Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 15929 del 24/07/2020

Cassazione civile sez. lav., 24/07/2020, (ud. 11/09/2019, dep. 24/07/2020), n.15929

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Antonio – Presidente –

Dott. BERRINO Umberto – rel. Consigliere –

Dott. D’ANTONIO Enrica – Consigliere –

Dott. GHINOY Paola – Consigliere –

Dott. MANCINO Rossana – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 12633/2016 proposto da:

G.I.O.M.I. GESTIONE ISTITUTI ORTOPEDICI NEL MEZZOGIORNO D’ITALIA

S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE DELLE MILIZIE 114, presso

lo studio dell’avvocato ANTONIO VALLEBONA, che la rappresenta e

difende;

– ricorrente –

contro

I.N.P.S. – ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE, C.F.

(OMISSIS), in persona del suo Presidente e legale rappresentante pro

tempore, in proprio e quale mandatario della S.C.C.I. S.P.A.

Società di Cartolarizzazione dei Crediti I.N.P.S. C.F. (OMISSIS),

elettivamente domiciliati in ROMA, VIA CESARE BECCARIA 29, presso

l’Avvocatura Centrale dell’Istituto, rappresentati e difesi dagli

avvocati LELIO MARITATO, CARLA D’ALOISIO, ANTONINO SGROI, GIUSEPPE

MATANO, ESTER ADA SCIPLINO, EMANUELE DE ROSE;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 2566/2016 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 10/05/2016 r.g.n. 5944/2009;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

11/09/2019 dal Consigliere Dott. UMBERTO BERRINO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

VISONA’ Stefano, che ha concluso per l’accoglimento dei motivi da

due a sei e rigetto dei restanti motivi;

udito l’avvocato ANTONIO VALLEBONA;

udito l’Avvocato LELIO MARITATO.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

La società G.I.O.M.I. s.p.a. chiese il 29.3.1990 al Pretore di Latina l’applicazione in suo favore del doppio inquadramento, cioè in quello del settore industriale, agli effetti degli sgravi, e nell’altro commerciale, ai fini previdenziali e contributivi, contestando la compensazione tra opposte pretese contributive operata dall’Inps e chiedendone la condanna al pagamento della somma di lire 7.746.298.903, corrispondenti agli sgravi che a suo giudizio ancora le spettavano, oltre interessi di mora e maggior danno ex art. 1224 c.c..

Il Tribunale (succeduto al Pretore), con sentenza non definitiva, condannò l’Inps al pagamento della somma di Lire 2.726.653.019, mentre con sentenza definitiva quantificò gli accessori in Euro 14.069.359.

La Corte d’appello di Roma (sentenza n. 3108/06), investita dall’impugnazione dell’Inps, accolse il gravame e respinse la domanda di primo grado della società. Proposto ricorso per cassazione dalla società G.I.O.M.I. s.p.a., la Corte Suprema respinse il primo motivo, osservando che il giudicato si era formato sul diritto agli sgravi sul presupposto della natura industriale dell’attività svolta dalla casa di cura e non già sul doppio inquadramento, mentre accolse il secondo motivo, rilevando che la Corte d’appello aveva erroneamente ritenuto essere legittima la retroattività al 1974 dell’atto di riclassificazione del datore di lavoro, per cui dichiarò assorbiti gli altri motivi e cassò l’impugnata sentenza in relazione al motivo accolto, con rinvio del giudizio alla stessa Corte in diversa composizione. Riassunto il giudizio ad opera della società e costituitosi il contraddittorio, la Corte d’appello di Roma (sentenza del 10.5.2016) ha rigettato la domanda della G.I.O.M.I. s.p.a..

La Corte territoriale ha spiegato che ai fini contributivi la nuova classificazione della G.I.O.M.I. s.p.a. tra le imprese industriali doveva retroagire al 27.1.1983, data della richiesta di reinquadramento a decorrere dalla quale l’Inps era legittimato a recuperare la maggiore contribuzione dovuta per le imprese industriali, oltre che la fiscalizzazione degli oneri sociali e gli altri sgravi indebitamente erogati, spettando gli stessi alle sole imprese del commercio. Inoltre, tali maggiori somme dovute dalla società dovevano essere compensate col credito dalla stessa vantato, in quanto doveva tenersi conto del pagamento parziale eseguito dall’Inps e dei conguagli operati di volta in volta dalla G.I.O.M.I. s.p.a..

