Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 15928 del 24/07/2020

Cassazione civile sez. lav., 24/07/2020, (ud. 10/09/2019, dep. 24/07/2020), n.15928

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BRONZINI Giuseppe – Presidente –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. DE GREGORIO Federico – rel. Consigliere –

Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere –

Dott. AMENDOLA Fabrizio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 1382/2017 proposto da:

POSTEL S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE MAZZINI 134, presso lo

studio dell’avvocato FIORILLO LUIGI, rappresentata e difesa

dall’avvocato FRANCESCA BONFRATE;

– ricorrente –

contro

C.I., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA SALLUSTIANA

26, presso lo studio dell’avvocato GIULIO RAFFAELE IPPOLITO, che la

rappresenta e difende unitamente all’avvocato PAOLO MOLTENI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 800/2016 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 12/07/2016 r.g.n. 51/2014.

 

Fatto

RILEVATO

che:

la Corte d’Appello di Milano con la sentenza n. 800 in data 9 giugno – 12 luglio 2016 riformava la pronuncia n. 2682/13, pubblicata il 15 luglio 2013 e impugnata dall’attrice C.I. come da ricorso depositato il 15 gennaio 2014, con la quale il Tribunale della stessa città aveva rigettato la domanda volta a far dichiarare l’illegittimità di dodici contratti di somministrazione, conclusi tra l’undici febbraio 2009 ed il 10 marzo 2012 con prestazioni rese a favore dell’utilizzatrice POSTEL S.p.a. al fine di ottenere l’accertamento di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato alle dipendenze della convenuta POSTEL, da condannarsi alla riammissione in servizio ed al pagamento dell’indennità di cui alla L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 5. La Corte territoriale, per contro, accertava l’illegittimità dei contratti di somministrazione a termine oggetto di causa, dichiarando inoltre costituito tra le parti un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato con decorrenza 11 febbraio 2009, per l’effetto ordinando inoltre alla società appellata la riammissione della lavoratrice nel posto di lavoro precedentemente occupato, con la condanna altresì della stessa al pagamento di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, pari a 1649,49 Euro, oltre accessori dalla data della pronuncia sino al saldo effettivo, oltre che al rimborso delle spese relative al doppio grado del giudizio, all’uopo liquidate. In particolare, la Corte distrettuale escludeva la decadenza, avendo l’attrice provveduto all’impugnativa stragiudiziale di tutti i rapporti oggetto di causa con missiva del 29 febbraio 2012, quindi entro il termine di cui alla L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 1 bis, introdotto con D.L. n. 225 del 2010, convertito con modificazioni nella L. n. 10 del 2011 (c.d. “milleproroghe”). Inoltre, la Corte distrettuale osservava che, sebbene le clausole apposte ai contratti de quibus non potessero ritenersi carenti sotto l’aspetto formale, contenendo esse la menzione degli appalti nel cui ambito la lavoratrice aveva operato nonchè l’indicazione dei relativi committenti, tuttavia la società utilizzatrice non aveva offerto adeguata dimostrazione in ordine alla loro effettiva sussistenza, a tal riguardo richiamando i principi affermati da Cass. 6.10.2014 n. 21001, n. 8021/2013 e n. 15610/2011, nonchè n. 2521/2012. Nello specifico, la verifica circa la reale sussistenza delle addotte giustificazioni non era risultata attuabile, poichè TELEPOST non aveva adeguatamente adempiuto all’onere probatorio che le incombeva in ordine alle esigenze sottese alla stipulazione dei contratti di somministrazione oggetto di causa, attesa in particolare la genericità delle deduzioni svolte al riguardo nella memoria difensiva di primo grado, in assenza di dati precisi circa l’organico stabile dell’azienda adibito alle lavorazioni in questione, all’incremento dei volumi di lavoro, nonchè al fabbisogno aggiuntivo di personale conseguentemente verificatosi, siccome all’uopo precisato a pag. 9 della sentenza qui impugnata. Peraltro, la Corte milanese giudicava altresì fondata la censura dell’appellante in ordine alla omessa pronuncia della gravata sentenza rispetto a quanto dedotto con il ricorso introduttivo del giudizio circa l’eccezione di mancato rispetto della clausola di contingentamento di cui all’art. 26 del c.c.n.l., per la quale inoltre non risultava fornita adeguata dimostrazione dalla convenuta – appellata;

per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso POSTEL S.p.a. con quattro motivi, cui ha resistito con controricorso la sig.ra C.I..

