Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 15964 del 20/07/2011

Cassazione civile sez. VI, 20/07/2011, (ud. 16/06/2011, dep. 20/07/2011), n.15964

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 3

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FINOCCHIARO Mario – Presidente –

Dott. MASSERA Maurizio – Consigliere –

Dott. SEGRETO Antonio – Consigliere –

Dott. VIVALDI Roberta – Consigliere –

Dott. FRASCA Raffaele – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

R.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliata in

ROMA, presso la CORTE DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avv.

ORLANDO ANTONIO, giusta mandato a margine del ricorso per regolamento

di compeenza;

– ricorrente –

contro

CHE BANCA SPA (già Micos Banca SpA) in persona del legale

rappresentante pro-tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

ANAPO 29, presso lo studio dell’avvocato NINNI GUIDO, che la

rappresenta e difende unitamente all’avvocato NARDOZZI TONIELLI GINO,

giusta procura alle liti in calce alla memoria difensiva;

– resistente –

e contro

G.A., M.A., R.F.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 94/2010 del TRIBUNALE di NAPOLI del 7.1.2010,

depositata il 31/03/2010;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

16/06/2011 dal Consigliere Relatore Dott. RAFFAELE FRASCA.

E’ presente il Procuratore Generale in persona del Dott. IGNAZIO

PATRONE.

Fatto

RITENUTO IN FATTO

Quanto segue:

p. 1. R.F. ha proposto ricorso per regolamento di competenza necessario avverso la sentenza, resa ai sensi dell’art. 28 sexies c.p.c., dal Tribunale di Napoli il 7 gennaio 2010, con la quale quest’ultimo ha dichiarato la propria incompetenza territoriale e la competenza territoriale del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere sulla controversia introdotta da essa ricorrente contro un precetto intimatole dalla Micos Banca s.p.a (poi divenuta Che banca S.p.a.) sulla base di titolo esecutivo costituito da un contratto di mutuo stipulato in relazione all’acquisto, per atto notarile, di un immobile per effetto di compravendita da G.A. e M. (o Ma.An. e per effetto dell’intermediazione di F. R., qualificatosi agente della Micos.

L’incompetenza è stata dichiarata dal Tribunale previa qualificazione della controversia come opposizione a precetto e previo rilievo che era fondata l’eccezione di incompetenza, formulata dalla creditrice procedente a motivo che nel precetto la creditrice aveva eletto domicilio in Santa Maria Capua Vetere, onde il foro dell’esecuzione doveva rinvenirsi in quel comune a norma dell’art. 480 c.p.c., comma 2, con la conseguenza che il foro dell’opposizione a precetto si identificava nel Tribunale di quel comune, ai sensi dell’art. 277 c.p.c., comma 1.

p. 2. – Al ricorso per regolamento, proposto contro la creditrice procedente, il G., la M. (o Ma.) ed il R., parti del giudizio di merito, ha resistito con memoria soltanto Che Banca S.p.a..

p. 3. Essendo stata disposta la trattazione con il procedimento ai sensi dell’art. 380 ter c.p.c., il Pubblico Ministero ha depositato le Sue conclusioni scritte, che sono state notificate alle parti, unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza della Corte.

p. 4. La resistente ha depositato memoria.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

quanto segue:

p. 1. Nelle Sue conclusioni il Pubblico Ministero ha concluso per l’infondatezza dell’istanza di regolamento di competenza, considerando fondata – sull’assunto della qualificazione data alla controversia dal Tribunale (riguardo al quale non ha, peraltro, svolto rilievi, nonostante ch’essa fosse oggetto di contestazione da parte della ricorrente, che ha addotto a fondamento dell’istanza la circostanza d’aver proposto in cumulo all’opposizione a precetto anche una domanda di declaratoria della nullità del contratto di compravendita e del correlato mutuo), all’elezione di domicilio figurante nel precetto.

p. 2. Il Collegio non condivide le conclusioni del Pubblico Ministero, in quanto ritiene che l’istanza di regolamento di competenza sia affetta da una duplice e gradata ragione di inammissibilità, alla cui rilevazione deve procedersi d’ufficio.

La prima di esse è la tardività del ricorso. La seconda l’inosservanza dell’art. 366 c.p.c., n. 6.