Per la cassazione della sentenza ricorre la società G.I.O.M.I. s.p.a. con un solo motivo in via principale e con otto motivi in via subordinata, illustrati da memoria, cui resiste l’Inps con controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Col primo motivo formulato in via principale la ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 1242 e 2909 c.c., nonchè degli artt. 324,329,346 e 394 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, per avere la Corte di merito erroneamente affermato che non esisteva un giudicato interno.

In pratica la ricorrente evidenzia che nel giudizio d’appello l’Inps si era lamentato dell’omessa pronunzia sulla questione dell’inquadramento retroattivo preteso da essa società, nonchè della falsa applicazione dell’art. 1224 c.c., in merito al danno differenziale e agli interessi, ma non aveva mai censurato la statuizione relativa alla sorte capitale, così come non aveva impugnato, per quel che concerneva gli interessi ed il danno differenziale, la statuizione della sentenza definitiva di primo grado n. 2445/02 che aveva accertato l’inesistenza della pretesa compensazione, con la conseguenza che si era formato un giudicato interno in relazione al quantum della pretesa dell’ente di previdenza.

2. Il motivo è infondato in quanto la Corte territoriale, dopo aver illustrato il contenuto dei quesiti posti al consulente tecnico d’ufficio e dopo aver premesso che la società li aveva contestati sulla base del rilievo che l’INPS non aveva posto in discussione i criteri di calcolo seguiti dal Tribunale, ha chiaramente spiegato che in realtà l’istituto di previdenza, nel medesimo appello, aveva espressamente censurato la decisione di prime cure sotto il profilo del mancato accoglimento della sua eccezione di integrale compensazione, in tal modo devolvendo al giudice di secondo grado la questione dell’esatta quantificazione dei rispettivi crediti delle partì e riaprendo al riguardo la cognizione sull’intera statuizione. La stessa Corte ha poi ben spiegato che, non essendosi formato alcun giudicato interno sul quantum (a maggior ragione dopo l’intervenuta sentenza di cassazione con rinvio), nemmeno potevano ritenersi definitivamente stabiliti i criteri giuridico-contabili da impiegare per l’esatta determinazione dei crediti controversi, tanto più che il giudicato interno non poteva formarsi altro che su capi autonomi della sentenza, tali da integrare una decisione del tutto indipendente, senza poter cadere su questioni meramente strumentali alla verifica della consistenza del diritto.

3. Col secondo motivo (primo degli otto motivi formulati in via subordinata) la ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 1219 e 1224 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere la Corte d’appello capitolina erroneamente affermato che gli interessi legali sulla sorte a credito di G.I.O.M.I. per mancato sgravio (dal 1968 in poi) non potevano decorrere prima dell’introduzione del giudizio (29 marzo 1990) perchè mancava la costituzione in mora e i crediti erano illiquidi.

Sostiene la ricorrente che i suoi crediti per mancati sgravi erano, invece, liquidi ed esigibili in quanto l’Inps avrebbe potuto calcolare in qualsiasi momento gli sgravi contributivi non concessi, essendo in possesso delle denunzie contributive dal 1968 al 1990, con la conseguenza che non trovava applicazione la regola della costituzione in mora prevista dall’art. 1224 c.c..

4. Il motivo è infondato.

Invero, come ha correttamente posto in rilievo la Corte territoriale con argomentazione logico-giuridica immune da rilievi di legittimità e basata su fatti adeguatamente valutati, il credito della società era illiquido alla data di proposizione della domanda giudiziale del 29.3.1990 in quanto la sua quantificazione – presupponendo, tra l’altro, l’identificazione degli sgravi conseguenti al reinquadramento nel settore dell’industria (esito che a sua volta richiedeva l’acquisizione di documenti e la collaborazione del creditore), nonchè la determinazione del montante contributivo oggetto di recupero da parte dell’Inps (anche per effetto della caducata spettanza della fiscalizzazione e degli altri benefici legati esclusivamente al settore del commercio) – non era riconducibile a semplici operazioni di calcolo matematico.

5. Col terzo motivo la ricorrente denunzia la violazione e falsa applicazione degli artt. 1219 e 1224 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, per avere la Corte di merito erroneamente affermato che gli interessi legali e il danno differenziale – maturati in suo favore sulla sorte per i mancati sgravi non potevano decorrere prima dell’introduzione del giudizio (29 marzo 1990), perchè mancava la costituzione in mora che, invece, si era avuta attraverso le raccomandate del 9.10.1978 inviate all’Inps, con la conseguenza che da questa data doveva decorrere il calcolo degli interessi legali e del danno differenziale.

