Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 15907 del 29/07/2016


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Cassazione civile sez. II, 29/07/2016, (ud. 15/04/2016, dep. 29/07/2016), n.15907

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BUCCIANTE Ettore – Presidente –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

Dott. SCARPA Antonio – rel. Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – Consigliere –

Dott. FALABELLA Massimo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 7396 – 2015 proposto da:

D.M., C.C., elettivamente domiciliati in ROMA,

VIA GIUSEPPE AVEZZANA 2/B, presso lo studio dell’avvocato STEFANO

LATELLA, che li rappresenta e difende;

– ricorrenti –

nonchè contro

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA (OMISSIS);

– intimati –

per revocazione avverso la sentenza n. 18296/2014 della CORTE SUPREMA

DI CASSAZIONE di ROMA, depositata il 26/08/2014;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

15/04/2016 dal Consigliere Dott. SCARPA Antonio;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

PRATIS PIERFELICE, che ha concluso per l’inammissibilità del

ricorso.

Fatto

FATTO E DIRITTO

Ritenuto che il Consigliere designato ha depositato, in data 20 gennaio 2016, la seguente proposta di definizione, ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c.:

“Con cinque ricorsi, poi riuniti, depositati il 15 giugno 2011, D.M. e C.C. avevano richiesto alla Corte d’appello di L’Aquila la condanna del Ministero della Giustizia al ristoro del danno non patrimoniale da irragionevole durata di alcuni procedimenti di esecuzione per obblighi di fare, di opposizione all’esecuzione, di opposizione ad atti esecutivi e di opposizione ad esecuzione presso terzi, relativi a sentenze del Tribunale di Pesaro in tema di tutela possessoria di servitù di passaggio nei rapporti con le controparti Ce.Ag. e S.L.. La situazione di connessione e di sovrapposizione temporale esistente tra i distinti procedimenti induceva la Corte di L’Aquila ad escludere che l’indennizzo per durata non ragionevole dei processi potesse essere chiesto in relazione a ciascun giudizio di esecuzione e di opposizione, sicchè il dato temporale veniva ricostruito calcolando come data di inizio quella del processo più remoto (10 aprile 2002) e come data di definizione quella di conclusione dell’ultimo (15 dicembre 2009). Considerando, pertanto, che il processo, durato sette anni ed otto mesi, avesse ecceduto di otto mesi la durata ragionevole, stimata in sette anni, la Corte di merito, con decreto depositato il 16 luglio 2012, liquidava l’indennizzo in Euro 500,00 in favore di ciascuno dei ricorrenti.

Avverso questo decreto proponevano ricorso per cassazione D.M. e C.C., strutturato in sette motivi, resistendo con controricorso il Ministero della Giustizia. Tale ricorso veniva rigettato da questa Corte con sentenza n. 18296/2014 del 26 agosto 2014, che così motivava:

“(…).

2. – Con il primo motivo si deduce violazione e/o falsa applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 2 e dell’art. 6.1 CEDU. Avrebbe errato la Corte di merito nel determinare un unico indennizzo in relazione a sette distinti procedimenti (cinque giudizi civili e due procedimenti esecutivi), e comunque a non tenere conto che la durata dei procedimenti connessi non può determinare una proroga superiore a limiti ragionevoli.

3. – Con il secondo motivo si denuncia omessa e/o insufficiente motivazione in ordine alle ragioni per le quali i ricorsi avrebbero riguardato un unico procedimento, laddove due erano i procedimenti esecutivi per obblighi di fare.

4. – Con il terzo motivo si lamenta violazione o falsa applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 2, sotto il profilo della mancata verifica in concreto della ragionevole durata del processo presupposto. La Corte di merito avrebbe fatto riferimento ad un imprecisato modello di congruità, secondo il quale per un giudizio esecutivo che presenti opposizioni la durata ragionevole sarebbe di sette anni, senza fare alcun riferimento ai giudizi di cognizione.

5. – Con il quarto motivo si deduce omessa e/o insufficiente motivazione in ordine alla determinazione della ragionevole durata per avere il giudice di merito l’obbligo di indicare quale sarebbe dovuta essere la durata ragionevole di un procedimento esecutivo per obblighi di fare attinenti a lavori stimati in Euro 1000,00, che non avrebbe dovuto raggiungere i tre anni, e quella dei giudizi di opposizione, che non avrebbe dovuto superare i tre anni.

6. – Con il quinto motivo si deduce omessa pronuncia ex art. 112 c.p.c., in relazione alle domande aventi ad oggetto un ricorso concernente un giudizio di opposizione all’esecuzione estraneo agli altri e a quelle relative ai giudizi di opposizione n. 1412/2002, 2047/2002, 1081/2005 e 2565/2005.

7. – I motivi, da esaminare congiuntamente per la connessione logico- giuridica, non sono meritevoli di accoglimento.

