Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 15932 del 29/07/2016


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Cassazione civile sez. II, 29/07/2016, (ud. 16/06/2016, dep. 29/07/2016), n.15932

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MAZZACANE Vincenzo – Presidente –

Dott. MATERA Lina – Consigliere –

Dott. ORILIA Lorenzo – Consigliere –

Dott. ABETE Luigi – Consigliere –

Dott. SCARPA Antonio – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 2449-2013 proposto da:

M.E., MFFLNE40P67I002Q, elettivamente domiciliata in ROMA,

VIA DELLA FISICA 7, presso lo studio dell’avvocato PATRIZIO ALECCE,

rappresentata e difesa dall’avvocato CLEMENTINA AMBROSINO;

– ricorrente –

contro

R.G., V.I.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 2972/2012 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI,

depositata il 19/09/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

16/06/2016 dal Consigliere Dott. ANTONIO SCARPA;

udito l’Avvocato Delli Paoli per delega dell’Avvocato Ambrosino;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

Celeste Alberto, il quale ha concluso per l’accoglimento del

ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Elena M. in data 4.11.1998 propose ricorso per reintegrazione ex art. 1168 c.c. presso la Pretura di Benevento, Sezione Distaccata di San Giorgio del Sannio, nei confronti di R.G. e V.I., esponendo:

– che, con atto di compravendita del 17.1.1980, aveva acquistato una porzione di fabbricato urbano sita in (OMISSIS), al NCEU alla partita 341, foglio 4, p.lla 256 sub 2 e p.lla 402 sub. 5, al NCT alla partita 1773, foglio 4 p.lla 402 sub. 4, con diritto all’andito, p.lla. n.402 sub. 9, nonchè alla corte di cui alla p.lla n.255 e con la corte esclusiva p.lla n. 403 dello stesso foglio;

– che questo fabbricato era stato demolito a seguito degli eventi sismici del novembre 1980 e ricostruito fuori sito con conseguente acquisizione della relativa area di sedime al patrimonio del Comune di San Martino Sannita, con Delib. 16 novembre 1985, n. 61;

– che le corti retrostanti al fabbricato demolito, di cui una di esclusiva titolarità (p.lla 403) e l’altra condominiale (p.lla 255) erano rimaste nella proprietà e nel possesso della signora M., mentre sull’area di sedime la stessa aveva conservato il possesso, oltre che il diritto di proprietà ed il possesso sull’andito (p.lla 402 sub 9);

– che questa consistenza immobiliare confinava, tra l’altro, con la proprietà dei signori R.G. e V.I., i quali, da alcuni giorni, nel realizzare un muro di recinzione al proprio immobile, avevano illegittimamente e contro la volontà espressa della M., occupato interamente la particella n. 403, ossia la corte di esclusiva proprietà della medesima ricorrente, nonch6 parte della corte comune di cui alla particella n.255 e parte dell’area di sedime del fabbricato demolito, attualmente di proprietà comunale, spogliando la M. del relativo possesso di tali beni.

Su tali premesse, M.E. aveva chiesto di essere reintegrata nel possesso degli immobili suddetti ed altresì che venisse ordinata ai resistenti l’immediata riduzione in pristino stato dei luoghi, mediante la rimozione del muro di recinzione realizzato da costoro.

Il Pretore adito ordinava la sospensione immediata dei lavori in corso di esecuzione da parte di R.G. e V.I. e disponeva la comparizione delle parti. Si costituivano così i resistenti R.G. e V.I., i quali anzitutto eccepivano l’inammissibilità della domanda in quanto tardiva, essendo gli immobili in contesa da loro occupati da almeno vent’anni, sicchè la perdita del possesso in capo alla M. risaliva a ben oltre un anno antecedente alla proposizione della domanda. Gli stessi resistenti aggiungevano che l’area in questione era stata delimitata da una prima recinzione già nell’ estate del 1997, per cui comunque l’azione proposta appariva intempestiva.