6. Attraverso il quarto motivo la ricorrente ripropone la questione oggetto della precedente censura sotto la diversa prospettazione dell’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, vale a dire la mancata considerazione del valore di messa in mora scaturente dall’invio delle suddette raccomandate all’Inps.

7. Il terzo ed il quarto motivo, che possono essere esaminati congiuntamente essendo tra loro connessi, denotano profili di inammissibilità e di infondatezza per le seguenti ragioni: – Anzitutto, la ricorrente non investe in modo specifico la parte della motivazione dell’impugnata sentenza in cui la Corte territoriale pone in rilievo il fatto che lo stesso CTU di primo grado – i cui seguiti criteri, secondo la G.I.O.M.I., avrebbero dovuto essere ritenuti vincolanti nella sede di gravame – aveva fatto coincidere la decorrenza degli accessori con la data di introduzione del processo (sia pure individuandola, erroneamente, nel 27.3.1985, anzichè nel 29.3.1990), ma si limita a richiamare le lettere raccomandate del 9.10.1978, senza riprodurne il contenuto, onde consentire la verifica della loro idoneità a fungere da atti di costituzione in mora, e senza specificare se una tale questione fu sottoposta ai giudici del merito, in qual modo e in quale fase del giudizio, non essendo sufficiente affermare, nella presente sede di legittimità, che le stesse lettere erano state depositate insieme al ricorso introduttivo del 29.3.1990, tanto più che la Corte di merito si è riferita proprio a quest’ultimo atto nell’individuare la decorrenza degli accessori. Oltretutto, a tal riguardo la Corte d’appello ha aggiunto che non si perveniva a diversa conclusione neanche a voler inquadrare l’azione in esame nella fattispecie della ripetizione dell’indebito oggettivo di cui all’art. 2033 c.c., posto che anche in tal caso gli accessori decorrevano dalla domanda giudiziale, dovendosi escludere la mala fede dell’Inps all’atto della ricezione della maggiore contribuzione in quanto nei corrispondenti periodi la società G.I.O.M.I. era iscritta al settore del commercio.

8. Inoltre, la prospettazione della suddetta questione come vizio di motivazione incontra il limite derivante dall’intervento nel sistema della modifica dell’art. 360 c.p.c., n. 5, che ha comportato un’ulteriore sensibile restrizione dell’ambito di controllo, in sede di legittimità, del controllo sulla motivazione di fatto. Infatti, con la sentenza n. 8053 del 7/4/2014 delle Sezioni Unite di questa Corte, si è precisato che l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, riformulato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie.

Si è, in tal modo, avuta la riduzione al minimo costituzionale del sindacato sulla motivazione in sede di giudizio di legittimità, per cui l’anomalia motivazionale denunciabile in questa sede è solo quella che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante e attiene all’esistenza della motivazione in sè, come risulta dal testo della sentenza e prescindendo dal confronto con le risultanze processuali, e si esaurisce, con esclusione di alcuna rilevanza del difetto di sufficienza, nella mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico, nella motivazione apparente, nel contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili, nella motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile. Ma è evidente che nella specie la valutazione della decorrenza degli interessi legali e del danno differenziale non è affetta da alcuna di queste ultime anomalie, avendo il giudice d’appello espresso in modo chiaro e comprensibile i motivi a sostegno del suo convincimento.

9. Col quinto motivo è dedotta la violazione e falsa applicazione dell’art. 1219 c.c., comma 2, n. 2 e art. 1224 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere la Corte di merito erroneamente affermato che gli interessi legali e il danno differenziale sulla sorte a credito di G.I.O.M.I. per mancati sgravi non potevano decorrere prima dell’introduzione del giudizio (29 marzo 1990) perchè mancava la costituzione in mora, mentre quest’ultima, secondo la ricorrente, non era necessaria in quanto l’Inps debitore aveva dichiarato per iscritto di non voler eseguire l’obbligazione.

Sostiene al riguardo la ricorrente che l’Inps aveva risposto alle raccomandate del 9.10.1978, volte al conseguimento degli sgravi, respingendole con nota del 23.1.1979, per cui gli interessi legali ed il danno differenziale avrebbero dovuto essere calcolati almeno da tale data.

