Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 15922 del 24/07/2020

Cassazione civile sez. lav., 24/07/2020, (ud. 05/06/2019, dep. 24/07/2020), n.15922

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Presidente –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. DE GREGORIO Federico – rel. Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – Consigliere –

Dott. PONTERIO Carla – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 10214/2015 proposto da:

B.G., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA IPPOLITO

NIEVO 61, presso lo studio degli avvocati MARIA GRAZIA PICCIANO e

ROBERTO GIAMMARIA, che la rappresentano e difendono;

– ricorrente –

contro

EQUITALIA SUD S.P.A., C.F. (OMISSIS), in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA,

PIAZZA DEL POPOLO 18, presso lo studio dell’avvocato NUNZIO RIZZO,

che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 48/2014 della CORTE D’APPELLO di CAMPOBASSO,

depositata il 11/04/2014 R.G.N. 11/2011.

LA CORTE, visti gli atti e sentito il consigliere relatore.

 

Fatto

RILEVA

che:

la sig.ra B.G. con ricorso del 28 dicembre 2007, notificato il 9 gennaio 2008 e diretto al giudice del lavoro di Isernia, conveniva in giudizio la società Equitalia Sud, nella quale si era fusa per incorporazione Equitalia Polis S.p.A., già Equitalia Serit S.p.a. – S.R.T. S.p.a., chiedendo di accertare la natura subordinata a tempo indeterminato del rapporto di lavoro intercorso fin dal 1 giugno 1988 alle dipendenze delle suddette EQUITALIA SERIT già SRT, con mansioni di addetta alle pulizie; di invalidare il licenziamento intimatole con la missiva del 27 settembre 2007, ordinando per l’effetto alla società EQUITALIA SERIT di reintegrare essa istante nel suo posto di lavoro con applicazione del relativo contratto collettivo nazionale dal 1 gennaio 2008, condannando inoltre la convenuta al risarcimento del danno commisurato ad un’indennità rapportata alla retribuzione globale di fatto dal giorno del recesso sino a quello dell’effettiva reintegrazione, nonchè al versamento dei contributi assistenziali previdenziali ed ancora al versamento delle vantate retribuzioni relative alle mensilità di settembre, ottobre, novembre e dicembre dell’anno 2007, non ancora corrisposte, con vittoria altresì delle spese di lite. Notificato l’atto del giudizio, erano stati pagati i corrispettivi dovuti per gli ultimi quattro mesi dell’anno 2007. Si è, inoltre, costituita in giudizio la società Equitalia Serit, resistendo alle pretese avversarie, per cui veniva contestata la pretesa natura subordinata dell’anzidetto rapporto di lavoro, avuto riguardo in particolare contratto di appalto per la pulizia dei locali della società formalizzato per iscritto il 1 luglio 2003;

con sentenza in data 29 gennaio – 3 febbraio 2010 il giudice adito rigettava la domanda, per cui la diretta interessata interponeva gravame, sostenendo la omessa, errata e falsa valutazione delle circostanze di fatto, nonchè omessa, errata e falsa applicazione dei principi di diritto in tema di criteri distintivi tra lavoro autonomo subordinato ed ancora omessa, errata e contraddittorietà della motivazione posta a fondamento della pronuncia impugnata. L’appello veniva respinto come da sentenza n. 48 in data 7 febbraio/11 aprile 2014 dalla Corte di Campobasso, secondo la quale nel caso di specie rilevava il contratto di appalto per lavori di pulizia stipulato il primo luglio 2003 e, per cui inoltre l’appellante, come già osservato dal primo giudicante, non aveva nemmeno genericamente indicato in quale forma si sarebbe manifestato il potere direttivo datoriale, essendosi la stessa limitata a riferire il contenuto delle mansioni e l’ammontare della retribuzione. Gli elementi di prova raccolti non valevano a superare la valutazione che il lavoro e la remunerazione della signora B. fossero stati in realtà conseguenza ed esecuzione dell’anzidetto contratto di appalto. Mancava, in particolare, la prova dell’esercizio di un potere disciplinare a cura della pretesa parte datoriale, oltre che degli elementi distintivi sussidiari, evidenziati dalla giurisprudenza come caratterizzanti la subordinazione, giusta quanto in proposito osservato con la gravata sentenza. Restavano assorbiti gli ulteriori motivi d’appello;

