Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 15910 del 24/07/2020

Cassazione civile sez. II, 24/07/2020, (ud. 27/02/2020, dep. 24/07/2020), n.15910

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – rel. Presidente –

Dott. BELLINI Ubaldo – Consigliere –

Dott. PICARONI Elisa – Consigliere –

Dott. SCARPA Antonio – Consigliere –

Dott. VARRONE Luca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 21358/2019 proposto da:

A.T., rappresentato e difeso dall’avvocato MARCELLO CANTONI;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI

PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo

rappresenta e difende ope legis;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1950/2019 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA,

depositata il 19/06/2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

27/02/2020 dal Presidente Dott. FELICE MANNA.

 

Fatto

RITENUTO IN FATTO

A.T., cittadino (OMISSIS), proponeva ricorso innanzi al Tribunale di Bologna avverso la decisione della locale Commissione territoriale, che aveva respinto la sua richiesta di protezione internazionale o umanitaria.

La proposta impugnazione era respinta dalla Corte d’appello di Bologna, con sentenza n. 1950/19. Riteneva la Corte territoriale che il racconto del richiedente, il quale aveva narrato di essersi allontanato dal suo Paese per sottrarsi a un gruppo di terroristi, che nella regione del Kashmir lo avevano tenuto prigioniero per essersi rifiutato di trasportare armi per loro conto, era del tutto inverosimile, anche a tacere delle numerose contraddizioni. Escludeva, inoltre, che nel Kashmir vi fosse una situazione di conflitto armato o di violenza indiscriminata; e, quanto alla protezione umanitaria, che il richiedente versasse in una situazione di vulnerabilità o che avesse conseguito un adeguato grado di integrazione in Italia.

Per la cassazione di tale provvedimento il richiedente propone ricorso, affidato a tre motivi.

Il Ministero dell’Interno resiste con controricorso.

Il ricorso è stato avviato alla trattazione camerale ex art. 380-bis.1 c.p.c..

Il Procuratore generale ha depositato le proprie conclusioni scritte, chiedendo l’accoglimento del ricorso.

Il ricorrente ha depositato memoria.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. – Il primo motivo denuncia, in relazione dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5 e D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, per non aver il Tribunale ritenuto credibile il narrato del richiedente, dato corso alla cooperazione istruttoria che ne avrebbe confermato il fondamento e disposto, se del caso, una nuova audizione di lui, così come chiesto nell’atto d’appello. Parte ricorrente lamenta, altresì, che la Corte territoriale non abbia considerato fonti qualificate che nella regione del Kashmir, contesa tra India e Pakistan, riferiscono di attentati terroristici da parte di gruppi nazionalisti, sì da generare una situazione di violenza indiscriminata; e lamenta, altresì, che la sentenza impugnata non abbia tenuto conto della sistematica violazione dei diritti nel Kashmir.

1.1. – Il motivo è infondato in ciascuna delle censure in cui si articola.

1.1.1. – La prima, inerente al giudizio di non credibilità del racconto, suppone la possibilità di un controllo di adeguatezza motivazionale ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, nel testo previgente alle modifiche apportate dal D.L. n. 83 del 2012, convertito in L. n. 134 del 2012. Controllo non più attivabile in sede di legittimità, al di fuori della ben diversa ipotesi della nullità della sentenza per difetto, contraddittorietà assoluta o mera apparenza della motivazione, riducendosi così al minimo costituzionale il sindacato di legittimità sulla motivazione (cfr. S.U. n. 8053/14).

Nella specie la sentenza impugnata non incorre in nessuna delle prefate ipotesi, avendo la Corte territoriale ben esplicitato le ragioni poste a base del proprio giudizio. Si legge, infatti, in detto provvedimento, che pur essendo vera l’esistenza del gruppo terroristico armato cui accenna il ricorrente, ciò che non convince (a parte la scarsa precisione dei riferimenti geografici, del tempo della prigionia e delle modalità della sua fuga dalla cattività) è proprio la scelta dei terroristi di affidare un consistente trasporto di armi, attraverso la linea di confine tra India e Pakistan, ad un pastore del luogo, estraneo ai propositi e agli ideali dei terroristi. La Corte distrettuale ha, poi, ritenuto sia la genericità del narrato, lì dove il richiedente ha mostrato di non avere alcuna conoscenza dei propositi e delle azioni del gruppo terrorista, sia la non plausibilità del racconto nella parte in cui l’odierno ricorrente ha riferito di essere rientrato a casa dei genitori, dopo la fuga, e di aver deciso di abbandonare il suo Paese per timore di persecuzione da parte dei terroristi, senza neppure rivolgersi alla polizia.

