Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 15952 del 20/07/2011

Cassazione civile sez. VI, 20/07/2011, (ud. 16/06/2011, dep. 20/07/2011), n.15952

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 3

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FINOCCHIARO Mario – Presidente –

Dott. MASSERA Maurizio – rel. Consigliere –

Dott. SEGRETO Antonio – Consigliere –

Dott. VIVALDI Roberta – Consigliere –

Dott. ARMANO Uliana – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso 13862/2010 proposto da:

“B.T.&O. STUDIO ASSOCIATO DI CONSULENZA AZIENDALE – Dott.

Giampaolo

Targia, Dott. Orfano Matteo ” – già “Studio Associato Giannantonio

di Consulenza Aziendale” (OMISSIS) in persona del suo socio

legale rappresentante, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA MAZZINI

146, presso lo studio dell’avvocato SPAZIANI TESTA EZIO, che lo

rappresenta e difende unitamente all’avvocato RAIMONDI MAURILIO,

giusta procura speciale a margine della seconda pagina del ricorso;

– ricorrente –

contro

Z.A.M. (OMISSIS), elettivamente

domiciliato in ROMA, CORSO D’ITALIA 19, presso lo studio

dell’avvocato COSTANTINI ALBERTO, rappresentato e difeso

dall’avvocato CARI MARIELLA, giusta procura speciale a margine del

controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2876/2009 della CORTE D’APPELLO di MILANO del

7.10.09, depositata il 13/11/2009;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

16/06/2011 dal Consigliere Relatore Dott. MAURIZIO MASSERA;

udito per il controricorrente l’Avvocato Alberto Costantini (per

delega avv. Mariella Cari) che si riporta agli scritti, insistendo

per l’inammissibilità del ricorso;

E’ presente il Procuratore Generale in persona del Dott. IGNAZIO

PATRONE che ha concluso per la trattazione del ricorso in pubblica

udienza.

La Corte letti gli atti depositati osserva:

Fatto

FATTO E DIRITTO

E’ stata depositata la seguente relazione:

1 – Il fatto che ha originato la controversia è il seguente: lo B. T. & O. Studio Associato di Consulenza Aziendale ha chiesto il pagamento delle prestazioni professionali di assistenza tributaria e di consulenza in relazione all’operazione di cessione di quote di una società che asseriva aver svolto in favore di Z.A. M..

Con sentenza depositata in data 13 novembre 2009 la Corte d’Appello di Milano ha dichiarato inammissibile la domanda per difetto di legittimazione attiva.

2 – Il relatore propone la trattazione del ricorso in camera di consiglio ai sensi degli artt. 375, 376, 380 bis c.p.c..

3. Il primo motivo denuncia violazione e falsa applicazione di norme di diritto; in particolare: erronea qualificazione delle eccezioni sollevate in primo grado e reiterate in appello e conseguente erronea statuizione per violazione degli artt. 112, 183 e 345 c.p.c..

Si assume che – come ritenuto dal Tribunale – l’eccezione di parte convenuta, secondo cui lo studio professionale associato di Consulenza Aziendale Giannantonio (successivamente B. T. & O.), costituito in data 9 maggio 1994 ai sensi delle L. n. 1815 del 1939, non era legittimato ad causam nè munito di interesse ad agire, doveva essere ritenuta tardiva in quanto sollevata solo con la compara conclusionale depositata nel corso del giudizio di primo grado.