La Corte aquilana, come correttamente rilevato nel controricorso, ha accorpato, ai fini della determinazione della durata, i procedimenti presupposti, considerandoli come un’unica causa complessa, indipendentemente dalla pluralità dei giudizi di opposizione all’esecuzione ed agli atti esecutivi. Ciò in quanto le diverse procedure, che trovano causa in un unico titolo, non comportano un aumento del patema d’animo. Nella durata complessiva delle procedure esecutive devono considerarsi, invero, anche i periodi necessari per la risoluzione di vicende parallele o incidentali, trattandosi di fasi ed attività processuali eventuali, che comunque ineriscono all’unico processo (arg. ex Cass., sent. n. 28858 del 2011 in tema di espropriazione immobiliare). Ciò posto, la Corte ha ragionevolmente ritenuta congrua la, durata della procedura di cui si tratta, avuto riguardo alla complessità di un giudizio la cui durata sia stata condizionata da vicende processuali che si siano inserite in esso. Nè può trovare ingresso nella presente sede la denuncia di omesso esame di domande non altrimenti specificate.

8. – Con il sesto motivo si deduce violazione della L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 3, e dell’art. 2056 c.c., per il mancato rispetto dei parametri indicati dalla Corte EDU in ordine alla liquidazione del danno da irragionevole durata del processo, oscillanti tra i 1000,00 e i 1500,00 Euro per ogni anno di ritardo.

9. – Il motivo è infondato. In tema di equa riparazione per violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, i criteri di liquidazione applicati dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo non possono essere ignorati dal giudice nazionale, il quale può tuttavia apportare le deroghe giustificate dalle circostanze concrete della singola vicenda, purchè motivate e non irragionevoli. Peraltro, ove non emergano elementi concreti in grado di far apprezzare la peculiare rilevanza del danno non patrimoniale, l’esigenza di garantire che la liquidazione sia satisfattiva di un danno e non indebitamente lucrativa comporta che la quantificazione del danno non patrimoniale dev’essere, di regola, non inferiore a Euro 750,00 per ogni anno di ritardo, in relazione ai primi tre anni eccedenti la durata ragionevole, e non inferiore a Euro 1000 per quelli successivi, in quanto l’irragionevole durata eccedente tale periodo da ultimo indicato comporta un evidente aggravamento del danno (Cass., sent. n. 17922 del 2010).

10. – Le argomentazioni fin qui esposte danno altresì conto della infondatezza del settimo motivo, con il quale si denuncia omessa od insufficiente motivazione in ordine al procedimento logico seguito per ritenere ragionevole la durata del procedimento presupposto nella misura indicata nel decreto impugnato.

5. – Conclusivamente, il ricorso deve essere rigettato. In applicazione del principio della soccombenza, i ricorrenti devono essere condannati in solido al pagamento delle spese del presente giudizio, che vengono liquidate come da dispositivo(…)”.

Per la revocazione della sentenza della Corte di cassazione n. 18296/2014 D.M. e C.C. hanno proposto ricorso, con atto notificato il 16 marzo 2015, sulla base di un motivo, rimanendo intimato il Ministero della Giustizia.

Con l’unico motivo, i ricorrenti sostengono che la sentenza della Corte di cassazione avrebbe fondato la propria valutazione sull’erronea supposizione che i cinque distinti giudizi oggetto di ricorso per durata non ragionevole trovassero causa in un unico titolo, dal che deduce l’omesso esame delle distinte censure avanzate dai ricorrenti avverso il decreto della Corte di L’Aquila. Quanto meno, vi sarebbero stati due processi totalmente diversi tra loro, l’uno relativo alla frana di un pendio e gli altri quattro riguardanti una servitù di passaggio. Da ciò l’erronea valutazione della situazione processuale addebitabile alla Corte di cassazione, che avrebbe ritenuto inesistenti fatti invece positivamente acquisiti nella realtà del processo, la quale doveva far distinguere il ricorso n. 585/11 dagli altri quattro riuniti.

In sostanza, il motivo di ricorso per revocazione critica la sentenza di cassazione n. 18296/2014, imputandole l’errore di aver considerato, ai fini del riconoscimento dell’equa riparazione per la irragionevole durata, un’unica durata complessiva delle diverse procedure esecutive e delle relative opposizioni, come se si trattasse di fasi ed attività processuali eventuali comunque inerenti ad un unico processo di esecuzione immobiliare. Deducono i ricorrenti che siano stati trasferiti “all’interno del giudizio di legittimità gli stessi errori e/o vizi in cui è insorta la Corte territoriale”.

La complessiva censura appare inammissibile.