Trattandosi di incoerenze (non di dettaglio, ma) che investono il senso complessivo del racconto, deve, dunque, escludersi la dedotta violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, sugli indicatori di genuinità soggettiva del richiedente.

1.1.2. – Di riflesso – e si passa ad esaminare la seconda censura – non sussiste alcuna violazione dell’obbligo di esercitare i poteri di cooperazione istruttoria di cui il giudice di merito dispone in materia.

Come la giurisprudenza di questa Corte ha già chiarito, il giudice, in tanto è tenuto ad esercitarli, in quanto ritenga credibile il narrato e, quindi, potenzialmente accordabile il rifugio o la protezione sussidiaria prevista dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e b), l’uno come l’altra dipendendo dal giudizio di coerenza interna e di attendibilità del racconto del richiedente.

Infatti, in tema di riconoscimento della protezione internazionale, l’intrinseca inattendibilità delle dichiarazioni del richiedente, alla stregua degli indicatori di genuinità soggettiva di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, attiene al giudizio di fatto, insindacabile in sede di legittimità, ed osta al compimento di approfondimenti istruttori officiosi, cui il giudice di merito sarebbe tenuto in forza del dovere di cooperazione istruttoria, salvo che la mancanza di veridicità derivi esclusivamente dall’impossibilità di fornire riscontri probatori; ne consegue che, in caso di racconto inattendibile e contraddittorio e per di più variato nel tempo, non è nulla la sentenza di merito che – come del resto affermato da Corte di Giustizia U.E., 26 luglio 2017, in causa C-348/16, Moussa Sacko, e da Corte EDU, 12 novembre 2002, Dory c. Svezia – rigetti la domanda senza che il giudice abbia proceduto a nuova audizione del richiedente per colmare le lacune della narrazione e chiarire la sua posizione (v. n. 33858/19 e 16925/18).

1.1.3. – Infine, quanto alla terza censura, va osservato che in tema di protezione internazionale, ai fini della dimostrazione della violazione del dovere di collaborazione istruttoria gravante sul giudice di merito, non può procedersi alla mera prospettazione, in termini generici, di una situazione complessiva del Paese di origine del richiedente diversa da quella ricostruita dal giudice, sia pure sulla base del riferimento a fonti internazionali alternative o successive a quelle utilizzate dal giudice e risultanti dal provvedimento decisorio, ma occorre che la censura dia atto in modo specifico degli elementi di fatto idonei a dimostrare che il giudice di merito abbia deciso sulla base di informazioni non più attuali, dovendo la censura contenere precisi richiami, anche testuali, alle fonti alternative o successive proposte, in modo da consentire alla S.C. l’effettiva verifica circa la violazione del dovere di collaborazione istruttoria (v. n. 26728/19).

A loro volta, e ai fini che qui rilevano, tali fonti alternative devono valere a dimostrare non già l’instabilità socio-politica del Paese di provenienza e/o la violazione in esso dei diritti umani, ma una situazione di violenza indiscriminata, rapportabile all’interpretazione che la giurisprudenza Eurounitaria e di questa Corte Suprema ha dato del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), (v. rispettivamente, sentenza 30 gennaio 2014, in causa C-285/12 e, da ultimo e fra le tante, Cass. n. 18306/19). E cioè di una violenza che abbia raggiunto un livello talmente elevato da far ritenere che un civile, se rinviato nel Paese o nella regione di sua provenienza, correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio, un rischio effettivo alla vita o alla persona.

Diversa, invece, è la sistematica violazione dei diritti umani, la quale può rilevare ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato o della protezione sussidiaria ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e b), ovvero della protezione umanitaria (nei limiti di cui in fra), per il carattere strettamente personale dell’indagine relativa, ma non già quale equipollente della protezione sussidiaria di cui alla lett. c) D.Lgs. citato.

Quest’ ultima, infatti, pur presupponendo la minaccia grave e individuale alla vita o alla persona di un civile, richiede una violenza “indiscriminata”, idonea, cioè, a colpire chiunque, non per effetto di una deliberata o tollerata violazione di diritti umani, ma per la sua stessa vis, sicchè questa non equivale a quella.

Nello specifico, la Corte territoriale ha citato fonti EASO (Ufficio Europeo di Sostegno per l’Asilo), relative al periodo ottobre 2018 – aprile 2019, che portano ad escludere la presenza nel Kashmir di un conflitto armato che, dando luogo ad una situazione di violenza indiscriminata, possa estendersi ai civili a prescindere dalla loro situazione personale.