Costituisce orientamento consolidato della Corte (Cass. n. 6132 del 2008) che la legittimazione ad agire e contraddire deve essere accertata in relazione non alla sua sussistenza effettiva ma alla sua affermazione con l’atto introduttivo del giudizio, nell’ambito d’una preliminare valutazione formale dell’ipotetica accoglibilità della domanda. Tale accertamento, pertanto, deve rivolgersi alla coincidenza, dal lato attivo, tra il soggetto che propone la domanda e il soggetto che nella domanda stessa è affermato titolare del diritto e, da quello passivo, tra il soggetto contro il quale la domanda è proposta e quello che nella domanda è affermato soggetto passivo del diritto o comunque violatore di quel diritto. Inoltre, il difetto della relativa allegazione e dimostrazione, in quanto attinente alla regolare costituzione del contraddittorio e, quindi, disciplinata da inderogabile norma di diritto pubblico processuale, è rilevabile anche di ufficio. Invece, l’accertamento dell’effettiva titolarità del rapporto controverso, così dal lato attivo come da quello passivo, attiene al merito della causa, investendo i concreti requisiti d’accoglibilità della domanda e, quindi, la sua fondatezza Anche recentemente questa stessa sezione (Cass. Sez. 3^, n. 18207 del 2010) ha ribadito che la questione relativa alla titolarità passiva del rapporto controverso, che attiene al merito della lite, non costituisce un’eccezione in senso stretto – soggetta, come tale, al regime decadenziale sancito, nel sistema processuale di cui alla L. 26 novembre 1990, n. 353, dall’art. 180 c.p.c., comma 2, e, a seguito delle modifiche recate dal D.L. 14 marzo 2005, n. 35, convertito, con modificazioni, nella L. 14 maggio 2005, n. 80, dall’art. 167 c.p.c. – bensì, involgendo la contestazione di un fatto costitutivo del diritto azionato, integra una mera difesa, sottoposta agli oneri deduttivi e probatori della parte interessata e, segnatamente, ove con essa si introducano nuovi temi di indagine, alle preclusioni connesse alla esatta identificazione del “thema decidendum” e del “thema probandum”, con l’ulteriore conseguenza che l’esclusione dal “thema decidendum” dei fatti tardivamente contestati (e la loro conseguente inopponibilità nelle fasi successive del processo) si verifica solo allorchè il giudice non sia in grado, in concreto, di accertarne l’esistenza o l’inesistenza, “ex officio”, in base alle risultanze ritualmente acquisite.

La Corte territoriale, premesso che la domanda era stata proposta solo dallo Studio Associato e non dai singoli associati, ha affermato che, in virtù della disciplina applicabile retione temporis, lo Studio Associato – in quanto tale – era privo di legittimazione attiva, non potendosi sostituire ai singoli professionisti nei rapporti con la clientela allorchè si tratti di prestazioni per il cui espletamento la legge richieda particolari titoli di abilitazione di cui soltanto il singolo può essere in possesso.

La Corte d’Appello ha, dunque, ritenuto carente la legittimazione ad causam del soggetto che aveva agito in giudizio, quindi si è pronunciata su questione rilevabile ex officio.

Le argomentazioni addotte dalla ricorrente non censurano specificamente la ratio decidendi della sentenza impugnata come sopra sintetizzata.

La seconda parte del primo motivo denuncia violazione del D.P.R. n. 1067 del 1953, e conseguente errata statuizione. Si assume che la sentenza impugnata ha accolto l’eccezione avversaria in violazione della normativa che regola l’ordinamento della professione di dottore commercialista applicabile ratione temporis.

La censura non coglie nel segno poichè la Corte territoriale non ha fatto alcun riferimento alla necessità che il professionista risultasse iscritto all’albo professionale, ma ha sottolineato la natura strettamente personale del vincolo tra il cliente e il professionista che debba godere di particolari titoli di abilitazione.

Il secondo motivo lamenta omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio.

Anche questo motivo si articola in due censure: la prima denuncia omessa e/o erronea valutazione di fatti rilevanti con conseguente erronea statuizione ed erronea applicazione di legge ed attiene all’accertamento, nel caso di specie, della legittimazione dello studio in concreto; la seconda si incentra sulla contraddittoria motivazione circa un fatto decisivo per il giudizio e tratta sotto altro profilo la medesima questione.

Ma il vizio di contraddittorietà della motivazione ricorre solo in presenza di argomentazioni contrastanti e tali da non permettere di comprendere la “ratio decidendi” che sorregge il “decisum” adottato, per cui non sussiste motivazione contraddittoria allorchè dalla lettura della sentenza non sussistano incertezze di sorta su quella che è stata la volontà del giudice. (Cass. n. 8106 del 2006).