Per consolidata interpretazione, invero, in materia di revocazione delle sentenze della corte di cassazione, l’errore di fatto di cui all’art. 395 c.p.c., n. 4, deve consistere in una disamina superficiale di dati di fatto che abbia quale conseguenza l’affermazione o la negazione di elementi decisivi per risolvere la questione, ovvero in un errore meramente percettivo, risultante in modo incontrovertibile dagli atti e tale da aver indotto il giudice a fondare la valutazione della situazione processuale sulla supposta inesistenza (od esistenza) di un fatto, positivamente acquisito (od escluso) nella realtà del processo, che, ove invece esattamente percepito, avrebbe determinato una diversa valutazione della situazione processuale. E’ invece inammissibile il ricorso ex art. 395 c.p.c., n. 4, ove vengano dedotti errori di giudizio concernenti i motivi di ricorso esaminati dalla sentenza della quale è chiesta la revocazione, ovvero l’errata valutazione di fatti esattamente rappresentati o, ancora, l’omesso esame di atti difensivi, asseritamente contenenti argomentazioni giuridiche non valutate (Cass. 22/09/2014, n. 19926; Cass. 09/12/2013, n. 27451; Cass. Sez. Un. 28/05/2013, n. 13181; Cass. 12/12/2012, n. 22868; Cass. 18/01/2012, n. 714; Cass. Sez. Un. 30/10/2008, n. 26022).

Nel caso in esame, i ricorrenti allegano a sostegno della revocazione ai sensi dell’art. 395, n. 4, c.p.c. l’errore di giudizio in cui sarebbe incorsa la Suprema Corte, identicamente a quanto già capitato alla Corte d’Appello di L’Aquila, quanto alla valutazione di unicità sostanziale del processo di esecuzione ai fini del calcolo della sua durata, valutazione cui la Suprema Corte è comunque pervenuta attraverso l’interpretazione dei contenuti espositivi dei rispettivi atti del giudizio, e dunque mediante attività insuscettibile in quanto tale – quand’anche risulti errata – di revocazione.

Per di più, l’errore di fatto che può legittimare la revocazione di una sentenza della Corte di cassazione deve pur sempre riguardare gli atti “interni” al giudizio di legittimità, ossia quelli che la Corte esamina direttamente nell’ambito dei motivi di ricorso e delle questioni rilevabili di ufficio, e deve avere quindi carattere autonomo, nel senso di incidere direttamente ed esclusivamente sulla sentenza medesima. Ne consegue che, ove il dedotto errore di fatto sia stato causa determinante della sentenza pronunciata in grado di appello o in unico grado, in relazione ad atti o documenti esaminati dal giudice di merito, o che quest’ultimo avrebbe dovuto esaminare, la parte che se ne duole è tenuta a proporre impugnazione contro la decisione di merito, ex art. 394 c.p.c., comma 1, n. 4, e art. 398, non essendole consentito addurre tale errore in un momento successivo (Cass. 18/02/2014, n. 3820).

Il ricorso può essere avviato alla trattazione in camera di consiglio, per esservi dichiarato inammissibile”.

Letta la memoria di parte ricorrente presentata ai sensi dell’art. 380 – bis c.p.c., Considerato che il Collegio condivide la proposta di definizione contenuta nella relazione ex art. 380 bis c.p.c.;

che i rilievi critici ad essa rivolti, dalla memoria non colgono nel segno;

che, infatti, il ricorrente insiste nel dolersi che il contenzioso riguardava due esecuzioni per obbligo di fare, quattro relative opposizioni ed un’opposizione ad esecuzione “difformi tra loro”, come riconosciuto dall’Amministrazione controricorrente; e poi coglie contraddizioni nella relazione ex art. 380 – bis c.p.c., avendo essa affermato che fossero frutto di “giudizio e valutazione” sia i vizi attribuiti alla Corte territoriale, sia i vizi emergenti dalla sentenza della Corte di Cassazione, concludendo con la considerazione che ove venisse affermata l’inammissibilità del ricorso per revocazione questa Corte “negherebbe a se stessa la possibilità di emendarsi da errori evidenti ictu oculi”;

ritenuto, piuttosto che il principio essenziale espresso nella relazione, e che il collegio dichiara di condividere, consiste nel ritenere inammissibile il ricorso per revocazione proposto nei confronti di una sentenza della Corte di cassazione, la quale abbia, nella sostanza, valutato l’unicità sostanziale di un processo esecutivo ai fini del calcolo della sua durata, indipendentemente dalla pluralità dei giudizi di opposizione all’esecuzione ed agli atti esecutivi, e ciò in quanto le diverse procedure, trovando causa in un unico titolo, non avrebbero comportato un aumento del patema d’animo; e ciò perchè tale valutazione, già espressa dai giudici del merito, e confermata dalla Corte di legittimità, non involge alcuna distorta percezione di un fatto risultante in modo incontrovertibile dalla realtà del processo (arg. anche da Cass. 9 marzo 2012, n. 3845), ed anzi cade su di un punto controverso, sul quale la Corte di cassazione si è pronunciata, mediante sviluppo di argomentazioni induttive e di indagini ermeneutiche;

che, pertanto, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile;

che non occorre regolare le spese del giudizio di cassazione, non avendo l’intimato Ministero svolto attività difensiva.

PQM

La Corte dichiara il ricorso inammissibile.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Seconda sezione civile della Corte Suprema di Cassazione, il 15 aprile 2016.

Depositato in Cancelleria il 29 luglio 2016

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