Di contro, parte ricorrente cita altre e meno recenti fonti, e cioè il rapporto annuale di Amnesty International 2017-2018, che parla di attacchi con armi da fuoco da entrambi i lati della linea del confine conteso tra India e Pakistan; e il rapporto del Pakistan Institute for Paese Studies del 2016, che riferisce di 1.624 attentati terroristici compiuti nel (OMISSIS). Tali fonti non soltanto sono meno recenti, ma altresì descrivono una situazione non sovrapponibile alla fattispecie di cui alla lett. c) art. ult. cit., giacchè singoli attentati terroristici e scontri di frontiera tra eserciti contrapposti non equivalgono ad una violenza indiscriminata già in atto.

2. – Col secondo motivo è dedotta la violazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, in relazione dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5. Sostiene parte ricorrente che detta norma (applicabile ratione temporis alla fattispecie: n.d.r.) configura la protezione umanitaria quale catalogo aperto di fattispecie. Quindi, richiamato l’indirizzo di Cass. n. 4455/18, deduce che il ricorrente, ove facesse ritorno nel Paese d’origine, vedrebbe interrotto il suo percorso di integrazione in Italia, restando esposto alle violazioni dei diritti umani perpetrate in Pakistan.

2.1. – Il motivo è infondato.

Assente, perchè neppure dedotta, una situazione iniziale di vulnerabilità, riconducibile alle previsioni del T.U. n. 286 del 1998, art. 19, il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari al cittadino straniero che abbia realizzato un grado adeguato di integrazione sociale in Italia, deve fondarsi su una effettiva valutazione comparativa della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al Paese d’origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, in correlazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese d’accoglienza (n. 4455/18). Solo in presenza di elementi di un’effettiva integrazione tale giudizio comparativo ha ragion d’essere.

La comparazione presuppone, pertanto, un livello d’integrazione sociale nel Paese di accoglienza che, a sua volta, non può derivare dal solo svolgimento in quest’ultimo di un’attività lavorativa e dalla mera partecipazione a corsi di apprendimento professionale e/o della lingua italiana.

Pertanto, correttamente la Corte distrettuale, avendo ritenuto non emergente nè radicamento nè vulnerabilità, non ha operato detto giudizio comparativo.

3. – Il terzo motivo deduce la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 2, comma 1, lett. g) e art. 14, in relazione dell’art. 360 c.p.c., nn. 3, 4 e 5, perchè la Corte d’appello avrebbe omesso di esaminare i presupposti dello status di rifugiato e della protezione internazionale e sussidiaria.

4. – Col quarto motivo è allegata la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 2, comma 1, lett. g) e art. 14 e art. 1/a della Convenzione di Ginevra del 1951, in relazione dell’art. 360 c.p.c., nn. 3, 4 e 5, perchè, la Corte d’appello, senza addurre alcuna motivazione, non ha concesso al richiedente lo status di rifugiato.

5. – Col quinto motivo, infine, è denunciata la violazione dell’art. 10 Cost., comma 3, in relazione dell’art. 360 c.p.c., nn. 3, 4 e 5, perchè, la Corte d’appello, senza addurre alcuna motivazione, non ha concesso al richiedente neppure il diritto di asilo previsto dalla Costituzione.

6. – Il terzo, il quarto ed il quinto motivo, da esaminare congiuntamente per la loro sostanziale ripetitività, sono inammissibili per totale difetto di specificità; non senza osservare che l’art. 10 Cost., è interamente attuato e regolato dai tre istituti costituiti dallo status di rifugiato, dalla protezione sussidiaria e dal diritto al rilascio di un permesso umanitario, ad opera della esaustiva normativa di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007 e al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, cosicchè non v’è più alcun margine di residuale diretta applicazione del disposto di cui all’art. 10 Cost., comma 3 (giurisprudenza costante di questa Corte: v. per tutte, nn. 16362/16 e 10686/12).

7. – In conclusione il ricorso va respinto.

8. – Seguono le spese, liquidate come in dispositivo, a carico della parte ricorrente.

9. – Ricorrono i presupposti processuali per il raddoppio, a carico del ricorrente, del contributo unificato, se dovuto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il corrente alle spese, che liquida in Euro 2.100,00, oltre spese prenotate e prenotande a debito. Sussistono a carico del ricorrente i presupposti processuali per il raddoppio del contributo unificato, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 27 febbraio 2020.

Depositato in Cancelleria il 24 luglio 2020

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