contro la decisione di secondo grado ha proposto ricorso per cassazione la signora B.G. come da atto in data 11 aprile 2015, affidato e un solo articolato motivo, cui ha resistito EQUITALIA SUD S.p.a. con l’avvocato Nunzio Rizzo, mediante apposito controricorso, cui ha poi fatto seguito memoria, depositata, in vista dell’adunanza fissata per il 5 giugno 2019, dall’AGENZIA delle ENTRATE – RISCOSSIONE, ente pubblico economico con sede legale in (OMISSIS) – subentrata come per legge dal 1 luglio 2017 nei rapporti giuridici, attivi e passivi, anche processuali, della società Equitalia Servizi di Riscossione S.p.A., la quale aveva a sua volta incorporato Equitalia Sud dal 1 luglio 2016 – difesa con procura in calce alla stessa memoria dal medesimo suddetto avvocato Nunzio Rizzo.

Diritto

CONSIDERATO

che:

la ricorrente ha lamentato violazione e falsa applicazione degli artt. 1655 e 2094 c.c., nonchè dei principi stabiliti da questa Corte in tema di criteri distintivi tra lavoro autonomo e subordinato, unitamente ad omesso esame di in fatto decisivo per il giudizio, che aveva formato oggetto di discussione tra le parti. In proposito sono state anche richiamate le mansioni svolte da essa ricorrente come da contratto di appalto lavori di pulizia in data primo luglio 2003, sottoscritto dal legale rappresentante p.t. della S.R.T. S.p.a., che aveva predisposto l’atto, ma non già dalla medesima sig.ra B., “e, dunque, mai perfezionatosi”. Sebbene non fosse stata ammessa la richiesta prova testimoniale, concernente il dedotto rapporto di lavoro part-time, dalla documentazione versata in atti emergeva la decorrenza del rapporto in questione con decorrenza primo giugno 1988, protrattosi ininterrottamente quindi fino al primo gennaio 2008. Dunque, secondo la ricorrente, la Corte d’Appello non aveva esaminato le anzidette circostanze, tra cui in particolare l’eccezione sollevata all’udienza del 9 maggio 2008, reiterata in sede d’appello, circa il fatto di non aver mai sottoscritto il succitato contratto d’appalto, firmato soltanto dal legale rappresentante della SRT. Verosimilmente la Corte d’Appello era stata ingannata dall’apposizione della firma del suddetto rappresentante sotto la dicitura “l’appaltatore”, anzichè sotto quella del “committente”. Di conseguenza, se avesse esaminato tale circostanza, la Corte territoriale non avrebbe potuto rigettare il gravame affermando che nella specie risultava stipulato in data 1/7/2003 un contratto di appalto di lavori di pulizia. Quindi, non risultando l’anzidetta conclusione contrattuale, la Corte distrettuale avrebbe dovuto esaminare i veri fatti concernenti il dedotto rapporto di lavoro protrattosi dal giugno 1988 fino al dicembre 2008, applicando, ai fini della sua qualificazione, i principi di diritto affermati dalla giurisprudenza di legittimità in tema di criteri distintivi tra lavoro autonomo e subordinato, considerando che nella specie erano state rese prestazioni estremamente elementari, ripetitive e predeterminate nelle modalità di esecuzione, senza perciò applicare la disciplina prevista per l’appalto, contratto peraltro mai stipulato dalle parti. In proposito, quindi, la ricorrente ha richiamato vari precedenti di questa Corte (citando in part. Cass. lav. n. 1536 del 21/01/2009 – Nel caso in cui la prestazione dedotta in contratto sia estremamente elementare, ripetitiva e predeterminata nelle sue modalità di esecuzione e, allo scopo della qualificazione del rapporto di lavoro come autonomo o subordinato, il criterio rappresentato dall’assoggettamento del prestatore all’esercizio del potere direttivo, organizzativo e disciplinare non risulti, in quel particolare contesto, significativo, occorre, a detti fini, far ricorso a criteri distintivi sussidiari, quali la continuità e la durata del rapporto, le modalità di erogazione del compenso, la regolamentazione dell’orario di lavoro, la presenza di una pur minima organizzazione imprenditoriale (anche con riferimento al soggetto tenuto alla fornitura degli strumenti occorrenti) e la sussistenza di un effettivo potere di autorganizzazione in capo al prestatore, desunto anche dalla eventuale concomitanza di altri rapporti di lavoro – nonchè in senso conforme Cass. lav. n. 8569 del 5/5/2004, che quindi nel caso di specie ivi esaminato aveva annullato la decisione dei giudici di merito, i quali avevano escluso la esistenza di un rapporto di lavoro subordinato in relazione all’addetta alla pulizia dello stabile sede di un consorzio, in considerazione del contenuto del contratto di appalto stipulato tra la lavoratrice ed il consorzio, nel quale si stabiliva che la prima avrebbe quotidianamente svolto le pulizie nell’immobile, ed avrebbe percepito un compenso annuo, frazionabile anche in scadenze più brevi, ma di fatto erogato mensilmente; che era vietato il subappalto del servizio, che infine, gli strumenti di lavoro sarebbero stati forniti a carico del consorzio – ed in considerazione altresì degli elementi probatori acquisiti, dai quali era emerso che la lavoratrice non era tenuta ad osservare un preciso orario di lavoro – anche se la stessa aveva di fatto prestato servizio per quattro ore giornaliere, dovendo peraltro le pulizie essere svolte nell’orario di chiusura degli uffici – e che nessuno le aveva impartito direttive – in presenza, peraltro, di una dettagliata predeterminazione delle modalità di espletamento del servizio – nè era risultato che la stessa fosse stata assoggettata al potere gerarchico del consorzio);

