Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 15939 del 08/06/2021

Cassazione civile sez. trib., 08/06/2021, (ud. 22/03/2021, dep. 08/06/2021), n.15939

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FUOCHI TINARELLI Giuseppe – Presidente –

Dott. CATALLOZZI Paolo – Consigliere –

Dott. TRISCARI Giancarlo – Consigliere –

Dott. ARMONE Giovanni Maria – Consigliere –

Dott. MELE Francesco – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

Sul ricorso iscritto al n. 28011 del ruolo generale dell’anno 2014

proposto da:

Autotrasporti Tusciano Cooperativa a responsabilità limitata, in

persona del legale rappresentante, rappresentata e difesa, per

procura speciale a margine del ricorso, dall’Avv. Giuseppe D’Amico,

elettivamente domiciliata in Roma, via Aureliana, n. 3, presso lo

studio dell’Avv. Sara Di Cunzolo;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle entrate, in persona del direttore pro tempore, e

Ministero dell’Economia e delle Finanze, in persona del Ministro in

carica, rappresentati e difesi dall’Avvocatura dello Stato, presso i

cui uffici in Roma, via dei Portoghesi, n. 12, sono domiciliati;

– controricorrenti –

per la cassazione della sentenza della Commissione tributaria

regionale della Campania, sezione staccata di Salerno, n.

7958/5/2014, depositata in data 23 settembre 2014;

udita la relazione svolta nella Camera di Consiglio del 22 marzo 2021

dal Consigliere Triscari Giancarlo.

 

Fatto

RILEVATO

che:

dall’esposizione in fatto della sentenza impugnata si evince che: l’Agenzia delle entrate aveva notificato a Autotrasporti Tusciano a r.l. un avviso di accertamento con il quale, a seguito di controllo analitico-induttivo, basato sulla ritenuta antieconomicità dell’attività esercitata, aveva contestato un maggior reddito non dichiarato, ai fini Ires, Irap e Iva; avverso l’atto impositivo la società aveva proposto ricorso alla Commissione tributaria di Salerno che lo aveva parzialmente accolto, avendo riconosciuto l’esenzione dal pagamento dell’Ires; avverso la sentenza del giudice di primo grado la società aveva proposto appello;

la Commissione tributaria regionale della Campania, sezione staccata di Salerno, ha rigettato l’appello, in particolare ha ritenuto che: non sussisteva il vizio di violazione dell’art. 112 c.p.c., in quanto, in generale, il giudice ha il potere di decidere qualificando diversamente i fatti ed i rapporti dedotti in lite, ponendo alla base della decisione fatti riscontrabili nel giudizio; era corretto il metodo analitico-induttivo applicato; la circostanza che la società svolgeva attività a mutualità prevalente aveva rilevanza ai fini della esenzione dall’imposta sul reddito delle persone giuridiche, ma non anche per le ulteriori pretese; l’accertamento analitico-induttivo, basato sulla riscontrata antieconomicità dell’attività, era fondato su elementi di prova presuntiva idonei e non contrastati da convincenti elementi di prova contraria;

la società ha quindi proposto ricorso per la cassazione della sentenza affidato a sette motivi di censura, cui hanno resistito l’Agenzia delle entrate e il Ministero dell’Economia e delle Finanze depositando controricorso.

Diritto

CONSIDERATO

che:

preliminarmente, va dichiarata l’inammissibilità del ricorso con riferimento al Ministero dell’Economia e delle Finanze posto che, come questa Corte ha in più occasioni precisato, nei “rapporti giuridici”, “poteri” e “competenze” in materia tributari, al Ministero sono succedute ex lege (D.Lgs. n. 300 del 1999, art. 57, comma 1, con decorrenza dal 1^ gennaio 2001 D.M. 28 dicembre 2000, ex art. 1) le Agenzie fiscali, enti dotati di autonoma e distinta soggettività impositiva, nonchè di legittimazione sostanziale e processuale (Cass. 1550/15; 22992/10; 6591/08);

con il primo motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, nonchè per violazione e falsa applicazione degli artt. 112,115 e 324 c.p.c., dell’art. 2909 c.c., e dell’art. 111 Cost., per non essersi pronunciata sulla questione degli effetti del giudicato esterno consistente nella pronuncia della Commissione tributaria provinciale di Salerno, n. 20/13;

il motivo è inammissibile;

in primo luogo, va osservato che non correttamente parte ricorrente fa riferimento al vizio di motivazione della sentenza di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), al fine di censurare l’omessa pronuncia sulla questione di giudicato esterno dalla stessa prospettata dinanzi al giudice del gravame;

