p.c. in relazione agli art. 1218, 1223, 1226, 1748, 1749, 1725 e 1751 c.c. (art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4). Rileva che sin dal ricorso introduttivo era stato richiesto il risarcimento dei danni per l’illegittimo recesso nella duplice componente del danno emergente e del lucro cessante, oltre alle provvigioni maturate prima della cessazione del rapporto e alle indennità ex art. 1751 c.c. Osserva che le statuizioni in forza delle quali A) era stata ritenuta inammissibile la produzione dei documenti offerti dopo la proposizione del ricorso perchè “relativi ad affari a cui P. non ha nemmeno fatto menzione nel suo atto introduttivo ove non sono ravvisabili neppure riferimenti indiretti”; B) era stata ritenuta erronea l’inclusione nella CTU contabile espletata in primo grado della determinazione delle provvigioni relative ad operazioni per le quali l’agente non aveva svolto alcuna deduzione; C) era stato ritenuto che l’ordine di esibizione ex art. 210 c.p.c. “avrebbe dovuto comprendere solo i contratti e le fatture relativi alle operazioni elencate da P. nel suo ricorso e non anche quelli relativi a documenti di cui era stata erroneamente autorizzata la produzione e mai menzionati nell’atto introduttivo si ponevano in contrasto con il principio stabilito dagli artt. 1218 e 1223 c.c., in forza dei quali in caso di ingiustificata risoluzione del contratto di agenzia da parte del preponente spetta all’agente il risarcimento del danno, nonchè con l’obbligo gravante sul preponente di mettere a disposizione dell’agente la documentazione e le informazioni necessarie per la liquidazione delle provvigioni (art. 1749 c.c.), in conformità al più generale principio della prossimità alla fonte della prova. Osserva che la Corte territoriale ha erroneamente applicato il principio di diritto previsto dall’art. 1748 c.c., comma 3, secondo cui “spettano all’agente le provvigioni sugli affari conclusi dopo la cessazione del rapporto, la cui conclusione sia da ricondurre all’attività da lui svolta” invece che la corretta regola di diritto prevista per il risarcimento del danno conseguente a inadempimento contrattuale ex art. 1218 e 1223 c.c. Rileva che solo con riferimento alla fattispecie di cui all’art. 1748 c.c. l’agente ha l’onere di indicare con quali clienti abbia trattative in corso, mentre nel caso di specie le provvigioni relative ai contratti conclusi dopo la cessazione del rapporto erano state chieste a titolo risarcitorio ai sensi dell’art. 1223 c.c. per l’illegittimo recesso ante tempus dal contratto. In base a tale prospettazione il ricorrente non aveva l’onere di indicare le trattative in corso, spettandogli le provvigioni sugli affari conclusi dal preponente coi suoi clienti esclusivi e con i clienti della sua zona esclusiva nella misura indicata in contratto, nel periodo in cui egli avrebbe dovuto legittimamente svolgere la sua attività e indipendentemente dal fatto che con essi avesse o meno trattative in corso prima dell’illegittimo recesso e dalla riconducibilità dell’affare concluso alla prevalente attività dell’agente. Deduce, altresì, che il ricorrente non era tenuto all’adempimento inerente alla produzione dei documenti (in relazione alla quale era stata ritenuta la tardività), poichè la società preponente, in violazione dei principi di correttezza e buona fede e del dettato dell’art. 1749 c.c., non li aveva messi a disposizione dell’agente. Rileva, altresì, che l’acquisizione documentale era riconducibile alle previsioni dell’art. 421 c.p.c.

2. Con il secondo motivo il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 1218, 1223, 1226, 1748 e 1749 c.c. (art. 360, comma 1, n. 3). Rileva che la Corte territoriale erroneamente aveva rigettato l’appello incidentale condizionato, disattendendo la richiesta di riconoscere il risarcimento del danno quantificato nella media delle provvigioni percepite dall’agente negli anni precedenti al recesso, moltiplicato per i due anni intercorrenti tra il recesso illegittimo e la scadenza naturale del contratto, e ciò perchè, una volta riconosciuta una parte di provvigioni maturate dopo il recesso a titolo di risarcimento del danno, si sarebbe verificata una sovrapposizione di richieste risarcitorie. Osserva che con tale statuizione la Corte avrebbe violato il principio di diritto in forza del quale, ex art. 1226 c.c., se il danno non può essere provato nel suo esatto ammontare, è liquidato dal giudice con valutazione equitativa. L’appello incidentale, infatti, subordinato all’accoglimento dell’impugnazione dell’appellante del capo di sentenza che condannava la società a corrispondere all’agente le provvigioni sugli affari conclusi nei due anni successivi all’illegittimo recesso, non comportava sovrapposizione di richieste, ma indicava soltanto un diverso criterio di quantificazione del danno, nel senso del passaggio dalla quantificazione del danno in forma specifica alla quantificazione per equivalente. In tal modo la Corte territoriale aveva frustrato il diritto dell’agente al risarcimento del danno non applicando nè il criterio di quantificazione del danno in forma specifica nè quello di quantificazione per equivalente. Sostanzialmente la Corte, di fronte all’impossibilità di provare il danno nel suo esatto ammontare, avrebbe dovuto applicare il criterio di liquidazione per equivalente e non invece applicare in modo parziale il criterio di liquidazione in forma specifica, compiendo una sorta di commistione surrettizia con il criterio equitativo.