Va premesso che il rilievo d’ufficio di tali cause di inammissibilità, essendo esse afferenti direttamente alla rituale introduzione del processo di cassazione, non è soggetto alla regola espressa dall’art. 384 c.p.c., comma 3, la quale sembra riferibile soltanto all’ipotesi in cui la Corte ritenga di dover decidere nel merito e non ad altre ipotesi ed in particolare alle ipotesi si difetti di ammissibilità del ricorso previsti dalla legge.

p. 2.1. A favore di questa conclusione militano anzitutto (come già venne esposto da Cass. n. 15901 del 2009 e qui si intende ribadire) elementi esegetici interni alla stessa norma dell’art. 384 c.p.c..

In primo luogo non può essere priva di significato la stessa collocazione data dal legislatore delegato alla previsione del procedimento di rilevazione della questione d’ufficio: non è stata dettata una norma di carattere generale, come si sarebbe dovuto fare se a tale procedimentalizzazione si fosse inteso attribuire valore generale, cioè di norma regolatrice del procedimento di cassazione in genere. La norma è stata collocata in una disposizione che si occupa, a stare alla rubrica, di due oggetti di disciplina in particolare, l’uno rappresentato dalla specificazione dei casi nei quali la Corte deve enunciare il principio di diritto e l’altra dall’ipotesi della decisione nel merito.

Il comma 1 assolve alla prima funzione ed è promiscuamente riferito sia all’ipotesi dell’accoglimento del ricorso, sia a quella del rigetto, posto che la norma si riferisce genericamente alla decisione del ricorso.

Il secondo oggetto di disciplina è regolato nel secondo comma e pertiene all’ipotesi di accoglimento del ricorso e più particolarmente di accoglimento con cassazione della sentenza impugnata. Più specificamente, dovendo coordinarsi con l’art. 383 e con l’art. 382 c.p.c., l’ipotesi considerata è quella dell’accoglimento che giustificherebbe il rinvio. All’interno di tale ipotesi il secondo comma eccettua dalla conseguenza normale del rinvio il caso in cui non sarebbero necessari accertamenti di fatto per rendere una nuova decisione sostitutiva di quella cassata.

Ora, il comma 3 riferisce la sua disciplina sulla questione rilevabile d’ufficio letteralmente al caso in cui la Corte di cassazione “ritiene di porre a fondamento della sua decisione ….”.

L’uso della parola decisione riecheggia chiaramente soltanto una delle due ipotesi previste dal secondo comma. Quest’ultimo, infatti, nel contrapporre alla regola generale della cassazione con rinvio quella della cassazione con decisione nel merito usa il verbo “decidere” soltanto a proposito della seconda. Dice, infatti, che “la Corte, quando accoglie il ricorso, cassa la sentenza rinviando la causa ad altro giudice, il quale deve uniformarsi al principio di diritto e comunque a quanto statuito dalla Corte, ovvero decide la causa nel merito quando non siano necessari ulteriori accertamenti di fatto”.

L’immediata successione del comma 3 con l’uso dell’espressione “porre a fondamento della sua decisione” invece che di quella “porre a fondamento dell’accoglimento del ricorso”, che avrebbe abbracciato entrambe le ipotesi di cui al comma 2 (posto che il “quando accoglie il ricorso” con cui quel comma esordisce è relativo ad entrambe), induce sul piano esegetico la forte impressione che il procedimento di cui al terzo comma sia stato voluto con riferimento al solo caso in cui la Corte intenda, a seguito dell’accoglimento del ricorso e della conseguente cassazione della sentenza impugnata, procedere alla decisione nel merito e ravvisi, però, di dovervi pervenire sulla base di una questione rilevabile d’ufficio non emersa nel contraddittorio per come articolatosi con il ricorso ed il controricorso ed eventualmente con le memorie (atteso che le parti debbono mettere sempre in preventivo che possa esservi una decisione nel merito).

E’ in questo caso che il legislatore ha ravvisato l’opportunità che le parti siano ammesse ad interloquire su questa questione. E la ragione può rinvenirsi nella circostanza che la prospettiva cui si avvia il processo è quella di essere definito per effetto della sentenza della Corte con una decisione di merito fondata non sul dibattito inter partes bensì su un’emergenza in diritto nuova introdotta dalla Corte, su cui è opportuno che le parti abbiano la possibilità di contraddire, potendo le osservazioni convincere del contrario la Corte. E ciò, in quanto la partita processuale si chiude in cassazione.