tanto premesso, il ricorso appare inammissibile per le seguenti ragioni;

invero, non risulta per intero riprodotta ex art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, la scrittura privata del primo luglio 2003, relativa al contratto d’appalto per il quale, tuttavia, la ricorrente se da un lato lamenta il suo mancato perfezionamento, d’altro canto assume che le mansioni da ella espletate risultavano in pratica conformi a quelle oggetto dello stesso contratto, sicchè, indipendentemente dalla mancanza di sottoscrizione dell’atto anche da parte della appaltatrice, deve presumersi che il rapporto di lavoro sia stato comunque voluto e disciplinato in base al contenuto dello stesso documento. Sta di fatto che manca anche l’autosufficiente trascrizione degli atti processuali da cui poter desumere che l’anzidetta scrittura privata sia stata, debitamente e univocamente, disconosciuta dalla B. nel corso del giudizio di merito in ordine al corrispondente documento, prodotto evidentemente da parte resistente;

ad ogni modo, l’atto, e con esso quindi pure il relativo accordo, risulta complessivamente essere stato considerato dalla Corte di merito, di guisa che non può venire in rilievo sul punto l’omesso esame del fatto di cui al vizio contemplato dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, perciò limitatamente ad una quaestio facti, nella sua attuale vigente formulazione, qui ratione temporis applicabile in relazione alla sentenza de qua, risalente al febbraio/aprile 2014, laddove la sola mancanza di firma di una delle parti attiene ad un aspetto giuridico-formale (quaestio juris), inerente quindi pressochè esclusivamente alla supposta mera invalidità o inefficacia del rapporto contrattuale in questione, mentre la stipulazione del contratto d’appalto (tra privati) non richiede la forma scritta “ad substantiam”, nè “ad probationem”, potendo lo stesso essere concluso anche “per facta concludentia” (v. a tal riguardo Cass. I civ. n. 16530 del 5/8/2016, conforme id. n. 22616 del 26/10/2009, secondo la quale, di conseguenza, rileva la prova testimoniale, dedotta con riferimento all’effettiva esecuzione delle prestazioni per il cui corrispettivo la parte, in quanto creditrice, chieda l’ammissione al passivo della procedura di fallimento. In senso analogo v. altresì Cass. II civ. n. 4911 del 16/7/1983, secondo cui il contratto d’appalto non è soggetto a rigore di forme, nè ad substantiam, nè ad probationem. V. ancora, parimenti, Cass. II civ. n. 3841 del 4/8/1978, secondo cui nei contratti non soggetti all’obbligo della forma scritta – nella specie ivi esaminata contratto di appalto – un documento privo di sottoscrizione, quale una minuta, può essere utilizzato dal giudice del merito come fonte di elementi presuntivi, da valutarsi in relazione ad ogni altra circostanza, al fine di dedurne l’esistenza di un accordo verbale corrispondente al contenuto del documento stesso. Ed anche secondo Cass. II civ. n. 1125 del 21/02/1979, il contratto di appalto, che non richiede per la