10. Attraverso il sesto motivo la ricorrente denunzia l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, rappresentato dalla nota Inps del 23.1.1979 di cui alla precedente censura, assumendo che se la Corte di merito avesse considerato quest’ultimo atto sarebbe pervenuta ad un diverso convincimento sulla individuazione della data di decorrenza degli accessori di legge, vale a dire dal momento della manifestazione della volontà dell’ente di rigettare le richieste degli sgravi e non da quello dell’introduzione del giudizio del 29.3.1990.

11. Il quinto ed il sesto motivo sono all’evidenza connessi, in quanto attraverso gli stessi viene prospettata sotto diverse angolazioni la stessa questione, per cui possono essere esaminati congiuntamente.

Orbene, anche tali motivi denotano aspetti di infondatezza e di inammissibilità. Anzitutto, dalla lettura della sentenza impugnata non emerge che sia stata sottoposta all’esame della Corte territoriale la questione della verifica della diversa decorrenza riconducibile alla data in cui l’Inps respingeva con nota del 23.1.1979 le domande tese al conseguimento degli sgravi, nè tantomeno la ricorrente si premura di specificare, in omaggio al principio di autosufficienza che governa il giudizio di legittimità, in quali esatti termini ed in quale fase del giudizio di merito ebbe a sollevare siffatta questione. Al contrario, dalla sentenza emerge che la società dedusse che gli interessi ed il maggior danno avrebbero dovuto essere conteggiati non dal 29.3.1990, bensì dal lontano 1968, e che il danno differenziale avrebbe dovuto essere aggiunto all’interesse legale, anzichè esserne depurato, per cui nemmeno risulta che l’oggetto del dibattito avesse riguardato la citata nota dell’Inps. Inoltre, la stessa Corte d’appello ha precisato con argomentazione logico-giuridica immune da rilievi di legittimità – così come già evidenziato in occasione della disamina del secondo motivo del presente ricorso – che alla data di proposizione della domanda giudiziale (29.3.1990) il credito della G.I.O.M.I. s.p.a., era illiquido perchè la sua quantificazione non era riconducibile a semplici operazioni di calcolo matematico e che, pertanto, gli interessi legali ed il maggior danno spettavano, ex art. 1224 c.c., solo dalla messa in mora, nella specie coincidente con l’avvio dell’azione giudiziaria.

12. Infine, è inammissibile la prospettazione della doglianza nella denunziata forma del vizio di motivazione ex art. 360 c.p.c., n. 5, in quanto, come si è già chiarito in occasione dell’esame del quarto motivo del presente ricorso, nel sistema l’intervento di modifica di tale norma processuale comporta un’ulteriore sensibile restrizione dell’ambito di controllo, in sede di legittimità, del controllo sulla motivazione di fatto, posto che si è affermato (Cass. Sez. Un., 7 aprile 2014, n. 8053) essersi avuta, con la riforma dell’art. 360 c.p.c., n. 5, la riduzione al minimo costituzionale del sindacato sulla motivazione in sede di giudizio di legittimità, per cui l’anomalia motivazionale denunciabile in questa sede è solo quella che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante e attiene all’esistenza della motivazione in sè, come risulta dal testo della sentenza e prescindendo dal confronto con le risultanze processuali, e si esaurisce, con esclusione di alcuna rilevanza del difetto di sufficienza, nella mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico, nella motivazione apparente, nel contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili, nella motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile, situazioni, queste, non riscontrabili, per le ragioni sopra esposte, nella fattispecie.

13. Col settimo motivo la ricorrente denunzia la violazione e falsa applicazione degli artt. 24 e 111 Cost., nonchè degli artt. 115,394 c.p.c., art. 414 c.p.c., nn. 4 e 5, art. 416 c.p.c., commi 2 e 3, art. 437 c.p.c., comma 2, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per avere la Corte d’appello erroneamente affermato che un fatto non allegato dalle parti ma risultante dagli atti poteva fondare un’eccezione rilevabile d’ufficio e che questo principio poteva essere applicato anche retroattivamente perchè non era imprevedibile e non ledeva il diritto di difesa e della ragionevole durata del processo.