Ne consegue che il potere di rilevazione di questioni d’ufficio al di fuori di tale ipotesi deve ritenersi esercitabile senza la procedimentalizzazione di cui al terzo comma in discorso. Così nel caso di cassazione senza rinvio (art. 382 c.p.c., comma 3), come nel caso di cassazione con rinvio.

Questa conclusione potrebbe risultare apparentemente incoerente solo se si tralascia di considerare che: a) se è vero che anche la cassazione senza rinvio, quando avviene sulla base di una questione rilevata d’ufficio dalla Corte con la stessa decisione (e non evocata direttamente dal ricorso), chiude il processo, tuttavia ciò avviene per l’individuazione da parte della Corte di una ragione in diritto (la causa non poteva proseguirsi o essere proposta) e, quindi, per effetto dell’espletamento da parte della Corte della sua naturale funzione di giudice di legittimità; b) se è vero che la cassazione con rinvio, quando avviene – nei limiti indicati – sulla base di questione rilevata d’ufficio, se non chiude il processo, “chiude” sulla questione, tuttavia tale chiusura, ancora una volta, risulta l’effetto dell’esercizio da parte della Corte della sua funzione di giudice di legittimità.

In entrambi i casi l’esplicazione delle sue funzioni di giudice di legittimità anche attraverso la rilevazione di questioni di diritto rilevabili d’ufficio risponde alla genuina funzione della Corte di cassazione e, quindi, non può essere considerato come motivo di mortificazione del contraddittorio delle parti, che si sono rivolte alla Corte appunto per provocarne l’esercizio delle funzioni di nomofilachia ed erano abilitate esse stesse (o meglio quella che vi aveva interesse) a rilevare la questione d’ufficio.

Viceversa, quando la Corte ritiene di poter decidere nel merito perchè rileva d’ufficio una questione che giustifica tale possibilità, il giudizio di cassazione assume non solo una funzione normalmente ad esso estranea, ma non la assume sulla base di quanto ha prospettato lo stesso ricorrente, che o può avere chiesto egli stesso la decisione nel merito per effetto dell’accoglimento del ricorso assumendo la non necessità di accertamenti di fatto o, se anche non lo ha fatto, era in grado di considerare tale non necessità. L’assunzione da parte del giudizio di legittimità della funzione di provvedere alla decisione nel merito avviene, invece, sulla base di una questione introdotta dalla Corte e rimasta estranea al dibattito processuale.

Questa differenza rende allora ragionevole la lettura riduttiva qui prospettata.

Si tratta di lettura che, del resto, si impone anche in funzione del principio di cd. ragionevole durata del processo: è di tutta evidenza che se ogni questione che la Corte rilevasse d’ufficio dovesse comportare la procedimentalizzazione supposta dall’art. 384 c.p.c., comma 3, i tempi del giudizio di cassazione, già notoriamente lunghi, si allungherebbero ancora. Va tenuto conto, infatti, che il differimento è sì solo della decisione, ma comporta che debba riunirsi nuovamente il collegio, cioè i cinque giudici che lo compongono.

p. 2.2. La lettura restrittiva riceve, comunque, conforto sulla base di un ulteriore elemento interno alla stessa norma dell’art. 384 e di altri elementi emergenti al di fuori di essa.

Sotto il primo aspetto si deve rilevare che il quarto comma della norma dell’art. 384 continua a prevedere il potere della Corte di cassazione di correggere la motivazione in diritto quando la motivazione è erronea, ma il dispositivo è conforme al diritto, potere esercibile, naturalmente, senza alcun accertamento di fatto:

è evidente che, salvo il caso in cui sia il controricorrente a sollecitare questo potere, indicando la motivazione diversa da quella figurante nella sentenza che è idonea a sorreggere il dispositivo, la relativa indicazione, che può essere anche una ragione giuridica diversa, è fatta dalla Corte di cassazione.

