Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 15926 del 24/07/2020

Cassazione civile sez. lav., 24/07/2020, (ud. 10/09/2019, dep. 24/07/2020), n.15926

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BRONZINI Giuseppe – Presidente –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. DE GREGORIO Federico – rel. Consigliere –

Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere –

Dott. AMENDOLA Fabrizio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 16878/2016 proposto da:

POSTEL S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE MAZZINI 134, presso lo

studio dell’avvocato FIORILLO LUIGI, rappresentata e difesa

dall’avvocato FRANCESCA BONFRATE;

– ricorrente –

contro

B.V., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA TARO, 25,

presso lo studio dell’avvocato ERNESTO IANNUCCI, che la rappresenta

e difende unitamente all’avvocato LEILI MAZI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 4158/2015 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 07/07/2015 r.g.n. 4158/2015.

LA CORTE, esaminati gli atti e sentito il Consigliere relatore.

 

Fatto

RILEVATO

Che:

la Corte d’Appello di Roma con sentenza n. 4158 del 12 maggio/sette luglio 2015, in parziale riforma della gravata pronuncia – che aveva dichiarato l’esistenza tra l’attrice B.V. e la convenuta POSTEL S.p.a. di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, a decorrere dal 16 dicembre 2002, data del primo contratto di lavoro temporaneo, con la condanna della società al risarcimento del danno, a far luogo dalla messa in mora risalente al 27 gennaio 2009 – in luogo di tale risarcimento liquidava il solo indennizzo di cui alla L. n. 183 del 2010, art. 32, in ragione di dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, oltre accessori di legge dalla stessa sentenza, ordinando altresì il ripristino della funzionalità del rapporto, spese di lite per entrambi i gradi di giudizio compensate;

secondo la Corte capitolina, escluso il dedotto vizio di ultrapetizione ex art. 112 c.p.c., in quanto dal ricorso introduttivo del giudizio l’impugnazione di parte attrice risultava estesa ai contratti di fornitura intervenuti tra POSTEL e ALI S.p.a., correttamente era stato applicato il principio di diritto secondo il quale in caso di violazione della L. n. 196 del 1997, art. 1, commi da 2 a 5, pur non operando l’art. 10, comma 2, della stessa, risultava comunque applicabile la L. n. 1369 del 1960, non abrogata, sicchè ben poteva essere accertata la costituzione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato tra POSTEL e la B. dalla data di stipula del primo contratto di lavoro temporaneo, in seguito al quale risultava poi irrilevante il successivo accordo del 26 novembre 2003, peraltro posteriore a tutti i rapporti di lavoro de quibus intercorsi tra il 16 dicembre 2002 ed il 28 giugno 2003, mentre il precedente accordo del 10 aprile 2002 era stato prodotto dall’appellante soltanto nella prima pagina del suo testo, dove per di più si richiamava “quanto previsto dall’accordo siglato in data 30.5.2000”, accordo questo tuttavia non prodotto da nessuna delle parti. Pertanto, la società appellante, secondo la Corte capitolina, non aveva adempiuto al proprio onere di allegazione e prova circa le causali giustificative del ricorso al lavoro temporaneo, non avendo depositato la fonte contrattuale collettiva invocata. Per il resto, il gravame veniva accolto per quanto di ragione in base allo jus superveniens di cui alla L. n. 183 del 2010, art. 32;

avverso la sentenza d’appello ha proposto ricorso per cassazione POSTEL S.p.a., come da atto in data 30 giugno – primo luglio 2016 (in cui risulta riprodotta anche la copia del suddetto verbale di accordo sindacale 10 aprile 2002), affidato a quattro motivi, cui ha resistito la sig.ra B.V. mediante controricorso notificato a mezzo posta elettronica certificata in data 8 agosto 2016 (in seguito depositato ed iscritto in data 24 agosto 2016). Da ultimo, in data primo luglio 2019, la società ricorrente ha depositato “1^ e 2^ grado dei fascicoli dei precedenti gradi” (v. in effetti la produzione sub n. 4 dell’indice in calce al ricorso per cassazione, pag. 14, “fascicoli dei pregressi gradi del giudizio”).