In pratica la ricorrente lamenta che la Corte territoriale avrebbe erroneamente affermato che l’inquadramento del 20 novembre 1987 ai fini contributivi doveva retroagire al 27 gennaio 1983, data in cui la società aveva chiesto il reinquadramento, anche se questo fatto non era stato mai allegato dalle parti ma risultava dagli atti. A tal riguardo la stessa difesa evidenzia che solo nel giudizio di rinvio l’Inps aveva chiesto per la prima volta, in maniera inammissibile, che le differenze contributive a suo favore, da compensare poi coi crediti della G.I.O.M.I. s.p.a., fossero calcolate a partire dal 1 gennaio 1983, per effetto della domanda amministrativa di inquadramento proposta il 24 gennaio 1983, e non dal 20 novembre 1987, data della successiva comunicazione dello stesso ente di previdenza. La medesima si lamenta, altresì, del fatto che le Sezioni Unite della Cassazione, la cui sentenza n. 10531/2013 è stata richiamata dalla Corte d’appello di Roma al fine di giustificare la rilevabilità d’ufficio delle eccezioni in senso lato, avrebbero compiuto un c.d. “overruling” processuale rispetto al precedente orientamento giurisprudenziale in base al quale i fatti fondanti l’eccezione in senso lato devono essere allegati tempestivamente dalle parti. Tra l’altro, secondo tale assunto difensivo, proprio i principi affermati dalle Sezioni Unite in materia di overruling processuale (sent. n. 15144/2011) consentono di ritenere che deve essere tutelato l’affidamento delle parti sul precedente orientamento in base al principio del giusto processo, per cui nella presente controversia, iniziata allorquando l’overruling del 2013 non si era ancora verificato, non potrebbero trovare nemmeno applicazione con efficacia retroattiva i principi scaturenti dall’improvviso cambiamento di indirizzo giurisprudenziale.

14. Il motivo è infondato.

Anzitutto, la Corte di merito ha correttamente posto in rilievo che la retroattività dell’inquadramento della G.I.O.M.I. s.p.a. tra le imprese industriali a decorrere dall’epoca della sua domanda amministrativa è stata espressamente sancita dalla sentenza rescindente che fa stato in sede di rinvio, non valendo in contrario la mancata allegazione da parte dell’Inps del fatto storico dell’avvenuta presentazione di siffatta domanda, risalente al 27.1.1983, emergendo tale dato in modo inequivocabile dagli atti (il predetto documento fu prodotto dalla stessa società col ricorso di primo grado).

15. Al riguardo la Corte di merito ha anche richiamato l’insegnamento delle Sezioni Unite (Ord. n. 10531/2013) in base al quale “Il rilievo d’ufficio delle eccezioni in senso lato non è subordinato alla specifica e tempestiva allegazione della parte ed è ammissibile anche in appello, dovendosi ritenere sufficiente che i fatti risultino documentati “ex actis”, in quanto il regime delle eccezioni si pone in funzione del valore primario del processo, costituito dalla giustizia della decisione, che resterebbe svisato ove anche le questioni rilevabili d’ufficio fossero subordinate ai limiti preclusivi di allegazione e prova previsti per le eccezioni in senso stretto”.

Inoltre, la stessa Corte ha ben spiegato che nemmeno vale opporre che, con quest’ultima pronuncia, le Sezioni Unite avrebbero operato un overruling processuale che sarebbe inapplicabile nella presente causa, stante l’introduzione di quest’ultima in epoca anteriore al suddetto cambiamento di indirizzo giurisprudenziale: infatti, secondo il condivisibile convincimento del giudice d’appello, non ricorrono nella fattispecie le condizioni per le quali il nuovo intervento di nomofilachia del 2013 debba ritenersi privo di efficacia retroattiva, sia perchè la richiamata pronuncia non costituisce un mutamento di giurisprudenza in senso proprio, avendo essa composto in realtà un contrasto tra indirizzi che già preesistevano, tanto da essere stata preceduta da pronunzie dello stesso segno (v. ad es. C. Sez. Un. 15661/05, C. Sez. 2 n. 21929/09 e C. Sez. VI – 2 n. 409/12), sia perchè l’indirizzo da ultimo affermatosi non viola il principio dell’affidamento in guisa tale da incidere sull’azionabilità della pretesa vantata dalla società, sia perchè non arreca lesione al diritto di difesa, nè al valore della ragionevole durata del processo, posto che nel caso in esame il giudicante ha fondato la propria decisione su materiale probatorio ritualmente acquisito al processo.