Ebbene, il potere di cui al quarto comma diventa in questo caso potere di rilevazione di una questione di diritto e per il suo esercizio non è prevista la procedimentalizzazione di cui al comma precedente. Se essa avesse significato ed estensione generale la Corte non potrebbe procedere alla correzione della motivazione senza rispettare l’art. 384, comma 3.

Un eguale discorso si può fare a proposito del caso in cui la Corte, a norma dell’art. 382, comma 3, ravvisi una ragione di cassazione senza rinvio non prospettata dal ricorrente.

In fine, un argomento forte per la proposta lettura in senso restrittivo dell’art. 384 c.p.c., comma 3, era rinvenibile nell’art. 380 bis c.p.c., u.c., in tema di procedimento di decisione in camera di consiglio, nel testo anteriore alle modifiche apportatevi dalla L. n. 69 del 2009.

Fermo che, in generale, il modello procedimentale della camera di consiglio si presta esso stesso, con la notificazione alle parti della relazione, alla funzione di rilevazione di questioni rilevabili d’ufficio in senso lato, sia di rito che non, onde non vi sarebbe spazio per postulare l’applicazione del terzo comma in tale procedimento, poichè è la relazione che dovrebbe segnalare quelle questioni, si deve osservare che, quando il Collegio non condivide il contenuto della relazione, l’ultimo comma dell’art. 380-bis non prevede che il ricorso debba senz’altro essere rimesso alla pubblica udienza, ma stabilisce che il Collegio dispone in tal senso “se ritiene che non ricorrano le ipotesi di cui all’art. 375 c.p.c.”.

Ebbene, ciò significa che, qualora il Collegio avesse ravvisato l’infondatezza della ipotesi di decisione formulata dal relatore nella relazione, la causa restava decidibile in camera di consiglio ove fosse stata riconosciuta esistente comunque un’altra ipotesi di decidibilità in camera di consiglio. Poichè sia fra le cause di trattazione in camera di consiglio in rito sia fra quelle di trattazione in camera di consiglio sulla fondatezza o infondatezza manifeste del ricorso si poteva immaginare possibile l’esercizio da parte del Collegio di un potere di rilevazione di una questione rilevabile d’ufficio (si pensi ad un ricorso rimesso in camera di consiglio con relazione positiva della manifesta fondatezza o della manifesta infondatezza, riguardo al quale si fosse ravvisata una causa di inammissibilità o improcedibilità; si pensi al contrario ad un ricorso rimesso per una di tali cause, riguardo al quale si fosse ritenuta l’infondatezza del rilievo ed una ragione di fondatezza o infondatezza in diritto, se del caso anche rilevata d’ufficio; si pensi ad un ricorso rimesso come manifestamente infondato, per il quale si fossero ravvisate le condizioni per la correzione; oppure ad un ricorso rimesso per manifesta fondatezza, riguardo al quale si fossero ravvisate le condizioni manifeste per cassare senza rinvio), è evidente che l’idea del legislatore non era stata nel senso di volere che ogni volta che la Corte (e, si badi, il Collegio) avesse rilevato una questione di diritto d’ufficio si dovesse provocare il contraddittorio delle parti. Se così fosse stato, al rilievo della non condivisibilità della relazione, avrebbe dovuto sempre seguire la rimessione in pubblica udienza.

Ne consegue che se questo è quanto aveva ritenuto il legislatore a proposito della decisione in camera di consiglio, non poteva aver ritenuto il contrario nell’art. 384 c.p.c., comma 3, cioè non può avere inteso il senso della sua previsione in modo lato.

Naturalmente, ove nel procedimento in camera di consiglio si fosse profilata una situazione di manifesta fondatezza del ricorso giustificante una decisione nel merito sulla base di una questione rilevata d’ufficio dal Collegio, si sarebbe potuto ipotizzare che dovesse darsi corso al procedimento di cui all’art. 384 c.p.c., comma 3, con un rinvio della decisione e la concessione dei termini ivi previsti.