Diritto

CONSIDERATO

che:

con il primo motivo la società ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione della L. n. 196 del 1997, art. 1, comma 5 e art. 3, comma 3, lett. a, risultando in particolare errata la motivazione offerta dalla Corte d’Appello, in quanto a norma dell’art. 1, comma 5, il contratto di fornitura di lavoro temporaneo intervenuto tra le due società doveva avere forma scritta e contenere una serie di informazioni, non essendo richiesta anche l’indicazione dei motivi di ricorso alle assunzioni di lavoratori temporanei, da esplicitarsi invece nel contratto per prestazioni di lavoro temporaneo, nella specie stipulato dalla B. con la società ALI;

con il secondo motivo ex art. 360 c.p.c., n. 5, è stato denunciato l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, con particolare riguardo all’accordo sindacale del 10 aprile 2002, richiamato dalla Corte d’Appello e depositato in primo grado, laddove le parti avevano convenuto di prorogare l’utilizzo del lavoro interinale fino al primo luglio 2003 e di estenderlo anche al Centro Servizi per la videocodifica di Palermo, confermando altresì, relativamente alle modalità di utilizzo del lavoro interinale in POSTEL quanto previsto dall’accordo del 30 maggio 2000. Secondo la ricorrente, quindi, la Corte distrettuale aveva omesso di esaminare uno specifico fatto storico oggetto dell’anzidetto accordo 30 maggio 2000, e cioè l’utilizzo di personale temporaneo presso il centro di video-codifica palermitano sino al primo luglio 2003, come avvenuto nel caso della sig.ra B., assegnata alla suddetta unità produttiva tra il 16 dicembre 2002 ed il 28 giugno 2003, omettendo così di esaminare la parte centrale dell’accordo e ritenendo quindi non adempiuto da parte della società l’onere di allegazione e prova, nei sensi per giunta già indicati alle pagine 2 e 3 della memoria difensiva di primo grado, nonchè ribaditi alle pagine 2 e 3 dell’atto d’appello, laddove inoltre era stato richiamato pure lo specifico verbale di accordo del 21 marzo 2007 con il quale le parti avevano convenuto di ritenere superata la fase di sperimentazione in cui, per far fronte all’eccezionale carico di lavoro che aveva caratterizzato il periodo dicembre 2003/giugno 2006, si era reso necessario il ricorso per tutto il periodo al lavoro somministrato. Dunque, la Corte territoriale era incorsa in un vizio motivazionale così radicale da comportare, in relazione alle previsioni di cui all’art. 132 c.p.c., n. 4, la nullità della sentenza per mancanza di motivazione;

con il terzo motivo, poi, è stata denunciata la violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., nonchè art. 2697 c.c., per la parte in cui l’impugnata sentenza aveva ritenuto non adempito l’onere di allegazione e prova da parte di essa POSTEL, in quanto, se da un lato vi era stato omesso esame del contenuto centrale dell’accordo 10-04-2002, dall’altro si era ritenuto che la mancata produzione in giudizio dell’accordo in data 30-05-2000 avesse inciso sull’onere probatorio incombente sulla convenuta, mentre in realtà i giudici aditi, cui era devoluto il compito di accertare la sussistenza delle ragioni poste a sostegno delle assunzioni di lavoro temporaneo, avevano omesso – sottovalutando l’importanza di approfondire i fatti dedotti ed interpretando erroneamente il principio generale di ammissibilità delle prove – di ricercare e quindi eventualmente di acquisire una prova ulteriore, pure di ufficio a norma degli artt. 421 e 437 c.p.c., del cui esercizio o mancato esercizio il giudice deve dar conto con adeguata motivazione, all’uopo richiamando precedenti giurisprudenziali. Pertanto, secondo la ricorrente, era evidente che l’erronea valutazione della documentazione allegata alla memoria aveva determinato la decisione impugnata;

con il quarto motivo, poi, formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la ricorrente ha denunciato violazione e falsa applicazione degli artt. 253,420 e 421 c.p.c., perchè, trattandosi dell’eventuale integrazione del quadro probatorio tempestivamente delineato, anche attraverso l’uso dell’ampio potere istruttorio esercitabile dal giudice del lavoro, la Corte territoriale non si era minimamente peritata nè di esaminare, nè conseguentemente di motivare in ordine ai capitoli di prova articolati da essa società;