il vizio di motivazione della sentenza, invero, attiene all’omesso esame di fatti, principali o secondari, rilevanti ai fini della decisione, mentre diversamente deve dirsi in caso di omesso esame di eccezioni processuali, che attengono al giudizio e che può essere censurato qualora il vizio procedurale conseguente alla violazione di legge processuale abbia comportato la nullità della sentenza, sicchè deve essere prospettato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4);

anche il diverso profilo di censura, prospettato secondo le diverse norme di legge indicate dalla ricorrente, è inammissibile;

parte ricorrente, invero, prospetta il mancato rilievo del giudicato esterno derivante dalla pronuncia della Commissione tributaria provinciale di Salerno, n. 206/13, ma non assolve all’onere di specificità, allegando o riproducendo la sentenza con attestazione del passaggio in giudicato della medesima, non consentendo, pertanto, a questa Corte di accertare la rilevanza della questione; con il secondo motivo di ricorso si censura la sentenza per violazione e falsa applicazione degli artt. 112 e 115 c.p.c., nonchè dell’art. 111 Cost., e per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione delle parti, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), in relazione al divieto di doppia presunzione;

in particolare, parte ricorrente sostiene che, una volta accertato che, trattandosi di società cooperativa a mutualità prevalente, il costo dei soci/lavoratori costituiva reddito della società, non poteva su tale elemento fondarsi la valutazione della antieconomicità dell’attività svolta; sotto tale profilo, la motivazione del giudice del gravame sarebbe illogica e contraddittoria e sussisterebbe il vizio di motivazione per avere omesso di pronunciare in ordine al non corretto utilizzo di doppie presunzioni; evidenzia, inoltre, un errato inquadramento del regime contabile della contribuente; il motivo è inammissibile;

va precisato che, secondo l’orientamento di questa Corte (Cass. civ., 23 ottobre 2018, n. 26790), nel ricorso per cassazione il motivo di impugnazione che prospetti una pluralità di questioni precedute unitariamente dalla elencazione delle norme che si assumono violate e dalla deduzione del vizio di motivazione è inammissibile, richiedendo un inesigibile intervento integrativo della Corte che, per giungere alla compiuta formulazione del motivo, dovrebbe individuare per ciascuna delle doglianze lo specifico vizio di violazione di legge o del vizio di motivazione;

parte ricorrente, con il presente motivo, prospetta ragioni di doglianza che attengono, in primo luogo, a vizi di violazione di legge, peraltro non correttamente proposti in relazione agli artt. 112 e 115 c.p.c., che attengono rispettivamente alla omessa pronuncia su domande o eccezioni proposte dalle parti e alla violazione delle regole sulla disponibilità dei mezzi di prova, senza alcuna specifica indicazione circa la eventuale violazione di legge rappresentata dalla contestazione dell’antieconomicità dell’attività anche in relazione alle pretese diverse da quella relativa alle imposte sui redditi;

contestualmente, poi, argomenta prospettando la contraddittorietà o illogicità della motivazione della sentenza, dunque introduce un vizio di motivazione della sentenza, ma sul punto va, peraltro, osservato che, come questa Corte ha più volte precisato, l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), nel testo novellato dal D.L. n. 83 del 2002, art. 54, convertito dalla L. n. 134 del 2012, applicabile alla presente controversia, deve essere interpretato, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione ed è pertanto denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (Cass. Sez. U., 28 ottobre 2020, n. 23746; Cass. Sez. U. 7 aprile 2014 n. 8053);

si è, altresì, precisato che il “fatto” ivi considerato è un preciso accadimento ovvero una precisa circostanza in senso storico-naturalistico (Cass. n. 21152/2014). Il fatto in questione deve essere decisivo: per potersi configurare il vizio è necessario che la sua assenza avrebbe condotto a diversa decisione con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, in un rapporto di causalità fra la circostanza che si assume trascurata e la soluzione giuridica data (Cass. n. 28634/2013; Cass. n. 25608/2013; Cass. n. 24092/2013; Cass. n. 18368/2013; Cass. n. 3668/2013; Cass. n. 14973/2006); peraltro, la questione della doppia presunzione nonchè dell’errato inquadramento del regime contabile della società sono state prospettate senza alcuna osservanza del principio di autosufficienza, non consentendo comunque a questa Corte di apprezzare la rilevanza della questione;

infine, va altresì rilevato che la questione relativa alla “antieconomicità” del comportamento della contribuente è stato oggetto di valutazione sia dal giudice di primo grado che del giudice del gravame, sicchè la stessa è insindacabile in questa sede, attesa l’applicabilità della previsione di cui all’art. 348-ter c.p.c., commi 4 e 5, in materia di c.d. doppia conforme, introdotte dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, applicabile alla fattispecie, atteso che l’appello risulta depositato in data 26 ottobre 2012;