stipulazione la forma scritta nè ad substantiam, nè ad probationem, può essere concluso con la sottoscrizione del solo elenco dei lavori da eseguirsi, con i relativi prezzi, non essendo necessario che sia sottoscritto anche il successivo documento che fissa il prezzo globale forfettario). D’altro canto, indipendentemente dal nomen juris utilizzato nel caso di specie, va per completezza ricordato – cfr. Cass. II civ. n. 12519 del 21/05/2010 – che il contratto d’appalto ed il contratto d’opera si differenziano per il fatto che nel primo l’esecuzione dell’opera commissionata avviene mediante una organizzazione di media o grande impresa cui l’obbligato è preposto, mentre nel secondo con il prevalente lavoro di quest’ultimo, pur se coadiuvato da componenti della sua famiglia o da qualche collaboratore, secondo il modulo organizzativo della piccola impresa – conforme Cass. n. 7307 del 29/05/2001. Ne deriva che non appaiono decisive le questioni concernenti la possibilità, o meno, di ravvisare un contratto di appalto in capo alla B., non essendo ella una imprenditrice, nulla vietando, invece, che le sue prestazioni, durante tutto l’arco di tempo in esame, siano state rese, più precisamente e correttamente, nell’ambito del contratto tipizzato dagli artt. 2222 c.c. e segg., ossia da persona che si obbliga a compiere verso un corrispettivo un’opera o un servizio, con lavoro prevalentemente proprio e senza vincolo di subordinazione nei confronti del committente – contratto che in base alla disciplina dettata dallo stesso codice nemmeno richieste particolari rigori di forma, ad substantiam o ad probationem (fatta eccezione, ovviamente, per i contratti d’opera – al pari degli appalti – che coinvolgano una pubblica amministrazione, ipotesi nella specie qui in discussione insussistente, risultando il rapporto de quo pacificamente intervenuto nei riguardi di una società di diritto privato.

Cfr. tra l’altro Cass. III civ. n. 5234 del 15/03/2004, secondo cui tutti i contratti stipulati dalla pubblica amministrazione – anche quando essa agisca jure privatorum – richiedono la forma scritta ad substantiam, sicchè che il contratto con la p.a., privo di detta rigorosa forma è nullo ed insuscettibile di qualsiasi forma di sanatoria, dovendosi, quindi, escludere l’attribuzione di rilevanza ad eventuali convalide o ratifiche successive, nonchè a manifestazioni di volontà implicita o desumibile da comportamenti puramente attuativi. In senso conforme, tra le altre, Cass. I civ. n. 7422 del 21/05/2002. V. altresì Cass. lav. n. 8471 del 21/06/2000, secondo cui il difetto della forma scritta, necessaria “ad substantiam” per tutti i contratti della pubblica amministrazione, determina la nullità del contratto di lavoro autonomo stipulato da un ente pubblico, senza che, pur in presenza degli elementi della parasubordinazione a norma dell’art. 409 c.p.c., n. 3, possa trovare applicazione la regola della salvezza del diritto alla retribuzione dettata dall’art. 2126 c.c., con riferimento al lavoro subordinato);