Inoltre, i resistenti R. e V. evidenziavano che la ricorrente M. avesse consentito da venti anni che le aree in questione rimanessero nella libera disponibilità, e che la recinzione apportata fosse relativa alla loro rispettiva proprietà, il che comunque denotava la carenza di animus spoliandi. Espletata C.t.u. e sentiti alcuni informatori, il giudice adito aveva con ordinanza disposto la reintegrazione di M.E. nel possesso dei beni oggetto del ricorso, con abbattimento delle opere realizzate. Il giudizio proseguiva per il merito e, dopo l’istruttoria, veniva deciso con sentenza n. 1636/2005 del Tribunale di Benevento, con la quale il ricorso era accolto e i resistenti erano condannati a reintegrare la ricorrente nel possesso delle particelle indicate, mediante l’esecuzione dei lavori indicati dal CTU, mentre veniva rigettata la domanda di risarcimento dei danni.

Proponevano appello R.G. e V.I., che criticavano essenzialmente l’erronea valutazione delle risultanze istruttorie fatta dal giudice di primo grado. Si costituiva M.E., resistendo al gravame. La Corte d’Appello di Napoli, con sentenza del 19/09/2012, accoglieva l’appello e rigettava la domanda proposta da M.E.. La Corte napoletana osservava come dalle informazioni rese nella fase sommaria e dalle testimonianze del giudizio di cognizione non potesse dirsi univocamente provato il possesso delle aree relative alle particelle n. 402, 255 e 403 in capo alla M. all’epoca del denunciato spoglio. Avverso la sentenza della Corte d’Appello di Napoli M.E. ha proposto ricorso articolato in tre motivi. R.G. e V.I. rimangono intimati senza svolgere attività difensiva.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Il primo motivo di ricorso di Elena M. deduce violazione e/o falsa applicazione dell’art. 1140 c.c. ss., nonchè art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3; e vizio di motivazione per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto discussione tra le parti art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. Il motivo assume che la ricorrente avesse acquistato proprietà e possesso dei beni in contesa nel 1980 (epoca del titolo per Notaio De Nisco allegato) e conservato il possesso stesso fino all’epoca del denunciato spoglio. Si trascrivono di seguito le dichiarazioni dei testi o informatori M.L., A.G., V.M., C.A., M.M.; si ricapitolano, quindi, le circostanze di fatto concernenti la realizzazione del muro di recinzione ad opera di R.G. e V.I.; si censura l’omesso esame di tali vicende ed emergenze istruttorie da parte della Corte d’Appello, dalle quali risulterebbe la relazione di fatto tra la ricorrente e le cose.

I.1. La Corte d’appello di Napoli ha argomentato circa le dichiarazioni di M.L. (pagina 9 di sentenza), la cui attendibilità ha escluso in quanto figlia della ricorrente (pagina 12); circa le dichiarazioni di A.G. (pagina 10), il quale aveva detto di essersi occupato della coltivazione del giardino sito nella particella n. 403 fino al 1984- 1985 (pagina 12); circa le dichiarazioni di V.M. (pagina 10), che aveva affermato che fino a quattro o cinque anni prima (ovvero fino al 1994) la M. avesse coltivato l’orto posto dietro il fabbricato abbattuto, ricordando poi genericamente che la medesima si recasse sul terreno in questione (pagina 13); circa le dichiarazioni di C.A. (pagina 11), che aveva parlato di un’utilizzazione del giardino e dell’area di sedime ove esisteva il fabbricato demolito, ponendosi tuttavia in contrasto con quanto riferito dalla M. (pagina 13); circa le dichiarazioni di Ma.Ma., tecnico di parte della stessa ricorrente, che non ricordava se nel periodo dal 1984 al 1990 l’area fosse recintata e che comunque aveva ricordi sui fatti di lite fermi a questi anni (pagina 13). La stessa Corte di Napoli ha quindi esposto quanto alla dichiarazioni dei testi S., D.C. e B., i quali avevano negato che dopo la demolizione del fabbricato sul posto vi fosse un orto, ed anzi affermato che vi fossero mattoni e materiale di risulta.