Il difetto di insufficienza della motivazione è configurabile soltanto quando dall’esame del ragionamento svolto dal giudice del merito e quale risulta dalla sentenza stessa impugnata emerga la totale obliterazione di elementi che potrebbero condurre ad una diversa decisione ovvero quando è evincibile l’obiettiva deficienza, nel complesso della sentenza medesima, del procedimento logico che ha indotto il predetto giudice, sulla scorta degli elementi acquisiti, al suo convincimento, ma non già, invece, quando vi sia difformità rispetto alle attese e alle deduzioni della parte ricorrente sul valore e sul significato attribuiti dal giudice di merito agli elementi delibati, poichè, in quest’ultimo caso, il motivo di ricorso si risolverebbe in un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti dello stesso giudice di merito che tenderebbe all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, sicuramente estranea alla natura e alle finalità del giudizio di cassazione; in ogni caso, per poter considerare la motivazione adottata dal giudice di merito adeguata e sufficiente, non è necessario che nella stessa vengano prese in esame (al fine di confutarle o condividerle) tutte le argomentazioni svolte dalle parti, ma è sufficiente che il giudice indichi le ragioni del proprio convincimento, dovendosi in tal caso ritenere implicitamente disattese tutte le argomentazioni logicamente incompatibili con esse (Cass. n. 2272 del 2007).

La ratio della sentenza impugnata è perfettamente comprensibile e la motivazione che la sorregge si rivela sufficiente e razionale, non inficiata dalle argomentazioni addotte dalla ricorrente.

Il terzo motivo è così intitolato: “in punto di omessa statuizione su eccezioni di parte appellante”. Una censura siffatta viola palesemente il disposto dell’art. 366 c.p.c., n. 4, poichè non specifica il vizio addebitato alla sentenza che si intende censurare.

Tratta il tema della natura del pagamento originariamente eseguito dall’appellante che si assume avere formato oggetto di nuova allegazione giuridica formulata dalla parte avversaria solo in appello.

La questione è rimasta assorbita nella decisione di carattere pregiudiziale adottata dalla Corte d’Appello.

Il quarto motivo, intitolato: “in punto quantificazione dei pagamenti eseguiti dallo studio B. T. & O. in forza della sentenza della Corte d’Appello di Milano” riguarda la restituzione alla controparte di quanto ricevuto in esecuzione della sentenza di primo grado e, quindi, un tema inammissibile in questa sede.

4.- La relazione è stata comunicata al pubblico ministero e notificata ai difensori delle parti;

Il ricorrente ha presentato memoria; il resistente ha chiesto d’essere ascoltato in camera di consiglio;

5.- Ritenuto:

che, a seguito della discussione sul ricorso, tenuta nella camera di consiglio, il collegio ha condiviso i motivi in fatto e in diritto esposti nella relazione;

che le argomentazioni addotte dal ricorrente con la memoria rispondono solo al controricorso e non anche alla relazione; è appena il caso di aggiungere che con la memoria non possono essere sollevate questioni (pagg. 15 e 16) che non sono state trattate nel ricorso; ancora, è giurisprudenza costante (Cass. 28 luglio 2010, n. 17683; Cass. 22 marzo 2007, n. 6994) che lo studio professionale associato non può legittimamente sostituirsi ai singoli professionisti nei rapporti con la clientela; non giova alla tesi della ricorrente neppure la sentenza 22 ottobre 2009, n. 22439 della I sezione di questa Corte richiamata dal P.M., poichè essa non si discosta dall’orientamento giurisprudenziale sopra riferito, anche se poi focalizza la propria attenzione sulla necessità di verificare, ai fini del privilegio previsto dall’art. 2751 bis c.c., n. 2, se l’inserimento del professionista nello studio del quale è socio sia tale da escludere la natura individuale del suo rapporto professionale con il cliente poi dichiarato fallito, fattispecie diversa da quella di cui è processo e accertamento che non ha costituito argomento di indagine nel giudizio di merito;

che il ricorso deve, perciò, essere dichiarato inammissibile; le spese seguono la soccombenza;

visti gli artt. 380 bis e 385 c.p.c..

P.Q.M.

Dichiara il ricorso inammissibile. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in complessivi Euro 3.200,00, di cui Euro 3.000,00 per onorari, oltre spese generali e accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Sesta Civile – 3, il 16 giugno 2011.

Depositato in Cancelleria il 20 luglio 2011

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