Diritto

CONSIDERATO

Che:

il primo motivo di ricorso, con il quale è censurata la sentenza per avere violato e/o falsamente applicato nella specie l’art. 342 c.p.c., anche in relazione all’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3 (laddove si lamenta l’obesità dell’atto d’appello, siccome eccessivamente prolisso nelle sue 86 pagine, e la conseguente motivazione che ne aveva respinto l’eccezione, giudicando invece ammissibile l’interposto gravame) è inammissibile non soltanto per difetto di autosufficienza ex art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 (attesa l’omessa esauriente riproduzione del ricorso d’appello, per il quale si assume la violazione dei cit. artt. 342 – rectius 434 – e art. 132, n. 4), ma anche perchè essendo stati in effetti denunciati errores in procedendo il vizio andava ritualmente ed univocamente dedotto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4, in termini di nullità (cfr. Cass. VI – 3 n. 22598 del 25/09/2018, II civ. n. 24247 del 29/11/2016, id. n. 10862 del 7/5/2018, nonchè sez. un. civ. n. 17931 del 24/07/2013);

con il secondo motivo la ricorrente ex art. 360 c.p.c., n. 3, ha lamentato la nullità della sentenza impugnata per omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, con riferimento alla parte in cui la Corte d’Appello aveva ritenuto fondato il motivo d’impugnazione avversario relativo alla clausola di contingentamento, assumendo in effetti il vizio di motivazione – sotto l’aspetto materiale e grafico – in cui era incorsa la stessa Corte distrettuale “, non avendo dedotto nulla in ordine alle questioni sottoposte dalla fisa della società,… così radicale da comportare, con riferimento a quanto previsto dall’art. 132 c.p.c., n. 4, la nullità della sentenza per “mancanza di motivazione””;

anche detta cesura appare inconferente e non autosufficiente, oltre che infondata, in quanto, escluso nel caso di specie il riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 3, per contro erroneamente indicato dalla ricorrente, non risulta per di più nemmeno ritualmente allegato alcun preciso e rilevante fatto storico, decisivo ai fini del giudizio, nei sensi di cui al novellato e vigente art. 360 c.p.c., n. 5 (nella specie ratione temporis applicabile in relazione alla sentenza de qua, risalente all’anno 2016, secondo i principi fissati da questa Corte soprattutto con le note pronunce a sezioni unite nn. 8053 e 8054 del 2014), avendo per altro verso la Corte di merito valutato, comunque, la questione relativa alla omessa, in prime cure, pronuncia sull’eccezione di violazione della clausola di contingentamento, già sollevata da parte da parte attrice, quindi riproposta in appello, unitamente poi alle difese al riguardo svolte sia in primo che in secondo grado dalla società resistente (cfr. pagine 9 e 10 dell’impugnata sentenza: “A fini esaustivi si rileva, in ogni caso, come anche il motivo di gravame concernente l’omessa pronuncia, da parte del Tribunale, in ordine alla violazione della clausola di contingentamento, sia fondato. Infatti, nessuna statuizione è stata compiuta nella gravata sentenza in ordine alla deduzione svolta al riguardo alla pag. 9, punto 73 del ricorso di primo grado…”);

