Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 15933 del 24/07/2020

Cassazione civile sez. lav., 24/07/2020, (ud. 03/12/2019, dep. 24/07/2020), n.15933

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Presidente –

Dott. DE GREGORIO Federico – rel. Consigliere –

Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere –

Dott. LEO Giuseppina – Consigliere –

Dott. PICCONE Valeria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 5357/2015 proposto da:

M.C.B., domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso

la CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e

difeso dall’avvocato PIETRO FAZIO;

– ricorrente –

contro

ALLIANZ S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA MAZZINI, 27, presso lo

studio degli avvocati PAOLO ZUCCHINALI, SALVATORE TRIFIRO’,

BONAVENTURA MINUTOLO, che la rappresentano e difendono;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1513/2014 della CORTE D’APPELLO di MESSINA,

depositata il 06/11/2014 r.g.n. 654/2014;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

03/12/2019 dal Consigliere Dott. FEDERICO DE GREGORIO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CIMMINO Alessandro, che ha concluso per l’inammissibilità o in

subordine rigetto;

udito l’Avvocato PIETRO FAZIO;

udito l’Avvocato GUIDO CHIODETTI per delega verbale Avvocato

SALVATORE TRIFIRO’.

 

Fatto

FATTI di CAUSA

Con ricorso al giudice del lavoro di Barcellona Pozzo di Gotto il sig. M.C.B., già agente della società RAS, lamentò diverse inadempienze della mandante, in particolare sotto l’aspetto della mancata vigilanza e repressione della illecita attività svolta dall’agenzia di (OMISSIS) ai suoi danni, denunciando altresì l’illegittimità del recesso, chiedendo il risarcimento di tutti i danni subiti, anche come provvigioni dirette e indirette, che gli erano dovute per gli affari conclusi nella sua zona di esclusiva, oltre al pagamento dell’indennità di fine rapporto. Instauratosi il contraddittorio con la costituzione in giudizio della società convenuta, che resisteva alle pretese avversarie, veniva espletata la necessaria istruttoria mediante anche prova per testi e consulenza tecnica d’ufficio contabile. All’esito, il giudice adito con sentenza del 19 febbraio 2008 accoglieva parzialmente la domanda e riconosceva la responsabilità della società preponente per violazione dell’esclusiva, condannandola al pagamento della somma di Euro 626.844,17 quale valore delle provvigioni differenziali nette, oltre accessori di legge. Rigettava, invece, le altre richieste di parte attrice.

Avverso l’anzidetta pronuncia proponeva appello la società ALLIANZ S.p.a., già RAS, come da ricorso depositato il 5 giugno 2008, cui resisteva il M., che proponeva a sua volta appello incidentale, denunciando nuovamente la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1750 c.c., che non inibiva il recesso per rappresaglia della parte inadempiente, ovvero con l’abuso di posizione dominante, contestando altresì l’ammontare del risarcimento del danno liquidato dal primo giudicante.

La Corte d’Appello di Messina disponeva nuova c.t.u. e, quindi, con sentenza numero 31 in data 14 – 31 gennaio 2014, in parziale riforma della decisione impugnata, condannava la società appellante, principale, al pagamento, in favore del M., della complessiva somma di Euro 139.835,36 oltre interessi e rivalutazione della cessazione del rapporto, confermando la gravata decisione quanto all’accertata responsabilità della società RAS per inadempimento, ma rideterminando l’importo liquidato a titolo di risarcimento danni, che andava quindi liquidato secondo le risultanze della c.t.u. espletata in secondo grado.