L’infondatezza del primo motivo di ricorso discende allora dalla considerazione del consolidato orientamento di questa Corte, la quale ha sempre chiarito come, in tema di azione di reintegrazione, l’accertamento dello spoglio, sia in ordine alla proponibilità dell’azione a tutela del possesso che ai presupposti di fatto ed alle condizioni richieste dalla legge, rientra nei poteri istituzionali del giudice di merito e si sottrae al sindacato di legittimità se sorretto da motivazione esente da vizi logici od errori giuridici, nella specie certamente non sussistenti (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 81 del 11/01/1989; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 2471 del 10/03/1987).

D’altro canto, l’esperibilità dell’azione di reintegrazione è soggetta al termine perentorio di un anno – decorrente dal sofferto spoglio o, se questo è clandestino, dalla scoperta dello spoglio -, e la tempestività costituisce un presupposto necessario dell’esercizio dell’azione che, se posto in discussione dal convenuto con l’eccezione di decadenza, deve essere provato dall’attore (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 6428 del 19/03/2014).

Per il tramite delle ipotizzate violazioni di legge (artt. 1140 ss. e 2697 c.c.), la ricorrente non deduce un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata dalle invocate norme, e quindi non sottopone a questa Corte un problema interpretativo delle stesse, quanto, piuttosto, allega un’erronea ricognizione delle fattispecie concrete a mezzo delle risultanze di causa, questioni, cioè, esterne all’esatta interpretazione delle disposizioni di legge e inerenti le tipiche valutazione del giudice di merito. D’altro canto, sotto il profilo del vizio di motivazione, la ricorrente si limita a rimettere in discussione, contrapponendone uno difforme, l’apprezzamento in fatto dei giudici del merito, tratto dall’analisi degli elementi di valutazione disponibili ed in sè coerente. L’apprezzamento dei fatti e delle prove, però, è sottratto al sindacato di legittimità, dal momento che, nell’ambito di detto sindacato, non è conferito il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice di merito, cui resta riservato di individuare le fonti del proprio convincimento e, all’uopo, di valutare le prove, controllarne attendibilità e concludenza e scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione.

Opera per di più, attesa la data di pubblicazione dell’impugnata sentenza, la riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, autorevolmente interpretata da Cass. Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione, sicchè è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione.

Il secondo motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 111 Cost. nonchè degli artt. 115 e 116 c.p.c., ed il vizio di motivazione. Sì contesta la prevalenza data dalla Corte d’appello alle dichiarazioni dei testi indicati da controparte e si evidenzia come ì resistenti non avessero mai negato di aver privato la stessa ricorrente dell’accesso ai beni per cui è causa.

Il motivo è palesemente infondato. Può solo ribadirsi che spetta in via esclusiva al giudice di merito il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, assegnando prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti. E’ poi evidente che R.G. e V.I. non avessero confutato la realizzazione del muro di recinzione, quanto la configurabilità di questa condotta materiale come spoglio, ovvero come privazione dell’altrui possesso attuata nella a consapevolezza di contrastare e di violare la posizione soggettiva della ricorrente M..

Il terzo motivo di ricorso deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 116 e 117 c.p.c. e il vizio di motivazione. Questo motivo reitera le doglianze circa la cattiva valutazione delle prove imputabile alla Corte d’Appello, quanto al possesso delle cose ad allo spoglio sofferto. Risulta infondata, pertanto, anche questa censura per i motivi esposti con riguardo ai primi due motivi.

Consegue il rigetto del ricorso.

Non deve procedersi alla regolazione delle spese del giudizio di cassazione, in quanto gli intimati non hanno svolto attività difensiva.

PQM

La Corte rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 16 giugno 2016.

Depositato in Cancelleria il 29 luglio 2016

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