peraltro, analizzando complessivamente la pur sintetica motivazione della sentenza d’appello qui impugnata, a ben vedere la Corte di merito ha ritenuto, ad ogni modo, la carenza degli elementi probatori raccolti, per la cui soddisfazione risultava evidentemente onerata l’attrice – appellante ex art. 2697 c.c., dai quali poter desumere la dimostrazione di estremi della subordinazione ex art. 2094 c.c., ragion per cui detti elementi non valevano a superare in qualche modo la presunzione (relativa o comunque semplice) che il lavoro prestato e la remunerazione corrisposta fossero in realtà riconducibili al succitato contratto del primo luglio 2003, “documentato in atti”, mancando in particolare la prova non solo di una potestà disciplinare in capo all’asserita datrice di lavoro, ma anche degli elementi distintivi di cui alla citata giurisprudenza a dimostrazione della pretesa subordinazione (Cass. lav. n. 26986 del 22/12/2009: in tema di distinzione tra rapporto di lavoro subordinato ed autonomo, l’organizzazione del lavoro attraverso disposizioni o direttive – ove le stesse non siano assolutamente pregnanti ed assidue, traducendosi in un’attività di direzione costante e cogente atta a privare il lavoratore di qualsiasi autonomia – costituisce una modalità di coordinamento e di eterodirezione propria di qualsiasi organizzazione aziendale e si configura quale semplice potere di sovraordinazione e di coordinamento, di per sè compatibile con altri tipi di rapporto, e non già quale potere direttivo e disciplinare, dovendosi ritenere che quest’ultimo debba manifestarsi con ordini specifici, reiterati ed intrinsecamente inerenti alla prestazione lavorativa e non in mere direttive di carattere generale, mentre, a sua volta, la potestà organizzativa deve concretizzarsi in un effettivo inserimento del lavoratore nell’organizzazione aziendale e non in un mero coordinamento della sua attività. Cass. lav. n. 1717 del 23/01/2009: per la qualificazione del contratto di lavoro come autonomo o subordinato – ai fini della quale il “nomen iuris” attribuito dalle parti al rapporto può rilevare solo in concorso con altri validi elementi differenziali o in caso di non concludenza degli altri elementi di valutazione – occorre accertare se ricorra o no il requisito tipico della subordinazione, intesa come prestazione dell’attività lavorativa alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore e perciò con l’inserimento nell’organizzazione di questo, mentre gli altri caratteri dell’attività lavorativa, come la continuità, la rispondenza dei suoi contenuti ai fini propri dell’impresa e le modalità di erogazione della retribuzione non assumono rilievo determinante, essendo compatibili sia con il rapporto di lavoro subordinato, sia con quelli di lavoro autonomo parasubordinato. Conforme, tra l’altro, Cass. n. 224 del 2001);