Dichiarava, altresì, compensate per la metà le spese relative al secondo grado del giudizio, che per la restante quota poneva a carico dell’appellante principale. In motivazione, peraltro, osservava come il suddetto importo non potesse essere ulteriormente incrementato, di guisa che l’appello incidentale andava disatteso, poichè le ulteriori voci di danno non risultavano provate, mentre non potevano riconoscersi indennità di fine rapporto collegate alle mancate provvigioni, in quanto tali indennità contrattuali erano strettamente connesse all’esecuzione del contratto di agenzia e non potevano, quindi, trovare ingresso nella pretesa risarcitoria azionata circa i dedotti danni da mancato guadagno con riferimento alla violazione dell’esclusiva. Appariva, infine, ininfluente e comunque infondata la questione di legittimità costituzionale prospettata dall’appellante incidentale con riferimento alla normativa concernente il recesso dal contratto di agenzia, profondamente diverso dal rapporto di lavoro subordinato nell’ambito del quale opera la disciplina limitativa del recesso, nonchè dai rapporti instaurati con il contraente debole (consumatore).

In seguito, il signor M. con ricorso depositato il 14 maggio 2014 impugnava per revocazione la suddetta pronuncia d’appello, n. 31/2014, sostenendo l’esistenza di un palese errore di fatto nella relazione del c.t.u. recepita dalla decisione di secondo grado, circa la determinazione della percentuale di incremento medio delle provvigioni, assumendo che il consulente aveva utilizzato il coefficiente di incremento come percentuale di incremento, provocando quindi l’errore di calcolo lamentato, mentre in applicazione corretta del metodo seguito dall’ausiliare si sarebbe pervenuti quantomeno all’importo di 1.226.329,56 Euro in proprio favore, con un aumento esponenziale delle somme anche rispetto a quanto riconosciuto nella sentenza di primo grado.

La Corte d’Appello di Messina, quindi, con sentenza n. 1513 in data 14 ottobre – 6 novembre 2014 rigettava la domanda di revocazione, compensando le relative spese, poichè non riscontrava alcun errore di calcolo nell’operazione descritta dal ricorrente, implicante un travisamento di dati, in quanto le operazioni svolte dal c.t.u. apparivano conformi ai dettami dallo stesso posti a loro fondamento. Evidentemente, il collegio non era quindi incorso in alcuna svista o in alcun errore su circostanze decisive nel recepire le conclusioni del c.t.u., poichè aveva pedissequamente considerato le risultanze peritali nel loro sviluppo e nelle loro conclusioni. Peraltro, laddove vi fosse stato un errore nell’individuazione del criterio seguito dal consulente si sarebbe configurato un errore di valutazione, in quanto il vizio avrebbe riguardato l’esposizione dell’iter logico seguito per pervenire alla contestata determinazione dell’ammontare dei danni, e non già diretto a far valere l’erronea percezione di eventi o circostanze incontestabilmente esclusi, ovvero indubitabilmente accertati ex actis. Quindi, non sussisteva alcun errore revocatorio ex art. 395 c.p.c..

Avverso entrambe le anzidette sentenze ha proposto ricorso per cassazione il sig. M. come da atto notificato il 19 febbraio 2015, affidato a cinque motivi, cui ha resistito la S.p.a. ALLIANZ mediante controricorso in data 25-26 marzo 2015.

Memorie ex art. 378 c.p.c., sono state depositate per entrambe le parti.

Diritto

RAGIONI della DECISIONE

Con il primo motivo di ricorso, avverso la sentenza n. 1513/14, ex art. 360 c.p.c., n. 3, è stata dedotta la violazione dell’art. 395 c.p.c., n. 4, riproponendosi i motivi posti a sostegno dell’anzidetto ricorso per revocazione. Secondo il ricorrente, ALLIANZ non aveva sostanzialmente contestato la sussistenza del denunciato errore di calcolo e nemmeno aveva preso posizione in maniera precisa sulla correttezza o meno della operazione matematica analiticamente esposta del ricorrente. In realtà, l’errore di fatto denunciato dal ricorrente in sede di revocazione consisteva in una falsa percezione di quanto emergente dagli atti sottoposti all’organo giudicante, laddove si era concretizzata una svista materiale su circostanze decisive, emergenti direttamente dagli atti con carattere di assoluta immediatezza, nonchè semplice e concreta rilevabilità, con esclusione di ogni apprezzamento in ordine a valutazioni in diritto delle risultanze processuali. Certamente il mero errore di calcolo non aveva inciso sulla formazione del convincimento del giudicante, che aveva riconosciuto il pieno diritto di esso M., prescindendo dalla misura del risarcimento (Cass. lav. 15734-13). In buona sostanza l’errore materiale denunciato rivestiva il richiesto carattere della decisività, ma solo per la corretta determinazione del quantum, giammai per la statuizione sull’an deberatur. Quindi, la Corte territoriale era incorsa in un error in iudicando, ritenendo inapplicabile nella specie il rimedio di cui all’art. 395 c.p.c., donde, secondo parte ricorrente, l’ammissibilità dell’esame diretto degli atti da parte del giudice di legittimità al fine di verificare lo svolgimento del giudizio in conformità al rito (Cass. lav. 6332/14).