tanto premesso, le anzidette doglianze vanno disattese in forza delle seguenti ragioni; invero, quanto al primo motivo, la censura non è articolata in modo autosufficiente, poichè non riporta esaurienti indicazioni, idonee ai sensi dell’art. 366 c.p.c., n. 6, dell’atto introduttivo del giudizio e del successivo ricorso d’appello. La doglianza, inoltre, appare inconferente, siccome non pertinente alla ratio decidendi della pronuncia impugnata, che ha fatto riferimento alla lamentata mancanza delle esigenze e non tanto alla loro mancata indicazione, poichè l’attrice con il ricorso introduttivo del giudizio si era doluta della inesistenza delle esigenze sottese al contratto, con conseguente violazione della L. n. 196 del 1997, art. 1, comma 2, laddove con il primo motivo d’appello POSTEL aveva dedotto la violazione dell’art. 112 c.p.c., per aver il primo giudicante pronunciato su di una causa petendi diversa da quella enunciata a sostegno della iniziale domanda. Inoltre, la Corte d’Appello evidenziava come l’attrice avesse lamentato che le ipotesi tassative di possibile ricorso a lavoro temporaneo non fossero giammai state richiamate dalle società resistenti nei contratti tra loro intercorsi, sicchè il vizio denunciato si estendeva evidentemente ai contratti di fornitura, tali essendo soltanto quelli conclusi tra le società, cui si riferiva l’atto d’appello. Non risulta, pertanto, debitamente e compiutamente confutata la complessa e articolata argomentazione (derivante dal collegamento tra le sentenze di primo e secondo grado), in base alla quale, conformemente, in effetti gli aditi giudici di merito hanno ritenuto che l’assoluta genericità della causale del primo contratto di fornitura comportava l’onere probatorio a carico dell’impresa utilizzatrice dei motivi tali da poter consentire il ricorso al lavoro temporaneo, onere quindi rimasto insoddisfatto (Cass. lav. n. 5232 del 9/4/2001, secondo cui, in particolare, dalla L. n. 196 del 1997, art. 10, comma 1, si desume che la legge stessa – e, in particolare gli artt. 1 – 11 di essa in materia di lavoro interinale – non hanno abolito il divieto di interposizione fittizia di manodopera previsto dalla L. n. 1369 del 1960. L’espressa previsione – “continua a trovare applicazione la L. 23 ottobre 1960, n. 1369” – altro non significa, infatti, se non che il suddetto divieto continua a trovare applicazione nei confronti dell’impresa utilizzatrice che ricorra alla fornitura di prestatori di lavoro dipendente da parte di soggetti diversi da quelli cui della stessa L. n. 196 del 1997, art. 2, ovvero che violi le disposizioni di cui al precedente art. 1, commi 2, 3, 4 e 5, che stabiliscono i casi in cui è consentita o vietata la fornitura di lavoro temporaneo e dettano la disciplina rispettivamente applicabile al contratto di fornitura di lavoro temporaneo – intercorrente tra impresa fornitrice e impresa utilizzatrice – e al contratto per prestazioni di lavoro temporaneo, intercorrente fra l’impresa fornitrice e il lavoratore. Conforme Cass. lav. n. 17982 del 16/12/2002.

Cfr. inoltre Cass. lav. n. 13960 del 24/06/2011, secondo cui in materia di rapporto di lavoro interinale, la mancanza o la generica previsione, nel contratto intercorrente tra l’impresa fornitrice ed il singolo lavoratore, dei casi in cui è possibile ricorrere a prestazioni di lavoro temporaneo, in base ai contratti collettivi dell’impresa utilizzatrice, spezza l’unitarietà della fattispecie complessa voluta dal legislatore per favorire la flessibilità dell’offerta di lavoro nella salvaguardia dei diritti fondamentali del lavoratore e far venir meno quella presunzione di legittimità del contratto interinale, che il legislatore fa discendere dall’indicazione nel contratto di fornitura delle ipotesi in cui il contratto interinale può essere concluso. Pertanto, trova applicazione il disposto di cui della L. 24 giugno 1997, n. 196, art. 10 e dunque quanto previsto dalla L. 23 ottobre 1960, n. 1369, art. 1, per cui il contratto di lavoro col fornitore “interposto” si considera a tutti gli effetti instaurato con l’utilizzatore “interponente”.