3. Il primo motivo di ricorso, pur attenendo in via immediata alla questione relativa all’intervenuto diniego di produzione documentale per tardività, presuppone l’erroneità della qualificazione da parte del giudice d’appello della domanda prospettata dalla parte in relazione alle provvigioni relative ad affari conclusi dopo la cessazione del rapporto di agenzia, prospettandosi che la Corte territoriale avrebbe dovuto fare applicazione della regola di diritto prevista per il risarcimento del danno conseguente a inadempimento contrattuale ex art. 1218 e 1223 c.c. e non della previsione di cui all’art. 1748 c.c. D’altra parte è desumibile dal tenore della sentenza che la Corte territoriale aveva interpretato la domanda come fondata su quest’ultima norma, laddove in sentenza si indica che il P. aveva chiesto la liquidazione delle provvigioni “sui contratti non ancora conclusi alla data della revoca del mandato” ed elencato “una serie di trattative che sarebbero state da lui gestite ma che egli non avrebbe poi potuto portare a termine per colpa della mandante che recedeva illegittimamente”. Il ragionamento della Corte d’appello in ordine alla ritenuta inammissibilità della produzione documentale tardiva, infatti, è perfettamente in linea con l’effettuata qualificazione della fattispecie, posto che l’indicazione degli affari conclusi dopo lo scioglimento del contratto è indispensabile in funzione della individuazione degli elementi costitutivi della fattispecie fatta valere in giudizio, integrata dalla richiesta di corresponsione delle provvigioni ai sensi dell’art. 1748 c.c., comma 3. Ed invero i giudici d’appello hanno sostanzialmente escluso l’ammissibilità della produzione documentale perchè eccedente l’ambito della domanda, nei termini in cui la stessa è stata formulata. Tanto premesso, il motivo si manifesta infondato alla luce del consolidato orientamento di questa Corte, secondo il quale “L’interpretazione della domanda giudiziale è operazione riservata al giudice del merito, il cui giudizio, risolvendosi in un accertamento di fatto, non è censurabile in sede di legittimità quando sia motivato in maniera congrua e adeguata, avendo pertanto riguardo all’intero contesto dell’atto, senza che ne risulti alterato il senso letterale e tenendo conto della sua formulazione testuale nonchè del contenuto sostanziale, in relazione alle finalità che la parte intende perseguire” (Cass. n. Sez. L, Sentenza n. 5491 del 14/03/2006, n. 9011 del 06/05/2015). Ne consegue che il ricorrente avrebbe potuto censurare il ragionamento posto a fondamento del diniego di ammissione della produzione documentale esclusivamente formulando una censura in termini di vizio motivazionale, laddove la sentenza risulta censurata sotto i profili di cui all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4. Giova, altresì, rilevare che, nella sua pur lunga articolazione, l’esposizione del motivo prescinde da ogni riscontro rispetto agli atti processuali rilevanti e segnatamente quello introduttivo della domanda giudiziale. Sotto tale aspetto, pertanto, i rilievi del ricorrente, per la loro genericità, nonchè per difetto delle necessaria allegazioni documentali, non risultano rispettosi delle disposizioni di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, e non consentono di verificare contenuto e limiti della domanda azionata.

3. Neppure risulta idoneo a giustificare l’ammissibilità della tardiva produzione il richiamo al rispetto dell’art. 1749 c.c., il quale prevede l’obbligo del preponente di mettere a disposizione dell’agente “la documentazione necessaria relativa ai beni o servizi trattati e a fornire all’agente le informazioni necessarie all’esecuzione del contratto”. Ed invero, anche a ritenere la disposizione richiamata come introduttiva di un vero e proprio diritto di accesso dell’agente ai libri contabili in possesso del preponente, operante anche in fase giudiziale a seguito di richiesta (in conformità a Cass. 29/9/2016 n. 19319), nessuna influenza potrebbe assumere tale profilo nella concreta fattispecie, poichè la Corte territoriale ha fondato la decisione su una questione (il rilevato difetto di allegazione) che si pone a monte di ogni valutazione in ordine alle richieste attinenti alla prova.

4. Una volta stabilito che il giudice d’appello ha qualificato la domanda nei termini indicati sub 2 e che tale qualificazione non è stata utilmente censurata, ne discende che il secondo motivo di ricorso va del pari disatteso, giacchè presuppone altra qualificazione, in termini di risarcimento dei danni, della domanda relativa alle provvigioni maturate successivamente alla cessazione del rapporto. Ed invero il ricorrente lamenta che si sia dato corso alla liquidazione del danno in forma specifica piuttosto che per equivalente, prospettando l’avvenuta proposizione di un’azione risarcitoria.

5. In base alle svolte argomentazioni il ricorso va rigettato. Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

PQM

 

La corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in complessivi Euro 7500,00 di cui Euro 200 per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15% e accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 29 marzo 2017.

Depositato in Cancelleria il 27 giugno 2017

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