Con il secondo motivo, formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 4 e 5, sempre in relazione alla sentenza di rigetto del ricorso per revocazione, il M. ha denunciato la violazione dell’art. 111 Cost., art. 132 c.p.c., n. 4 e art. 118 disp. att. c.p.c., avendo la Corte distrettuale, in buona sostanza, dopo aver travisato la domanda del ricorrente, enunciato soltanto alcuni principi generali, peraltro non riferibili alla fattispecie, omettendo di esaminare, pronunciare e motivare in ordine all’operazione matematica prospettata con il ricorso, che aveva evidenziato l’errore di calcolo consacrato nell’allegato C della relazione di c. t. u.. Non aveva, cioè, spiegato perchè non sarebbe stato condivisibile affermare che l’incremento dell’1,20535% di Euro 123.554,03 conduceva ad Euro 125.043,29 e non a Euro 148.925,38 e che per passare dal dato iniziale (media delle provvigioni per gli anni 1988/92) di Euro 123.554,03 al dato finale (media delle provvigioni per gli anni 1993/98) di Euro 148.925,38 occorreva, invece, applicare un incremento percentuale del 20,535%. Infatti, l’incremento del 20,535% di Euro 123.554,03 comportava proprio l’importo di Euro 148.925,38. Per contro, la Corte territoriale, invece di pronunciarsi sulla correttezza dell’operazione matematica enunciata, aveva ricondotto apoditticamente il prospettato errore di calcolo nella categoria degli errori di valutazione o di metodo, privi del carattere di assoluta immediatezza e di semplice concreta rilevabilità. Inoltre, la Corte messinese sembrava non distinguere tra coefficiente di incremento (il valore per il quale va semplicemente moltiplicato il dato iniziale per ottenere il dato finale senz’altra operazione) e percentuale di incremento (valore per il quale va moltiplicato il dato iniziale per poi dividerlo per cento onde giungere al dato finale). Peraltro, la motivazione resa dalla Corte distrettuale – in ogni caso apparente, più che perplessa, incongrua ed illogica – si attagliava ad una pronuncia di inammissibilità, piuttosto che a quella adottata di rigetto della domanda di revocazione.

In via subordinata, nell’ipotesi di inammissibilità/infondatezza delle precedenti censure, venivano formulate le seguenti doglianze relativamente alla sentenza d’appello n. 31/2014.

III. ex art. 360 c.p.c., n. 5 – OMESSO esame di un fatto decisivo per il giudizio.

Già decidendo sul ricorso iscritto al n. 918 dell’anno 2008 R.G. (appello di cui all’atto depositato il 5 giugno 2008) la Corte distrettuale avrebbe dovuto riconoscere l’errore tempestivamente denunciato alle pagine 14 e 15 della terza comparsa conclusionale depositata il 10 ottobre 2013, laddove era stato denunciato l’errore di calcolo, così come emergente dall’allegato C alla relazione della c.t.u.. Ma la Corte territoriale aveva totalmente ignorato i puntuali specifici rilievi, tanto da determinare la misura del risarcimento “in conformità alle indicazioni del c.t.u. del presente grado”, omettendo l’esame della doglianza e qualsiasi motivazione sul punto; ciò che emergeva dalla motivazione sul quantum di cui alle pagine 5 e 6 della sentenza impugnata, dalle quali risultava evidente l’omissione dell’esame del fatto decisivo rappresentato dall’evidente macroscopico errore di calcolo contenuto nella c.t.u., che aveva formato oggetto di discussione, anche perchè espressamente denunciato con l’anzidetta terza comparsa conclusionale, primo atto difensivo successivo al deposito dell’elaborato peritale, e successivamente rammentato in sede di discussione.

