Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 15879 del 20/07/2011

Cassazione civile sez. un., 20/07/2011, (ud. 14/06/2011, dep. 20/07/2011), n.15879

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ELEFANTE Antonino – Primo Presidente f.f. –

Dott. TRIOLA Roberto Michele – Presidente di sezione –

Dott. MAZZIOTTI DI CELSO Lucio – Consigliere –

Dott. PICCIALLI Luigi – rel. Consigliere –

Dott. RORDORF Renato – Consigliere –

Dott. SPAGNA MUSSO Bruno – Consigliere –

Dott. MAZZACANE Vincenzo – Consigliere –

Dott. CHIARINI Maria Margherita – Consigliere –

Dott. TIRELLI Francesco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

M.C., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA 2011 XX

SETTEMBRE 15, presso lo studio dell’avvocato CIDDIO FRANCESCO,

rappresentata e difesa, dagli avvocati GIARDA ANGELO, DE FINIS LUIGI,

per delega in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

PROCURA GENERALE DELLA REPUBBLICA PRESSO LA CORTE SUPREMA DI

CASSAZIONE, MINISTERO DELLA GIUSTIZIA;

– intimati –

e sul ricorso 5679-2011 proposto da:

A.C., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA XX SETTEMBRE

15, presso lo studio dell’avvocato CIDDIO FRANCESCO, rappresentato e

difeso dagli avvocati GIARDA ANGELO, DE FINIS LUIGI, per delega in

calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, PROCURA GENERALE DELLA REPUBBLICA PRESSO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE;

– intimati –

e sul ricorso 5680-2011 proposto da:

P.P., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA NICOTERA

29, presso lo studio dell’avvocato DELL’ANNO PIERPAOLO, che lo

rappresenta e difende, per delega in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, PROCURA GENERALE DELLA REPUBBLICA PRESSO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE;

– intimati –

avverso la sentenza n. 6/2011 del CONSIGLIO SUPERIORE DELLA

MAGISTRATURA, depositata il 12/01/2011;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

14/06/2011 dal Consigliere Dott. PICCIALLI Luigi;

uditi gli avvocati Angelo GIARDA, Pierpaolo DELL’ANNO;

udito il P.M. in persona dell’Avvocato Generale Dott. CENICCOLA

Raffaele, che ha concluso per il rigetto dei ricorsi.

Fatto

I FATTI di CAUSA

M.S., cittadino (OMISSIS) con permesso di soggiorno scaduto, arrestato in (OMISSIS), in flagranza dei reati di danneggiamento aggravato e violazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 14, comma 5 ter su richiesta del P.M., in persona del sostituto Procuratore della Repubblica dott. P.P., fu tratto il successivo 18 luglio innanzi al giudice monocratico del suddetto Tribunale, dott. A.C., per la convalida dell’arresto ed il giudizio direttissimo.

All’esito dell’udienza, nel corso della quale era intervenuto “patteggiamento” ex art. 444 c.p.p., il suddetto giudice, convalidato l’arresto, applicava all’imputato, in conformità alla richiesta delle parti, la pena di mesi otto di reclusione, sostituita con la sanzione dell’espulsione dal territorio dello Stato per cinque anni, ai sensi dell’art. 16 del sopra citato decreto legislativo, senza pronunziare alcun provvedimento in ordine allo stato di detenzione, riguardo al quale nessuna richiesta era stata avanzata dal P.M..

Successivamente, con nota del 22.7.08, il giudice comunicava alla Casa Circondariale di Trento la posizione giuridica “provvisoria” del detenuto, indicando quale termine massimo della custodia cautelare il 15.3.2009.

Con istanza in data 26.7.08 il difensore del S. chiese la liberazione del suo assistito o, in subordinerà concessione al medesimo degli arresti domiciliari, domanda in ordine alla quale il P.M. dott. P., richiesto del proprio parere, si espresse nei seguenti testuali termini: “..ritiene che in assenza di ordinanza che disponga una misura cautelare nulla debba essere disposto dal giudice e che, pertanto, si sia nella fase di materiale esecuzione dell’espulsione quale sanzione sostitutiva della detenzione senza soluzione di continuità con quest’ultima”. A sua volta e conseguentemente il giudice investito dell’istanza, dott.ssa C. M., dichiarava, nello stesso giorno, “non luogo a provvedere ” al riguardo, sul rilievo che si era “nella fase di esecuzione materiale del provvedimento di espulsione, quale sanzione sostitutiva della pena detentiva, sanzione applicata con sentenza e da eseguirsi anche se la sentenza non è irrevocabile ai sensi del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 16, comma 2”. Dopo il vano esito del ricorso in appello al “Tribunale della Libertà”, la difesa presentava in data 14.8.08 un esposto diretto a varie autorità, tra cui il Ministero della Giustizia, ed il detenuto veniva, infine, scarcerato, con provvedimento di un terzo giudice del Tribunale di Trento del 16.8.08.