Per concludere si deve ancora rilevare che la lettura proposta della norma in commento trova riscontro anche nella circostanza che, se si desse al contrario una lettura lata di essa, si avrebbe un serio problema di costituzionalità, in quanto non sarebbe stata assicurata una eguale possibilità di replica alla parte di fronte al rilievo di una questione rilevabile di ufficio nella memoria di cui all’art. 378 c.p.c. da parte del contraddittore o di fronte a tale rilievo addirittura in udienza, se del caso da parte del pubblico ministero.

p. 2.3. D’altro canto, a conferma della validità delle affermazioni qui svolte, va ricordato che le Sezioni Unite hanno avuto modo di statuire che “L’eccezione di inammissibilità del ricorso, che sia sollevata dal P.G. all’udienza di discussione, la sottrae alla sfera di operatività dell’art. 384 cod. proc. civ., comma 3, come sostituito dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 12, escludendo ogni necessità di riservare la decisione con assegnazione di un termine alle parti per osservazioni, applicandosi lo stesso principio in tema di eccezione su questione rilevabile d’ufficio, sollevata da una parte con memoria: va a tal fine considerato che i difensori delle parti possono presentare alla Corte osservazioni in merito alle conclusioni del P.G., a norma dell’art. 379 cod. proc. civ., u.c..” (Cass. sez. un. n. 14385 del 2007, che, peraltro, non ha preso espressamente posizione sulla possibilità che sia la Corte a rilevare d’ufficio la causa di inammissibilità nella sentenza), p. 2.4. Vanno ancora svolti due rilievi per ragioni di completezza.

Il primo è nel senso che in riferimento al nuovo art. 380 bis c.p.c. la modifica dell’ultimo comma della norma non rende più possibile svolgere l’argomento esposto in precedenza, ma ciò non toglie che restino validi tutti gli altri e la soluzione debba essere confermata.

11 secondo rilievo è che la validità della soluzione della questione esegetica dell’art. 384 c.p.c. innanzi considerata andrà sottoposta a verifica con riferimento al nuovo testo dell’art. 101 c.p.c., comma 2, introdotto dalla L. n. 69 del 2009: i risultati della verifica riguarderanno comunque i procedimenti iniziati dopo la sua entrata in vigore (art. 58, comma 1, del provvedimento), fra i quali non si situa quello presente. Se si condividesse la lettura restrittiva dell’art. 384 e si da valore all’essere esso rimasto immutato, nonchè all’essere rimasto immutato il potere di correzione, nonchè a tutti gli altri argomenti svolti, la soluzione potrebbe essere rimasta comunque valida e giustificata dalla specificità del giudizio di cassazione. Non è questa la sede per approfondire.

p. 2.5. L’esegesi dell’art. 384, comma 3, prospettata innanzi nel regime anteriore alla L. n. 69 del 2009 è valida anche a proposito del procedimento in camera di consiglio ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c., con il quale si tratta questo giudizio di regolamento.

p. 3. Ciò chiarito la prima causa di inammissibilità si configura, perchè, essendo stata la sentenza pronunciata ai sensi dell’art. 281 sexies c.p.c. all’udienza del 7 gennaio 2010 nel relativo verbale della immediata decisione ed allegazione al verbale, l’istanza di regolamento di competenza avrebbe dovuto essere proposta nei trenta giorni successivi: si vedano: Cass. (ord.) n. 17665 del 2004; (ord.) n. 2655 del 2006; (ord.) n. 16304 del 2007, secondo la quale: “In tema di regolamento di competenza, nel caso in cui, nel procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica, il giudice abbia ordinato la discussione orale della causa e abbia pronunciato sentenza solo sulla competenza, al termine della discussione, “dando lettura” del dispositivo e della concisa esposizione delle ragioni in fatto e in diritto della decisione, la sentenza – a norma del comma secondo dell’art. 281 sexies – si intende “pubblicata con la sottoscrizione da parte del giudice del verbale che la contiene ed è immediatamente depositata in cancelleria”. Poichè la lettura del provvedimento in udienza e la sottoscrizione del verbale che lo contiene da parte del giudice, non solo, equivalgono alla pubblicazione prescritta nei casi ordinali dall’art. 133 cod. proc. civ., ma esonerano la cancelleria dall’onere della comunicazione (giacchè il provvedimento si ritiene, con presunzione assoluta di legge, conosciuto dalle parti presenti o che avrebbero dovuto essere presenti), non è prevista alcuna ulteriore comunicazione di esso ad opera del cancelliere che, oltre ad essere superflua, contrasterebbe con l’intento di semplificazione delle forme perseguito dal legislatore. (La S.C., sulla scorta dell’enunciato complessivo principio, ha ritenuto, nella specie, inammissibile l’istanza di regolamento di competenza proposta oltre il termine perentorio di trenta giorni dalla data in cui la sentenza, nel dispositivo e nella motivazione, su foglio allegato al verbale, ai sensi dell’art. 281 sexies cod. proc. civ., era stata pronunciata e letta in udienza e, in pari data, depositata in cancelleria, essendo irrilevante la successiva comunicazione da parte della cancelleria del deposito del suddetto “foglio a parte”)”; (ord.) n. 13035 del 2009; (ord.) n. 20092 del 2010).