IV – violazione dell’art. 111 Cost., art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4 e art. 118 disp. att. c.p.c., comma 2, in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 4 e 5, dovendo considerarsi in ogni caso meramente apparente la motivazione della sentenza impugnata, con riferimento a quanto descritto con la terza doglianza, laddove il giudice richiami le conclusioni raggiunte dal consulente, senza ulteriori specificazioni, non illustrando nè le ragioni, nè l’iter logico seguito per pervenire, partendo da esse, al risultato enunciato in sentenza (Cass. 24.02.2014 n. 4285).

V motivo – ex art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5 – violazione dell’art. 195 c.p.c., in relazione agli artt. 24 e 111 Cost. – nonchè omesso esame della relativa censura.

Il c.t.u. che aveva accettato l’incarico il 27-09-2011 non aveva osservato il procedimento previsto dall’art. 195 c.p.c., u.c., depositando il 27 maggio 2013, quindi con grave ritardo, la sua relazione, senza mai interloquire con le parti, ad eccezione delle formalità di inizio delle operazioni peritali in data 10 settembre 2012. Ciò non soltanto aveva gravemente violato il diritto di difesa, ma aveva anche falsato il regolare svolgimento del processo, negando in particolare al ricorrente il diritto di cui all’art. 195 citato di contestare l’errore di calcolo direttamente ad esso consulente nel corso delle operazioni peritali, per ottenere da costui la correzione ovvero i dovuti chiarimenti. Per queste ragioni la difesa, privata dello strumento primario previsto dal rito, non aveva potuto fare altro che inserire le sue contestazioni ed i suoi fondati rilievi nel primo atto utile successivo al deposito della relazione, ossia nella terza comparsa conclusionale depositata il 10 ottobre 2013. Ovviamente tali contestazioni e rilievi venivano anche riproposti nella successiva udienza di discussione, ma la Corte d’Appello li aveva semplicemente ignorati, omettendo non solo la motivazione, ma persino l’esame della eccepita violazione del cit. art. 195.

Tanto premesso, tutte le anzidette censure vanno disattese in forza delle seguenti considerazioni.

Ed invero, il ricorso de quo si appalesa alquanto carente nell’allegazione delle emergenze processuali (soprattutto il ricorso introduttivo del giudizio, le difese svolte in appello e la relazione del c.t.u. di secondo grado, con relativi allegati, riguardo alla quale il M. ipotizza errori di calcolo) ed in relazione alle quali si assumono i vizi denunciati, donde la sua assorbente inammissibilità per difetto dei requisiti di specificità, pertinenza ed autosufficienza, occorrenti però a norma dell’art. 366 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 6, con riferimento altresì agli errores in procedendo nella specie pure denunciati, per cui inoltre non è sufficiente il solo richiamo alla documentazione all’uopo prodotta (e per il cui deposito opera la diversa previsione di cui all’art. 369 c.p.c., che commina la sanzione dell’improcedibilità nell’ipotesi di sua inosservanza. Cfr. Cass. sez. un. civ. n. 22726 del 3/11/2011, laddove veniva in ogni caso l’esigenza di specifica indicazione, a pena di inammissibilità ex art. 366 c.p.c., n. 6, degli atti, dei documenti e dei dati necessari al reperimento degli stessi. V. altresì quanto chiarito in motivazione da Cass. lav. n. 25482 del 9/10 – 2/12/2014 circa la vigenza del principio di autosufficienza del motivo di ricorso per cassazione anche con riferimento alla violazione di norme processuali. V. parimenti Cass. sez. un. 8077 del 22/05/2012, secondo cui quando col ricorso per cassazione venga denunciato un vizio che comporti la nullità del procedimento o della sentenza impugnata, il giudice di legittimità non deve limitare la propria cognizione all’esame della sufficienza e logicità della motivazione con cui il giudice di merito ha vagliato la questione, ma è investito del potere di esaminare direttamente gli atti ed i documenti sui quali il ricorso si fonda, purchè la censura sia stata proposta dal ricorrente in conformità alle regole fissate al riguardo dal codice di rito, quindi, in particolare, in conformità alle prescrizioni dettate dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4.