l’anzidetto complessivo accertamento in punto di fatto, operato dalla Corte di merito, circa la carenza di idonei elementi da cui poter desumere l’asserita subordinazione (che richiede tra l’altro l’inserimento del lavoratore nell’ambito dell’organizzazione aziendale del lavoratore, non bastando perciò il mero coordinamento dell’attività di costui, inserimento per la verità difficilmente ipotizzabile trattandosi nella specie dello svolgimento di attività manuale inerente ad elementari servizi di pulizia, perciò del tutto estranei ai servizi di riscossione tributi, gestiti in regime di concessione dalla società convenuta, alla quale poi da ultimo è subentrato addirittura un soggetto di diritto pubblico), sfugge pertanto alle censure – consentite in sede di legittimità nei limiti e secondo la c.d. critica vincolata ammessi ai sensi dell’art. 360 c.p.c. – di parte ricorrente, per molti versi sorrette da mere apodittiche affermazioni, non supportate da puntuali riferimenti di ordine probatorio (sia per quanto concerne le difese di parte convenuta, cui si addebitano supine e/o implicite ammissioni, sia circa la non meglio illustrata documentazione a sostegno, sia in ordine alla prova testimoniale di cui nulla di preciso è stato allegato, nè specificamente richiesto in relazione ad eventuali ingiustificate mancate ammissioni);

per altro verso, quanto al supposto errore, in cui sarebbe incorsa la Corte distrettuale nell’individuazione della sottoscrizione della sig.ra B. in calce al contratto del primo luglio 2003, firmata però dal legale rappresentate della società committente sotto la dicitura “appaltatore”, si tratterebbe comunque di vizio non denunciabile ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, quanto piuttosto di un travisamento configurante errore revocatorio, perciò non soggetto ad ordinario ricorso per cassazione, per contro nella specie proposto dalla interessata rimasta soccombente (cfr. Cass. III civ. n. 4893 del 14/03/2016: l’apprezzamento del giudice del merito, che abbia ritenuto pacifica e non contestata una circostanza di causa, qualora sia fondato sulla mera assunzione acritica di un fatto, può configurare un travisamento, denunciabile soltanto con istanza di revocazione, ai sensi dell’art. 395 c.p.c., n. 4, mentre è sindacabile in sede di legittimità, sotto il profilo del vizio di motivazione, ove si ricolleghi ad una valutazione ed interpretazione degli atti del processo e del comportamento processuale delle parti. Conformi, tra le altre, Cass. H civ. n. 19921 del 14/11/2012 e n. 1427 del 25/01/2005 V. parimenti Cass. lav. n. 1145 del 14/02/1983: l’apprezzamento del giudice del merito che abbia ritenuto non contestata una circostanza di causa, quando sia fondato sulla mera assunzione acritica del dato della mancata contestazione, non è sindacabile in sede di legittimità attraverso la deduzione di vizi di motivazione ex art. 360 c.p.c., n. 5, giacchè in tal caso l’eventuale travisamento del fatto può essere denunciato soltanto con istanza di revocazione, ai sensi dell’art. 395 c.p.c., n. 4); nemmeno rileva, ovviamente, la missiva del 27 settembre 2007 inviata dalla EQUITALIA SERIT, con la quale detta società non intimava alcun licenziamento, ma comunicava mera formale disdetta dell’accordo a suo tempo intervenuto con la SRT per il servizio di pulizia, a far data dal primo gennaio 2008 (peraltro con contestuale richiesta di rimborso della somma di Euro 3700,00 a seguito della riduzione della superficie oggetto della pulizia, fin dal primo ottobre 2006, per effetto della divisione dei locali, passati dagli originari 1362 mq. a 820 mq., laddove l’importo corrisposto risultava calcolato sulla base della maggior metratura, donde un indebito arricchimento commisurato alla differenza tra Euro 9240,00 annuali ed Euro 5500,00 al netto di i.v.a.);

pertanto, va dichiarata l’inammissibilità del ricorso, con conseguente condanna della parte rimasta soccombente al rimborso delle relative spese, sussistendo, quindi, anche i presupposti di legge per il versamento, dalla stessa parte, dell’ulteriore contributo unificato.

P.Q.M.

la Corte dichiara INAMMISSIBILE il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese, che liquida, in favore di parte controricorrente, nella misura di complessivi Euro 3000,00 per compensi professionali ed in Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali al 15%, nonchè i.v.a. e c.p.a. come per legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 5 giugno 2019.

Depositato in Cancelleria il 24 luglio 2020

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