Nè a diversa conclusione potrebbe pervenirsi dando rilievo (come fece Cass. (ord.) n. 18743 del 2008, secondo cui “Nel caso di sentenza redatta a verbale o allegata allo stesso ai sensi dell’art. 281 sexies cod. proc. civ., la sua pubblicazione, al fine della decorrenza dei termini “ad opponendum”, esige che la pronuncia sia stata letta in udienza e che di tale lettura, concernente motivazione e dispositivo, si dia atto nel verbale immediatamente sottoscritto dal giudice; dal difetto di tale adempimento consegue il mancato esonero per il cancelliere dall’osservanza delle attività comunicatorie ex art. 133 cod. proc. civ. (Nella fattispecie la S.C. ha ritenuto che, in caso di non riscontro nel verbale d’udienza dell’avvenuta lettura di dispositivo e motivazione, sussisteva la tempestività del ricorso per regolamento di competenza, anche se proposto oltre il termine di trenta giorni dall’udienza ma prima del decorso di trenta giorni dalla comunicazione del provvedimento da parte del cancelliere)”) alla circostanza che nel verbale non si da espressamente atto della lettura del dispositivo e della concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto, ma si da atto solo che il giudice “decide la causa come da sentenza che allega al presente verbale”: invero nel caso deciso da quel precedente la parte istante aveva espressamente rilevato la mancanza della lettura e la Corte diede rilievo, per affermare il sopra riportato principio e pervenire alla conclusione dell’ammissibilità dell’istanza al fatto che risultava che la decisione del giudice di merito fosse stata successivamente comunicata alle parti. Nel caso odierno, invece, non solo non è stato lamentato che non via sia stata lettura, ma risulta anche che la stessa ricorrente estrasse copia della decisione il successivo giorno 8 gennaio 2010.

p. 4. In ogni caso, se anche il ricorso si considerasse ammissibile applicandosi il principio di cui a Cass. (ord.) n. 18743 del 2008, il ricorso sarebbe inammissibile per violazione dell’art. 366 c.p.c., n. 6 (applicabile al regolamento di competenza: si veda Cass. (ord.) n. 20535 del 2009), giacchè non fornisce l’indicazione specifica dell’atto processuale su cui si fonda, cioè la citazione introduttiva, nella quale oltre alla domanda di opposizione a precetto, avrebbe formulato la domanda di accertamento della nullità della compravendita e del mutuo. Infatti, in ossequio al principio di autosufficienza, del quale l’art. 366 c.p.c., n. 6 costituisce il precipitato normativo, il ricorso non riproduce le espressioni della citazione, nelle quali si dovrebbe cogliere il cumulo di domande, così inammissibilmente demandando alla Corte di individuare con improponibile rischio di errore quale parte dell’atto potrebbe ritenersi evocata.

D’altro canto, se veramente fosse stato proposto il cumulo di domande allegato dalla ricorrente, poichè la competenza sull’opposizione al precetto è inderogabile, la ragione di connessione fra la relativa domanda e quella di declaratoria della nullità degli atti contrattuali, avrebbe al più potuto comportare la permanenza della sola causa relativa alla nullità davanti al giudice adito, ma non anche di quella di opposizione al precetto.

Il ricorso è dichiarato, dunque, inammissibile.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano nel dispositivo.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso. Condanna la ricorrente alla rifusione alla resistente delle spese del giudizio di regolamento, liquidate in Euro milleottocento, di cui duecento per esborsi, oltre spese generali ed accessori come per legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Sesta Civile – 3, il 16 giugno 2011.

Depositato in Cancelleria il 20 luglio 2011

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