Analogamente, più di recente Cass. Sez. 6-1, con ordinanza n. 23834 del 25/09/2019 ha confermato che l’esercizio del potere di esame diretto degli atti del giudizio di merito, riconosciuto a questa S.C. ove sia denunciato un “error in procedendo”, presuppone l’ammissibilità del motivo, ossia che la parte riporti in ricorso, nel rispetto del principio di autosufficienza, gli elementi ed i riferimenti che consentono di individuare, nei suoi termini esatti e non genericamente, il vizio suddetto, così da consentire di effettuare il controllo sul corretto svolgimento dell'”iter” processuale senza compiere generali verifiche degli atti. Conformi Cass. V civ. n. 19410 del 30/09/2015 e Sez. lav. n. 23420 del 10/11/2011.

Cfr. altresì Cass. III civ. n. 12984 del 31/05/2006, laddove in relazione all’ipotesi in cui venga dedotto vizio di motivazione per incongruità o illogicità della motivazione della sentenza impugnata per mancata o insufficiente od erronea valutazione di risultanze processuali – un documento, deposizioni testimoniali, dichiarazioni di parti, accertamenti del c.t.u., ecc. – è imprescindibile, al fine di consentire alla Corte di effettuare il richiesto controllo, anche in ordine alla relativa decisività, che il ricorrente precisi – pure mediante integrale trascrizione delle medesime nel ricorso – le risultanze che asserisce decisive o insufficientemente o erroneamente valutate, in quanto per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione il controllo deve essere consentito sulla base delle deduzioni contenute nel medesimo, alle cui lacune non è possibile sopperire con indagini integrative. Conforme Cass. III civ. n. 9245 del 18/04/2007.

V. ancora Cass. I civ. n. 16368 del 17/07/2014: in tema di ricorso per cassazione per vizio di motivazione, la parte che lamenti l’acritica adesione del giudice di merito alle conclusioni del consulente tecnico d’ufficio non può limitarsi a far valere genericamente lacune di accertamento o errori di valutazione commessi dal consulente o dalla sentenza che ne abbia recepito l’operato, ma, in ossequio al principio di autosufficienza del ricorso per cassazione ed al carattere limitato del mezzo di impugnazione, ha l’onere di indicare specificamente le circostanze e gli elementi rispetto ai quali invoca il controllo di logicità, trascrivendo integralmente nel ricorso almeno i passaggi salienti e non condivisi della relazione e riportando il contenuto specifico delle critiche ad essi sollevate, al fine di consentire l’apprezzamento dell’incidenza causale del difetto di motivazione. Analogamente, tra le altre, Cass. II civ. n. 13845 del 13/06/2007: la parte che addebita alla consulenza tecnica d’ufficio lacune di accertamento o errori di valutazione oppure si duole di erronei apprezzamenti contenuti in essa – o nella sentenza che l’ha recepita – ha l’onere di trascrivere integralmente nel ricorso per cassazione almeno i passaggi salienti e non condivisi e di riportare, poi, il contenuto specifico delle critiche ad essi sollevate, al fine di evidenziare gli errori commessi dal giudice del merito nel limitarsi a recepirla e nel trascurare completamente le critiche formulate in ordine agli accertamento ed alle conclusioni del consulente d’ufficio. Le critiche mosse alla consulenza ed alla sentenza devono pertanto possedere un grado di specificità tale da consentire alla Corte di legittimità di apprezzarne la decisività direttamente in base al ricorso).