in relazione poi al preteso vizio di motivazione di cui alla nullità, pure ipotizzata con la seconda doglianza, la censura va ugualmente disattesa, in quanto dalle carenti e generiche allegazioni allo scopo fornite (v. in part. pag. 5 del ricorso, in effetti con la sola citazione di parte della difesa svolta a pag. 11 della memoria di secondo grado, riconoscendovi peraltro l’omissione della pronuncia sul punto da parte del primo giudicante) non è assolutamente possibile verificare in concreto la denunciata incongruenza dell’argomentazione in proposito svolta dalla Corte di merito, la quale ad ogni modo, come espressamente pronunciatasi al riguardo, soltanto per completezza di argomentazione (a fini esaustivi…), esaminava anche il motivo di gravame inerente alla suddetta questione, ma dopo aver motivatamente riscontrato la carenza probatoria, non soddisfatta dalla convenuta impresa utilizzatrice che vi era tenuta, in ordine alle esigenze sottese alla stipulazione dei contratti di somministrazione de quibus, donde la ritenuta illegittimità degli stessi, “con assorbimento di ogni ulteriore questione in lite dedotta”, tra cui perciò evidentemente pure quella inerente alla dedotta violazione della clausola di contingentamento, la quale di conseguenza, ancorchè in ipotesi insussistente, non avrebbe di certo modificato il senso della decisione adottata con la pronuncia d’appello. Ne deriva, pertanto, anche la non pertinenza della doglianza sotto il profilo del vizio di motivazione (da valutarsi comunque in base ad esaurienti enunciazioni ex art. 366 c.p.c., ed in relazione al solo minimo costituzionale occorrente ex art. 111 Cost., art. 132 c.p.c., n. 4 e art. 118 disp. att. c.p.c., escluso comunque in questa sede ogni sindacato sul ragionamento decisorio seguito dal giudice di merito), visto che in effetti la ratio decidendi della sentenza d’appello è da individuarsi nell’anzidetta preliminare ed assorbente ragione (v. del resto Cass. lav. n. 20598 del 9/9/2013, secondo cui in tema di somministrazione di manodopera, la legittimità della causale indicata nel contratto di somministrazione non è sufficiente per rendere legittima l’apposizione di un termine al rapporto, dovendo anche sussistere, in concreto, una situazione riconducibile alla ragione indicata nel contratto stesso. In senso analogo Cass. lav. n. 17540 – 01/08/2014: ai sensi del D.Lgs. 9 ottobre 2003, n. 276, artt. 20 e segg., la mera astratta legittimità della causale indicata nel contratto di somministrazione non basta a rendere legittima l’apposizione di un termine al rapporto, dovendo anche sussistere, in concreto, una rispondenza tra la causale enunciata e la concreta assegnazione del lavoratore a mansioni ad essa confacenti, con la conseguenza che la sanzione di nullità del contratto, prevista espressamente dall’art. 21, u.c., per il caso di difetto di forma scritta, si estende anche all’indicazione omessa o generica della causale della somministrazione, con conseguente trasformazione del rapporto da contratto a tempo determinato alle dipendenze del somministratore a contratto di lavoro a tempo indeterminato alle dipendenze dell’utilizzatore. Parimenti, v. ancora Cass. lav. n. 197 – 08/01/2019);