con il terzo motivo di ricorso si censura la sentenza per violazione di legge ed error in procedendo, ai sensi dell’art. 112 c.p.c., e D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 57, nonchè per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), in relazione alla doglianza relativa ai nuovi temi proposti in appello;

in particolare, la ricorrente lamenta che solo in appello l’amministrazione finanziaria aveva proposto controdeduzioni che introducevano nuove considerazioni a sostegno dell’avviso di accertamento, sostenendo, diversamente da quanto contenuto nell’atto impositivo, che l’antieconomicità sussisteva indipendentemente dalla riconosciuta mutualità prevalente e che il giudice del gravame non solo non aveva esaminato l’eccezione di inammissibilità, ma aveva fondato la decisione proprio tenendo conto delle nuove deduzioni;

il motivo è inammissibile;

va rilevato, in primo luogo, che il vizio di cui all’art. 112 c.p.c., non può essere prospettato per far valere la mancata pronuncia su questioni meramente processuali, dovendo, invece, la parte indicare espressamente la previsione di legge che si intende violata; nè può rilevare la ritenuta violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 57, che attiene a domande o eccezioni nuove che, in quanto tali, ampliano o modificano il thema decidendum, non anche alle eventuali argomentazioni difensive prospettate dalle parti; peraltro, sul punto, il giudice del gravame ha, correttamente, precisato che rientra nei poteri del giudice qualificare diversamente i fatti ed i rapporti dedotti in lite, potendo porre alla base della decisione elementi di fatto riscontrati nel processo; in tal modo, ha chiarito che le deduzioni difensive dell’amministrazione finanziaria non comportavano un ampliamento o una modificazione del thema decidendum e che la decisione aveva tenuto conto del complesso degli elementi indiziari posti alla sua attenzione;

questo passaggio della decisione non è stato oggetto di specifica contestazione da parte della ricorrente e, quindi, nessuna ragione di doglianza ad esso contrastante risulta prospettata;

infine, con riferimento al vizio di motivazione, oltre a ribadire anche in questa sede i limiti di utilizzabilità della censura secondo i parametri di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), va evidenziato il mancato assolvimento dell’onere di specificità, non contenendo il profilo di censura alcuno specifico riferimento all’avviso di accertamento ed alle controdeduzioni dell’amministrazione finanziaria;

con il quarto motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio nonchè per violazione di legge, ai sensi degli artt. 112 e 115 c.p.c.;

in particolare, parte ricorrente lamenta che il giudice del gravame avrebbe omesso di pronunciare su diversi motivi di appello, relativi alla: illegittimità dell’accertamento basato solo sulla ritenuta antieconomicità; inammissibilità delle presunzioni di secondo grado; erroneità della ricostruzione reddituale; inconferenza dei chilometri percorsi rispetto al reddito prodotto; erroneità del reddito rettificato; sulla base di tali considerazioni, ritiene che la pronuncia sia apparente, viziata da omessa pronuncia su fatti decisivi e, inoltre, per non avere tenuto conto delle argomentazioni tecniche prodotte dalla ricorrente;

il motivo è inammissibile;

va, in primo luogo, rilevato che il motivo è proposto in difetto di specificità, non avendo parte ricorrente assolto all’onere di indicare specificamente, riportando o trascrivendo nel ricorso, gli specifici motivi di cui la stessa lamenta la mancata pronuncia del giudice del gravame;

peraltro, va osservato che il giudice del gravame ha espressamente precisato che: “le ulteriori censure di cui ai punti 2-3-4-5 e 8” ed ha ritenuto che le stesse fossero “del tutto incongruenti, atteso che l’accertamento del maggior reddito di impresa, conseguente ad una rilevata antieconomicità, può ben fondarsi su meri indizi; le presunzioni, anche semplici, che inducono a ritenere l’esistenza di un più cospicuo ammontare dei guadagni, non contrastate da prove ex adverso convincenti possono fondare l’accertamento induttivo”; il giudice del gravame ha, quindi, espressamente tenuto in considerazione le diverse ragioni di doglianza proposte dalla ricorrente e su di esse si è pronunciato, anche in relazione allo specifico profilo relativo alla inammissibilità delle presunzioni di secondo grado cui fa riferimento la ricorrente, avendo dato rilevanza a tutti gli elementi presuntivi a disposizione per accertare la antieconomicità dell’attività, sicchè non può ragionarsi in termini di omessa pronuncia, ai sensi dell’art. 112 c.p.c.;

con riferimento, poi, al vizio di motivazione, lo stesso è stato prospettato sia in relazione alla mera apparenza, senza, tuttavia, indicare specificamente la nullità della sentenza, di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4), sia in relazione all’omessa pronuncia su fatti decisivi, anche in questo caso, in difetto di assolvimento dell’onere di specificità;