Nel caso in esame, pertanto, la carenza di complete trascrizioni, soprattutto per gli elaborati del c.t.u., con relative chiare illustrazioni in proposito(impedisco di comprendere il senso e la fondatezza delle critiche al riguardo mosse dal ricorrente, che sebbene ammissibili (limitatamente al primo ed al secondo motivo, tra loro connessi) in astratto, quanto all’invocata revocazione (cfr. in fatti anche più recentemente Cass. I civ. n. 3867/08.02.2019, secondo cui il ricorso per cassazione, fondato sull’affermazione che il giudice di merito abbia travisato le risultanze della consulenza tecnica, è inammissibile, configurandosi in questa ipotesi esclusivamente il rimedio della revocazione, ai sensi dell’art. 395 c.p.c., n. 4. Conformi: Cass. n. 7772 del 17/05/2012, nn. 1195 del 2000, 885 del 2002, nonchè n. 1061 del 25/01/2001), vanno ugualmente disattese per difetto degli anzidetti requisiti, inderogabili ed imprescindibili, di specificità e di autosufficienza (V. pure Cass. Sez. 6-3, ordinanza n. 1926 del 3/2/2015, secondo cui, in particolare, il principio di autosufficienza del ricorso impone che esso contenga tutti gli elementi necessari a porre il giudice di legittimità in grado di avere la completa cognizione della controversia e del suo oggetto, di cogliere il significato e la portata delle censure rivolte alle specifiche argomentazioni della sentenza impugnata, senza la necessità di accedere ad altre fonti ed atti del processo, ivi compresa la sentenza stessa. Conformi, tra le altre, Cass. n. 7825 del 2006, n. 19018 del 31/07/2017 nonchè n. 31082 del 28/12/2017). Non resta, pertanto, che prendere atto di quanto motivatamente ritenuto dalla Corte di merito con la sentenza n. 1513/14, di rigetto dell’istanza di revocazione, fondata sul presupposto di un palese errore di fatto nella relazione di c. t. u., recepita dalla sentenza d’appello, consistito nella determinazione della percentuale di incremento medio delle provvigioni, in ragione di 1,20535 operando il raffronto tra la media delle provvigioni tra il periodo 1988/1992 e quella concernente gli anni 1993/1998. Il ricorrente aveva sostenuto che dal prospetto C, allegato alla relazione del c.t.u., l’ausiliare aveva utilizzato il coefficiente di incremento come percentuale d’incremento, provocando quindi il lamentato errore di calcolo, laddove in applicazione corretta del metodo seguito dallo stesso c.t.u. si sarebbe pervenuti quanto meno all’importo di Euro 1.226.329,56 Euro a favore di esso c.t.u., con un aumento esponenziale delle somme, anche rispetto a quanto riconosciuto nella sentenza di primo grado. Per contro, secondo la Corte messinese non si riscontrava “alcun errore di calcolo nell’operazione descritta poichè, matematicamente, moltiplicando la somma di Euro 123.334,03 x la percentuale d’incremento di 1,20535, indicata dal c.t.u. e mantenuta ferma dal ricorrente che di essa non si duole, si perviene proprio alla somma di 148.925,38 indicata dal c.t.u. nella relazione… l’operazione va fatta considerando il dato 1,20535 come percentuale di incremento medio tra i due periodi temporali considerati, così come operato dal c.t.u., e quindi mediante il coefficiente di incremento indicato in percentuale. Lo stesso ricorrente del resto ha chiarito che per passare dal dato iniziale – Euro 123.334,03 – al dato finale – Euro 148.925,38 – occorre applicare un incremento percentuale, sicchè appare priva di spiegazione aritmetica la critica del “coefficiente di incremento” come percentuale di incremento”, posto che secondo il senso comune delle espressioni, la percentuale è un valore numerico rapportato a cento unità che è sicuramente idoneo ad esprimere l’incremento, il quale rappresenta la differenza tra due valori numerici. Ciò posto, non si ravvisa alcun errore che sia qualificabile come errore di calcolo e che implichi un travisamento dei dati poichè le operazioni svolte dal c.t.u. appaiono conformi ai dettami dallo stesso posti a loro fondamento, senza alcun errore che sia rilevabile dagli atti, compresi gli allegati alla relazione. Evidente è pertanto che il collegio non è incorso in alcuna svista o errore su circostanze decisive nel recepire le conclusioni del c.t.u., poichè ha pedissequamente considerato le risultanze peritali nel loro sviluppo e nelle loro conclusioni…”.