deve essere, altresì, disattesa la terza censura, con la quale è denunciata, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 115,116,421,434 e 437 c.p.c., anche in relazione al D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 27 e all’art. 2697 c.c.. Vero è, infatti, che nel rito del lavoro, il giudice, ove si verta in situazione di “semiplena probatio”, ha il potere-dovere di provvedere d’ufficio agli atti istruttori idonei a superare l’incertezza dei fatti costitutivi dei diritti in contestazione, indipendentemente dal verificarsi di preclusioni o di decadenze in danno delle parti, dovendo, quindi, motivare sulla mancata attivazione dei poteri istruttori officiosi laddove sollecitato dalla parte ad integrare la lacuna istruttoria. Tuttavia, come già anticipato nella narrativa di cui sopra, nel caso in esame la Corte di merito non ha ammesso le prove, perchè le ha ritenute, con un giudizio di opportunità rimesso ad un apprezzamento meramente discrezionale a lei riservato, generiche e inidonee a superare le incertezze probatorie esistenti. Peraltro, parte ricorrente deve riprodurre esaurientemente ai sensi e per gli effetti di quanto previsto dall’art. 366 c.p.c., gli atti processuali dai quali emergeva l’esistenza di una “pista probatoria”, ossia l’esistenza di fatti o mezzi di prova idonei a sorreggere le sue ragioni con carattere di decisività (rispetto ai quali avrebbe potuto e dovuto esplicarsi l’officiosa attività di integrazione istruttoria demandata al giudice di merito), e deve altresì allegare di avere nel giudizio di merito espressamente e specificamente richiesto l’intervento officioso e nella specie non risulta averlo specificatamente richiesto, tale non potendosi considerare la richiesta, formulata ai sensi dell’art. 346 c.p.c., con la quale si è insistito nelle richieste istruttorie ed eccezioni articolate in primo grado. La parte ricorrente, nell’illustrazione della censura, non ha dunque specificato, con riferimento agli elementi ricostruttivi desumibili dagli atti, quali di questi erano idonei ad integrare, con carattere di decisività, la esistenza di una “pista probatoria” qualificata rispetto alla quale appariva doverosa un’integrazione istruttoria mediante l’esercizio dei poteri officiosi. Per non sovrapporre la volontà del giudicante a quella delle parti in conflitto di interessi tra loro e non valicare il limite obbligato della terzietà, è necessario invece che l’esplicazione dei poteri istruttori del giudice venga specificamente sollecitata dalla parte con riguardo alla richiesta di una integrazione probatoria qualificata (cfr. Cass. 29/09/2015 n. 19358, 10/12/2008 n. 29006, 18/06/2008n. 16507 e già Cass. 07/05/2002 n. 7119). D’altro canto, in effetti anche le asserite violazioni, non meglio enunciate ex art. 366 c.p.c., artt. 421,434 e 437 c.p.c., integrano errores in procedendo, però irritualmente dedotte ex art. 360 c.p.c., n. 3, anzichè n. 4, comunque non univocamente in termini di nullità. Ed in proposito nemmeno è stata specificamente denunciata una eventuale violazione del minimo costituzionale circa la motivazione al riguardo svolta, in relazione a quanto previsto dall’art. 111 Cost., art. 132 c.p.c., n. 4 e art. 118 disp. att. c.p.c.. Nè, parimenti, è stato ritualmente dedotto un eventuale omesso esame, da parte degli aditi giudici di merito, di fatti decisivi, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5;

è altresì inammissibile, per omissione di complete allegazioni e riproduzioni ex art. 366 c.p.c., comma 1, il quarto motivo di ricorso formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, circa l’asserita violazione e/o falsa applicazione della L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 6, sulla riduzione dell’indennizzo complessivo spettante, con riferimento all’accordo sindacale di stabilizzazione, siglato il 26 novembre 2010, menzionato alle pagine 13 e 14 della memoria difensiva di primo grado per la società resistente, sicchè l’indennizzo massimo possibile non poteva superare le sei mensilità;