parimenti privo di specificità è l’ulteriore profilo di censura che attiene alla mancata considerazione delle prove prodotte dalla parte; con il quinto motivo di ricorso si censura la sentenza per violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., e dell’art. 111 Cost., per avere ritenuto superabile il motivo di ultrapetizione della pronuncia di primo grado;

il motivo è infondato;

la stessa ricorrente ha precisato che il giudice del gravame si è espressamente pronunciato sulla questione, sebbene esprimendo un principio ritenuto non conferente dalla ricorrente, sicchè non può ragionarsi in termini di violazione dell’art. 112 c.p.c.;

le ulteriori considerazioni, relative al contenuto della decisione sul punto, non attengono al profilo di censura in esame, semmai alla violazione di legge, profilo non coltivato specificamente dalla ricorrente;

con il sesto motivo di ricorso si censura la sentenza per error in procedendo e per violazione di legge, in particolare del D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 19, per non essersi pronunciata sulla istanza di sospensione dell’efficacia esecutiva delle sanzioni;

il motivo è inammissibile;

in primo luogo, parte ricorrente non assolve all’onere di specificità del motivo, non avendo trascritto o riportato il contenuto dell’atto di appello da cui evincere che era stata richiesta la sospensione dell’efficacia esecutiva delle sanzioni;

il motivo è comunque inammissibile per difetto di interesse, atteso che la pronuncia di sospensione dell’efficacia esecutiva delle sanzioni, prevista dal D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 19, che, a sua volta, rimanda alla previsione di cui al D.Lgs. n. 54 del 1992, art. 52, ha funzione meramente cautelare, dunque viene meno a seguito della pronuncia con cui si definisce il giudizio in senso sfavorevole alla contribuente, come nel caso di specie;

con il settimo motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per violazione degli artt. 24,97 e 111 Cost., degli artt. 100,112 e 277 c.p.c., del D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 1 e 2 e art. 35, comma 7, nonchè per carenza di motivazione, per avere pronunciato senza rendere evidente il percorso logico seguito al fine di rigettare i motivi di impugnazione proposti;

il motivo è infondato;

la pronuncia censurata risulta avere esaminati gli specifici motivi di appello proposti dalla ricorrente, argomentando specificamente sulle ragioni del mancato accoglimento degli stessi;

in particolare, il giudice del gravame: ha evidenziato per quale ragione non era prospettabile il vizio di ultrapetizione, precisando, peraltro, che è nel potere del giudice qualificare diversamente i fatti ed i rapporti giuridici sottesi, potendo liberamente valutare, in questo contesto, gli elementi di prova delle parti; ha argomentato in ordine alla correttezza dell’accertamento analitico-induttivo seguito dall’amministrazione finanziaria, basato sul riscontro del consumo di carburante e del costo medio in riferimento ai chilometri percorsi; ha precisato che l’accertamento della mutualità prevalente aveva riflessi unicamente ai fini delle imposte dirette, non anche per le ulteriori pretese; ha precisato le ragioni per cui gli ulteriori motivi di appello non potevano trovare fondamento, atteso che l’accertamento del maggior reddito, conseguente alla rilevata antieconomicità, poteva fondarsi su elementi indiziari e che, inoltre, parte ricorrente non aveva prodotto idonei elementi indiziari contrari;

rispetto a tali argomenti decisori, di per sè espressamente indicati dal giudice del gravame a supporto della motivazione, parte ricorrente si limita a prospettare una generica apparenza della motivazione, senza, tuttavia, individuare e indicare specificamente quali passaggi motivazionali fossero privi di adeguato argomento sul piano logico;

in conclusione: è inammissibile il ricorso proposto nei confronti del Ministero dell’Economia e delle Finanze, in quanto privo di legittimazione passiva; sono inammissibili il primo, secondo, terzo, quarto, sesto motivo, infondati il quinto e il settimo, con conseguente rigetto del ricorso e condanna della ricorrente al pagamento delle spese di lite in favore dell’Agenzia delle entrate e del Ministero dell’Economia e delle Finanze;

si precisa che, ai fini della determinazione delle spese di lite, si è tenuto conto del fatto che il Ministero dell’Economia e delle Finanze si è costituito unitamente all’Agenzia delle entrate, con conseguente applicazione del D.M. 10 marzo 2014, n. 55, art. 4, comma 2; si dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo, a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

P.Q.M.

La Corte:

rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese di lite in favore dell’Agenzia delle entrate e del Ministero dell’Economia e delle Finanze che si liquidano in complessive Euro 2600,00, oltre spese prenotate a debito;

dà atto ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo, a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 22 marzo 2021.

Depositato in Cancelleria il 8 giugno 2021

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