Parimenti vanno disattese le altre doglianze di parte ricorrente (terzo, quarto e quinto motivo del ricorso avverso la sentenza d’appello n. 31/2014), sussistendo, evidentemente, anche per tali censure il rilevato difetto di autosufficienza e di specificità, alla luce, d’altro canto delle pur motivate argomentazioni poste a sostegno dell’impugnata sentenza in data 14 gennaio / 17 marzo 2014, laddove venivano condivise, limitatamente al quantum della riconosciuta pretesa risarcitoria, le risultanze della c.t.u. contabile espletata a cura del Dott. A., rinnovata in base alle critiche sul punto mosse dalla società appellante, che aveva fortemente contestato il metodo induttivo seguito dal c.t.u. di prime cure, sia quelle di parte appellata.

In sintesi, la Corte di merito condivideva la ricostruzione operata dal secondo c.t.u., conteggiando in particolare, in base all’incarico conferito, l’importo delle provvigioni sulle polizze acquisite in violazione dell’esclusiva spettante all’agente M., con l’incremento virtuale delle provvigioni, ricavate dalla media delle provvigioni effettivamente maturate e maggiorate da quelle derivanti dall’agenzia (OMISSIS), determinatesi nei periodi antecedente e successivo al comportamento illegittimo, sulla base quindi di dati reali e non supposti. Similmente il nuovo c.t.u. aveva tenuto conto nel calcolo virtuale della percentuale di retrocessione anche dei costi al fine di determinare una realistica ricostruzione della situazione derivata dal mancato guadagno, pervenendo quindi all’indicazione della complessiva somma di 139.835,36 Euro, quale importo corrispondente ai compensi non percepiti dall’agente M..

La succitata pronuncia n. 31/2014, pertanto, si appalesa motivata nei limiti del c.d. minimo costituzionale e non risulta, d’altro canto, aver pretermesso nell’esame delle acquisite risultanze processuali alcun decisivo e rilevante fatto storico. Di conseguenza, non sono ravvisabili i vizi denunciati con il terzo ed il quarto motivo di ricorso.

Ed invero, va ancora precisato, quanto al c.d. vizio di motivazione, che nella specie, in relazione alle sentenze qui impugnate, pubblicate nell’anno 2014, opera il nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, riformulato dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, conv., con modif., dalla L. n. 134 del 2012, che ha introdotto nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo; pertanto, l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (v. in tal sensi, tra le altre, Cass. H civ. n. 27415 del 29/10/2018. V. parimenti Cass. II civ. n. 20721 del 13/08/2018: il vizio motivazionale previsto dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nella formulazione introdotta dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, convertito in L. n. 134 del 2012, applicabile “ratione temporis”, presuppone che il giudice di merito abbia esaminato la questione oggetto di doglianza, ma abbia totalmente pretermesso uno specifico fatto storico, e si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa e obiettivamente incomprensibile”, mentre resta irrilevante il semplice difetto di “sufficienza” della motivazione. Analogamente, Cass. III civ. n. 23940 del 12/10/2017: in seguito alla riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, non sono più ammissibili nel ricorso per cassazione le censure di contraddittorietà e insufficienza della motivazione della sentenza di merito impugnata, in quanto il sindacato di legittimità sulla motivazione resta circoscritto alla sola verifica della violazione del “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111 Cost., comma 6, individuabile nelle ipotesi – che si convertono in violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4 e danno luogo a nullità della sentenza – di “mancanza della motivazione quale requisito essenziale del provvedimento giurisdizionale”, di “motivazione apparente”, di “manifesta ed irriducibile contraddittorietà” e di “motivazione perplessa od incomprensibile”, al di fuori delle quali il vizio di motivazione può essere dedotto solo per omesso esame di un “fatto storico”, che abbia formato oggetto di discussione e che appaia “decisivo” ai fini di una diversa soluzione della controversia.