invero, tale accordo non risulta nemmeno menzionato dall’impugnata sentenza d’appello, la quale inoltre non ha in alcun modo affrontato la problematica di cui allo stesso art. 32, comma 6, mentre in proposito la ricorrente non ha neanche denunciato una eventuale omessa pronuncia, nè un omesso esame del documento, essendosi in effetti limitata a dedurre un errore della Corte di merito nel condannare essa società al pagamento di 12 mensilità atteso che sin dal primo grado e precisamente alle pagg. 13 e 14 della memoria aveva richiamato l’anzidetto accordo sindacale relativo alla definizione di una graduatoria nazionale per la stabilizzazione dei rapporti di lavoro ed in particolare quelli di somministrazione cessati dal 27 novembre 2009 in avanti, graduatoria aperta ed alimentata in maniera dinamica fino al 31-12-2011, come da documentazione all’uopo prodotta (in primo grado). Di conseguenza, non risulta enunciato dalla ricorrente, ex art. 366 c.p.c., se anche in seguito all’interposto gravame avversario la società appellata abbia ritualmente allegato le anzidette difese ed eccezioni, specificamente reiterandole in ordine alla previsione di cui all’art. 32, comma 6, non bastando al riguardo il mero deposito della pregressa documentazione di parte, nè il generico riferimento alle deduzioni e conclusioni di prime cure (v., tra le altre, Cass. III civ. n. 15003 del 5/8/2004, secondo cui la parte integralmente vittoriosa in primo grado, qualora abbia in detto grado proposto, oltre alla domanda principale integralmente accolta, anche una domanda subordinata superata dall’accoglimento della domanda principale, è tenuta, in caso di appello della controparte, a riprodurre la relativa questione al giudice d’appello, e tale riproposizione può ritenersi rituale ai sensi dell’art. 346 c.p.c., solo se la relativa domanda è proposta con chiarezza e precisione sufficienti a renderla inequivocamente intellegibile per la controparte ed il giudicante. Cass. II civ. n. 10796 – 11/05/2009: pur se libera da forme, la riproposizione deve essere fatta in modo specifico, non essendo al riguardo sufficiente un generico richiamo alle difese svolte ed alle conclusioni prese davanti al primo giudice. Parimenti, secondo Cass. lav. n. 23925 del 25/11/2010. Cfr. inoltre Cass. III civ. n. 22342 del 24/10/2007, secondo cui il potere-dovere del giudice di esaminare i documenti ritualmente versati in atti sussiste solo se la parte che li ha prodotti o che, comunque, ne intende trarre vantaggio, abbia formulato una domanda o un’eccezione espressamente fondata sui documenti medesimi. Nello stesso senso v. anche Cass. II civ. n. 8304 del 16/08/1990, secondo cui il giudice ha il potere-dovere di esaminare i documenti prodotti dalla parte solo nel caso in cui la parte ne faccia specifica istanza esponendo nei propri scritti difensivi gli scopi della relativa esibizione con riguardo alle sue pretese, derivandone altrimenti per la controparte l’impossibilità di controdedurre e per lo stesso giudice impedita la valutazione delle risultanze probatorie e dei documenti ai fini della decisione. In senso analogo v. altresì Cass. III civ. n. 5149 del 6/4/2001 e Cass. I civ. n. 8599 del 29/05/2003, ancorchè con specifico riguardo al previgente testo, meno restrittivo, dell’art. 345 c.p.c.). Ne deriva, pertanto, l’inammissibilità della quarta doglianza per difetto di autosufficienza e di specificità in relazione a difese ed eccezioni che non risultano ritualmente dedotte in sede di appello, per cui, non essendo stata nemmeno debitamente sollevata sul punto alcuna formale censura ex artt. 112-360 n. 4 o ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, si appalesa inoltre ultronea ed inconferente l’asserita violazione cit. art. 32, comma 6 (peraltro verosimilmente infondata anche nel merito, avuto riguardo alla giurisprudenza di legittimità – cfr. in part. Cass. lav. n. 3027 in data 11/02/2014 – secondo cui in materia di contratto a tempo determinato, la possibilità della riduzione alla metà del limite massimo dell’indennità prevista dalla L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, comma 5, in dipendenza della applicabilità al lavoratore di accordi di stabilizzazione, ai sensi della L. n. 183 cit., art. 32, comma 6, deve essere verificata con riferimento alla data della cessazione del rapporto ed è subordinata all’effettiva e concreta possibilità per il lavoratore di aderire, in tale momento, ad un accordo di stabilizzazione e non, invece, alla semplice stipula, in assoluto, da parte del datore di lavoro, di accordi di stabilizzazione. V. similmente anche Cass. VI civ. – L n. 8999 del 9 marzo – cinque maggio 2016: “E’ altresì infondata la censura riferita alla L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 6. Appare infatti evidente che la presenza di contratti o accordi collettivi “che prevedano l’assunzione anche a tempo indeterminato di lavoratori già occupati con contratto a termine nell’ambito di specifiche graduatorie” deve essere effettiva in relazione alla fattispecie concreta e non già ipotetica o astratta…”);

l’esito negativo dell’impugnazione de qua comporta, infine, la condanna al rimborso delle relative spese processuali a carico della parte rimasta soccombente, sussistendo, quindi, anche i presupposti processuali di legge in ordine al versamento dell’ulteriore contributo unificato.

P.Q.M.

La Corte RIGETTA il ricorso.

Condanna la società ricorrente al pagamento delle spese, che liquida, a favore del controricorrente, in 4000,00 Euro per compensi professionali ed in 200,00 Euro per esborsi, oltre spese generali al

15%, i.v.a. e c.p.a. come per legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 10 settembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 24 luglio 2020

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