Parimenti, secondo Cass. lav. n. 232 del 12/01/2012, in materia di rapporto di lavoro interinale, la mancanza o la generica previsione, nel contratto intercorrente tra l’impresa fornitrice e il singolo lavoratore, dei casi in cui – e dunque delle esigenze per le quali – è possibile ricorrere a prestazioni di lavoro temporaneo, in base ai contratti collettivi dell’impresa utilizzatrice, ovvero l’insussistenza in concreto delle suddette ipotesi, spezza l’unitarietà della fattispecie complessa voluta dal legislatore per favorire la flessibilità dell’offerta di lavoro nella salvaguardia dei diritti del lavoratore, e fa venir meno la presunzione di legittimità del contratto interinale stesso. Ne consegue che, per escludere che il contratto di lavoro con il fornitore interposto si consideri instaurato con l’utilizzatore interponente a tempo indeterminato, non è sufficiente arrestarsi alla verifica del dato formale del rispetto della contrattazione collettiva quanto al numero delle proroghe consentite, senza verificare l’effettiva persistenza delle esigenze di carattere temporaneo, in modo tanto più penetrante quanto più durevole e ripetuto sia il ricorso a tale fattispecie contrattuale.

V. inoltre Cass. lav. n. 21837 del 5/12/2012: la violazione delle disposizioni della L. n. 196 del 1997, ed in particolare dell’art. 1, comma 2, lett. a), comporta la sostituzione della parte datoriale e, salvo che non ricorrono specifiche ragioni che consentano l’apposizione di un termine, l’instaurazione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato con l’utilizzatore interponente, senza che assuma rilievo che al rapporto con l’interposto fosse a termine, atteso che la medesima sanzione è prevista per la meno grave violazione dell’obbligo di stipulare il contratto con forma scritta e che, sul piano sistematico, una diversa conclusione, porterebbe alla inammissibile situazione per cui la violazione del divieto di interposizione di manodopera consentirebbe all’interponente di beneficiare di una prestazione a termine altrimenti preclusa.

Cass. lav. n. 7702 del 28/03/2018: in materia di rapporto di lavoro interinale, tanto ai sensi della L. n. 196 del 1997, quanto del D.Lgs. n. 276 del 2003, anche in assenza di un espresso divieto di reiterazione dei contratti di fornitura di prestazioni di lavoro temporaneo conclusi con lo stesso lavoratore avviato presso la medesima impresa, è sempre possibile una valutazione della relativa vicenda nei termini di cui all’art. 1344 c.c., quando essa costituisca il mezzo per eludere la regola della temporaneità dell’occasione di lavoro che connota tale disciplina; tale finalità fraudolenta può essere desunta anche dalla reiterazione di assunzioni per un prolungato periodo di tempo, indipendentemente dal rispetto, per ciascuno dei singoli contratti, delle indicazioni relative alla sussistenza di esigenze tecniche, produttive e organizzative. In senso conforme Cass. n. 23684 del 2010.

Cfr. ancora Cass. lav. n. 1148 del 17/01/2013, secondo cui la L. n. 196 del 1997, art. 1, comma 2, consente il contratto di fornitura di lavoro temporaneo solo per le esigenze di carattere temporaneo rientranti nelle categorie specificate dalla norma, esigenze che il contratto di fornitura non può quindi omettere di indicare, nè può indicare in maniera generica e non esplicativa, limitandosi a riprodurre il contenuto della previsione normativa; ne consegue che, ove la clausola sia indicata in termini generici, inidonei ad essere ricondotti ad una delle causali previste dal legislatore, il contratto è illegittimo, e, in applicazione del disposto di cui alla L. n. 196 del 1997, art. 10, il rapporto si considera a tutti gli effetti instaurato con l’utilizzatore interponente. Conformi Cass. VI civ. – L n. 10486 del 27/04/2017 e IV civ. lav. n. 6869 – 8/3/2019);