Id. n. 23940 del 12/10/2017: in tema di valutazione delle prove, il principio del libero convincimento, posto a fondamento degli artt. 115 e 116 c.p.c., opera interamente sul piano dell’apprezzamento di merito, insindacabile in sede di legittimità, sicchè la denuncia della violazione delle predette regole da parte del giudice del merito non configura un vizio di violazione o falsa applicazione di norme processuali, sussumibile nella fattispecie di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, bensì un errore di fatto, che deve essere censurato attraverso il corretto paradigma normativo del difetto di motivazione, e dunque nei limiti consentiti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come riformulato dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, conv., con modif., dalla L. n. 134 del 2012.

Cass. lav. n. 21439 del 21/10/2015: nel giudizio di cassazione è precluso l’accertamento dei fatti ovvero la loro valutazione a fini istruttori, tanto più a seguito della modifica dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, operata dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, conv. con modif. in L. n. 134 del 2012, che consente il sindacato sulla motivazione limitatamente alla rilevazione dell’omesso esame di un “fatto” decisivo e discusso dalle parti.

Cass. sez. un. civ. nn. 8053 e 8054 del 7/4/2014: la riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione soltanto l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione).

Ulteriore profilo d’inammissibilità, poi, sussiste per il quinto e ultimo motivo, laddove appaiono inconferenti i riferimenti alle ipotesi di cui dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5 (atteso che il vizio denunciato integra chiaramente un error in procedendo, denunciabile quindi ritualmente ex art. 360 c.p.c., n. 4 e soltanto univocamente in termini di nullità). Per di più la violazione dell’art. 195 c.p.c., di cui si duole il ricorrente, riguarda chiaramente il testo della norma come modificato dalla L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 46, comma 5, però nella specie ratione temporis inapplicabile, in base allo specifico regime transitorio di cui alla L. n. 69 cit., art. 58, comma 1, secondo cui “le disposizioni della presente legge che modificano il codice di procedura civile e le disposizioni per l’attuazione del codice di procedura civile si applicano ai giudizi instaurati dopo la data della sua entrata in vigore”, avvenuta il 4 luglio 2009. Per contro, nel caso di specie il ricorso introduttivo del giudizio risale all’otto giugno 1999 ed anche il ricorso d’appello è di data anteriore, essendo stato depositato il 5 giugno 2008 (peraltro, ad ulteriore conferma della violazione del principio di autosufficienza, specie ex art. 366 c.p.c., n. 6, neppure sono state in qualche modo riassunte le contestazioni menzionate dal ricorrente con riferimento ai rilievi mossi alla c.t.u. nel primo atto utile successivo al deposito della relazione, ossia la terza comparsa conclusionale depositata il 10-10-2013 con le sue prime 16 pagine).

Pertanto, con il rigetto del ricorso il soccombente deve essere condannato al rimborso delle relative spese in favore della controparte.

Visto, infine, l’esito negativo dell’impugnazione de qua, sussistono i presupposti processuali di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.

PQM

la Corte RIGETTA il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese, che liquida in complessivi Euro 5000,00 (cinquemila/00) per compensi professionali ed in Euro 200,00 (duecento/00) per esborsi, oltre spese generali al 15%, i.v.a. e c.p.a. come per legge, in favore della società controricorrente.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 13 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 24 luglio 2020

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