16. Infine, l’inapplicabilità nel nostro caso dell’ipotesi di overruling, invocata dalla ricorrente, discende anche dalla considerazione che tale fenomeno ha per oggetto una norma processuale, mentre nella fattispecie la questione risolta è di carattere sostanziale, avendo dovuto la Corte territoriale individuare la decorrenza dell’inquadramento della società tra le imprese industriali ai fini degli invocati sgravi, cosa che ha fatto nel momento in cui ha accertato – sulla base dei dati ritualmente acquisiti al processo – che tale decorrenza coincideva con la data della domanda amministrativa di reinquadramento, il tutto sulla scorta di quanto espressamente sancito nella sentenza rescindente facente stato nel giudizio di rinvio.

17. Con l’ottavo motivo è dedotta la violazione e falsa applicazione della L. n. 33 del 1980, art. 1, comma 5, di conversione del D.L. n. 663 del 1979, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere la Corte d’appello erroneamente affermato che lo speciale regime degli accessori previsto da tale norma si applicherebbe solo alle denunce contributive e non ai crediti del datore di lavoro per sgravi non riconosciutigli, mentre la norma in esame riguarda qualsiasi credito del datore di lavoro verso l’Inps.

19. Il motivo è infondato in quanto nella sentenza impugnata non è affermato che il regime degli accessori previsto dalla citata norma si applica solo alle denunzie contributive e non ai crediti del datore di lavoro per sgravi non riconosciuti, ma è, invece, ben spiegato che l’inapplicabilità della norma invocata dalla società deriva dalla considerazione che la stessa presuppone la liquidità dei crediti derivanti dai saldi attivi delle denunce contributive, ipotesi, questa, non ricorrente nella fattispecie per le ragioni già illustrate in precedenza.

19. Col nono motivo (ultimo dei motivi formulati in via subordinata) la ricorrente denunzia la violazione e falsa applicazione degli artt. 24 e 111 Cost. e dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per avere la Corte d’appello erroneamente affermato che la società non aveva contestato le risultanze contabili e la metodologia di calcolo del C.T.U., quando, invece, nelle note autorizzate erano stati allegati i diversi conteggi e le osservazioni del C.T.P..

20. Anche tale motivo è infondato, in quanto non sussiste il lamentato vizio di omessa pronunzia, posto che la Corte territoriale, dopo aver dato atto del deposito dell’elaborato peritale e delle memorie difensive e dopo aver riportato il testo dei quesiti posti al consulente d’ufficio e delle risposte dal medesimo fornite, ha chiarito che la difesa della società non aveva contestato tali risultanze contabili, nè a monte la metodologia di calcolo che le aveva prodotte (incluso il rilievo dei tassi bancari medi utilizzati per la determinazione del danno differenziale, che era stato individuato dal CTU d’intesa col CTP), avendo, invece, contestato in radice la bontà dei quesiti n. 3 e 4 (quelli sui conguagli nel periodo 1990-2002) ed assumendo che interessi e maggior danno avrebbero dovuto essere conteggiati non dal 29.3.1990, bensì dal lontano 1968, con l’ulteriore deduzione che il danno differenziale avrebbe dovuto aggiungersi all’interesse legale, anzichè esserne depurato (come da quesito, additato come errato). Tali contestazioni sono state, però, ritenute infondate dalla Corte territoriale che, come si è già illustrato in occasione della disamina del secondo motivo, ha espressamente rilevato, con giudizio di merito immune da rilievi di legittimità, che il credito della società era illiquido alla data di proposizione della domanda giudiziale del 29.3.1990, in quanto la sua quantificazione presupponendo, tra l’altro, l’identificazione degli sgravi conseguenti al reinquadramento nel settore dell’industria (esito che a sua volta richiedeva l’acquisizione di documenti e la collaborazione del creditore), nonchè la determinazione del montante contributivo oggetto di recupero da parte dell’Inps (anche per effetto della caducata spettanza della fiscalizzazione e degli altri benefici legati esclusivamente al settore del commercio) – non era riconducibile a semplici operazioni di calcolo matematico.

21. In definitiva, il ricorso va rigettato e le spese del presente giudizio, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza della ricorrente. Ricorrono, altresì, i presupposti per il pagamento, da parte della medesima ricorrente, del contributo unificato ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, se dovuto.

P.Q.M.

La Corte rigetta. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese nella misura di Euro 25.200,00, di cui Euro 25.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 11 settembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 24 luglio 2020

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