il secondo motivo di ricorso, poi, non integra il vizio di cui al vigente art. 360 c.p.c., n. 5, nella specie ratione temporis applicabile, poichè da un lato difetta il requisito della decisività in punto di diritto, alla luce dei principi operanti in materia secondo la succitata giurisprudenza di questa S.C., mentre, d’altro canto, il fatto storico, ossia in particolare l’accordo sindacale 10-04-2002, risulta comunque oggettivamente esaminato dalla Corte capitolina, laddove ciò che si contesta da parte ricorrente è l’errata o manchevole lettura di tale documento da parte dei giudici di merito, che non ne avrebbero compreso la più ampia e completa portata, nel senso che le parti collettive avevano convenuto di prorogare l’utilizzo del lavoro interinale fino al primo luglio 2003 e di estenderlo anche al Centro Servizi di Videocodifica di (OMISSIS), cui era stata assegnata in servizio la lavoratrice. Di conseguenza, o si tratta di una errata interpretazione dell’accordo, con conseguente possibile vizio ex art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione agli artt. 1362 c.c. e segg. (però così non denunciato nella specie), ovvero è ipotizzabile soltanto un errore revocatorio dovuto ad una viziata percezione di quanto ivi scritto, perciò rilevante esclusivamente ai sensi dell’art. 395 c.p.c., n. 4, non sussumibile quindi nell’ambito del vizio denunciato ex art. 360, n. 5. Inoltre, da ultimo a pag. 9 del ricorso di POSTEL, sempre nell’ambito del secondo motivo, si accenna a nullità della sentenza per mancanza della motivazione, vizio radicale per violazione dell’art. 132 c.p.c., n. 4, ma non pare dalla complessiva argomentazione svolta con sentenza de qua che la stessa risulti addirittura inferiore al minimo costituzionale occorrente a norma dell’art. 111 Cost., art. 132, n. 4 cit. e art. 118 disp. att. c.p.c., laddove dalla lettura della pronuncia impugnata risulta chiara e coerente la ratio decidendi esplicata, da valutarsi come tale e non già in relazione alla sua fondatezza o meno nel merito alla stregua delle risultanze istruttorie in atti, la cui valutazione di contenuto non è ammessa, come è noto, in questa sede di legittimità;

il terzo motivo è inammissibile, perchè in effetti si contesta l’apprezzamento delle emergenze processuali (“E’ evidente che l’erronea valutazione della documentazione allegata alla memoria ha determinato la decisione impugnata”, così testualmente a pag. 11 del ricorso) da parte dei giudici di merito, donde l’estraneità della doglianza alla critica vincolata consentita dalle tassative ipotesi contemplate dall’art. 360 c.p.c.. Nè risulta chiarito in quali termini sarebbe stata violata la disciplina di cui all’art. 2697 c.c., in tema di onere probatorio, di cui invero non emerge alcuna inversione in danno della convenuta. Assolutamente non pertinente si appalesa il richiamo ai suddetti artt. 115, 116 e 2697, che non hanno alcuna attinenza con il diritto alla prova e con i poteri istruttori di ufficio riservati al giudice di merito (v. del resto Cass. lav. n. 11847 del 21/05/2009, secondo cui i poteri istruttori officiosi previsti dall’art. 421 c.p.c., non possono sopperire alle carenze probatorie delle parti, così da porre il giudice in funzione sostitutiva degli oneri delle parti medesime e da tradurre i poteri officiosi anzidetti in poteri d’indagine e di acquisizione del tipo di quelli propri del procedimento penale. In senso analogo Cass. lav. n. 17102 del 22/07/2009.

Conforme Cass. III civ. n. 15899 del 20/07/2011. V. inoltre Cass. lav. n. 22534 del 23/10/2014, secondo cui il mancato esercizio da parte del giudice dei poteri ufficiosi ex art. 421 c.p.c., preordinato al superamento di una meccanica applicazione della regola di giudizio fondata sull’onere della prova, non è censurabile con ricorso per cassazione ove la parte non abbia investito lo stesso giudice di una specifica richiesta in tal senso, indicando anche i relativi mezzi istruttori.

Cfr. poi Cass. VI civ. – 3 n. 26769 del 23/10/2018: in tema di ricorso per cassazione, la violazione dell’art. 2697 c.c., si configura soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella su cui esso avrebbe dovuto gravare secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni mentre, per dedurre la violazione dell’art. 115 c.p.c., occorre denunziare che il giudice, contraddicendo espressamente o implicitamente la regola posta da tale disposizione, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli, non anche che il medesimo, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività consentita dall’art. 116 c.p.c..

Parimenti, secondo Cass. II civ. n. 11176 – 8/5/2017, secondo cui, nel quadro del principio, espresso nell’art. 116 c.p.c., di libera valutazione delle prove – salvo che non abbiano natura di prova legale, il giudice civile ben può apprezzare discrezionalmente gli elementi probatori acquisiti e ritenerli sufficienti per la decisione, attribuendo ad essi valore preminente e così escludendo implicitamente altri mezzi istruttori richiesti dalle parti. Il relativo apprezzamento è insindacabile in sede di legittimità, purchè risulti logico e coerente il valore preminente attribuito, sia pure per implicito, agli elementi utilizzati. Cass. III civ. n. 23940 del 12/10/2017: il principio del libero convincimento, posto a fondamento degli artt. 115 e 116 c.p.c., opera interamente sul piano dell’apprezzamento di merito, insindacabile in sede di legittimità, sicchè la denuncia della violazione delle predette regole da parte del giudice del merito non configura un vizio di violazione o falsa applicazione di norme processuali, sussumibile nella fattispecie di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, bensì un errore di fatto, che deve essere censurato attraverso il corretto paradigma normativo del difetto di motivazione, e dunque nei limiti consentiti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come riformulato dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, conv., con modif., dalla L. n. 134 del 2012. In senso conforme Cass. II civ. n. 24434 del 30/11/2016, con l’ulteriore precisazione che il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), deve emergere direttamente dalla lettura della sentenza, non già dal riesame degli atti di causa, inammissibile in sede di legittimità.

V. analogamente altresì Cass. VI civ. – 1 del 17/01/2019, secondo cui in tema di ricorso per cassazione, una censura relativa alla violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., non può porsi per una erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito, ma solo se si alleghi che quest’ultimo abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte d’ufficio al di fuori dei limiti legali, o abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione. Conforme Cass. VI-L n. 27000 del 27/12/2016.

Dovendosi ad ogni modo precisare – v. Cass. Sez. 6-3, n. 22598 del 25/09/2018 – che in seguito alla riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, conv., con modif., dalla L. n. 134 del 2012, non è più deducibile quale vizio di legittimità il semplice difetto di sufficienza della motivazione, ma i provvedimenti giudiziari non si sottraggono all’obbligo di motivazione previsto in via generale dall’art. 111 Cost., comma 6 e, nel processo civile, dall’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4. Tale obbligo è violato qualora la motivazione sia totalmente mancante o meramente apparente, ovvero essa risulti del tutto inidonea ad assolvere alla funzione specifica di esplicitare le ragioni della decisione – per essere afflitta da un contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili oppure perchè perplessa ed obiettivamente incomprensibile – e, in tal caso, si concreta una nullità processuale deducibile in sede di legittimità ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4. Parimenti, Cass. n. 23940 del 2017, nonchè per la violazione del c.d. minimo costituzionale Cass. sez. un. civ. nn. 8053 e 8054 del 2014);

anche il quarto e ultimo motivo di ricorso risulta inammissibile, soprattutto perchè si denunciano in effetti violazioni di carattere processuale (errores in procedendo) ex art. 360 c.p.c., n. 3 e non già univocamente in termini di nullità ai sensi dell’art. 360 n. 4 stesso codice (cfr. sul punto Cass. Sez. 2 n. 10862 del 7/5/2018: il ricorso per cassazione, avendo ad oggetto censure espressamente e tassativamente previste dall’art. 360 c.p.c., comma 1, deve essere articolato in specifici motivi riconducibili in maniera immediata ed inequivocabile ad una delle cinque ragioni di impugnazione stabilite dalla citata disposizione, pur senza la necessaria adozione di formule sacramentali o l’esatta indicazione numerica di una delle predette ipotesi. Pertanto, nel caso in cui il ricorrente lamenti l’omessa pronuncia, da parte dell’impugnata sentenza, in ordine ad una delle domande o eccezioni proposte, non è indispensabile che faccia esplicita menzione della ravvisabilità della fattispecie di cui dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, con riguardo all’art. 112 c.p.c., purchè il motivo rechi univoco riferimento alla nullità della decisione derivante dalla relativa omissione, dovendosi, invece, dichiarare inammissibile il gravame allorchè sostenga che la motivazione sia mancante o insufficiente o si limiti ad argomentare sulla violazione di legge. In senso analogo v. anche Cass. sez. un. civ. n. 17931 del 24/07/2013 e II civ. n. 24247 del 29/11/2016);

l’esito negativo dell’impugnazione de qua comporta, infine, la condanna al rimborso delle relative spese processuali a carico della parte rimasta soccombente, sussistendo, quindi, anche i presupposti processuali di legge in ordine al versamento dell’ulteriore contributo unificato.

P.Q.M.

La Corte RIGETTA il ricorso.

Condanna la società ricorrente al pagamento delle spese, che liquida, a favore della controricorrente, in 4000,00 Euro per compensi professionali ed in 200,00 Euro per esborsi, oltre spese generali al 15%, i.v.a. e c.p.a. come per legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 10 settembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 24 luglio 2020

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