Il PROCEDIMENTO DISCIPINARE e la relativa SENTENZA. Con nota in data 2, 7.09 il Ministero della Giustizia promosse le azioni disciplinari nei confronti dei dottori A., M. e P. chiedendo al P.G. presso questa Corte di procedere alle indagini D.Lgs. n. 109 del 2006, ex art. 16 a conclusioni delle quali detto ufficio requirente, premesso che gli addebiti non erano rimasti esclusi, chiese la fissazione dell’udienza di discussione per il giudizio a carico degli incolpati, addebitando a ciascuno la violazione di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 1 e art. 2, comma 1, lett. a) e g) per avere nell’esercizio delle rispettive funzioni, mancato gravemente ai propri doveri, contestando in particolare:

A) al dott. A., che: “nell’ambito del procedimento n. 4518/08 RGNR a carico di S.M. data 18 luglio 2008 celebrava l’udienza per la convalida dell’arresto di quest’ultimo, definendo il giudizio di merito con applicazione di pena ex art. 444 c.p.p., consistente in otto mesi di reclusione, sostituiti dalla sanzione – appunto definita “sostitutiva ” – dell’espulsione per cinque anni dal territorio dello Stato ai sensi del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 16;

all’esito del giudizio, tuttavia, ometteva di provvedere in ordine alla liberazione dello stesso detenuto, atto doveroso ai sensi dell’art. 391 c.p.p.. Tenuto conto che il Pubblico Ministero non aveva avanzato alcuna richiesta di applicazione di misura cautelare e non era stato adottato alcun provvedimento restrittivo della libertà personale. Successivamente, con nota del 22.7.08, comunicava alla direzione della Casa Circondariale di (OMISSIS) la posizione giuridica del predetto S.M., chiarendo che l’esecuzione della custodia cautelare del medesimo avrebbe avuto fine in data 15.3.09.

In tal modo egli contribuiva alla ulteriore illegittima privazione della libertà personale del S., cessata solo in data 16 agosto 2008 a seguito di apposito provvedimento adottato da altro giudice dello stesso Tribunale. Così operando il dott. A. violava i suoi doveri di diligenza e realizzava una grave violazione di legge determinata da ignoranza inescusabile, cagionando al predetto S.M. un ingiusto danno, rappresentato dalla privazione della libertà personale sine titulo e ulteriormente aggravato dal fatto che l’assenza di un titolo custodiale ha precluso allo steso la possibilità di ottenere un provvedimento favorevole da parte del Tribunale per il Riesame”;

B) al dott. P. che: nell’ambito del suddetto processo “investito dell’istanza di scarcerazione per mancanza di titolo custodiale dal difensore…formulava” il parere, in narrativa già riportato, e nonostante il tenore dell’istanza, che fin dall’epigrafe evidenziava la restrizione carceraria del S. tale parere il P. formulava senza aver previamente verificato se il giudice avesse – con la sentenza conclusiva del giudizio o altrimenti – disposto la scarcerazione dell’imputato, del quale pertanto egli, assumendo che “nulla debba essere disposto”, finiva col propiziare il perdurante illegittimo stato detentivo, stante il recepimento che dello stesso parere faceva la dott.ssa M.C., giudice del Tribunale investita della decisione conformemente assunta sotto la stessa data. Così operando il P. violava i suoi doveri di diligenza e realizzava una grave violazione di legge determinata da ignoranza inescusabile, concorrendo a cagionare al predetto S. M. un ingiusto danno.. “, etc. (v. parte conclusiva dell’addebito all’ A.). Al P. veniva contestato anche un secondo addebito, per violazione dell’art. 2, comma 1, lett. c) e g), che si omette di riportare, essendo stato l’incolpato dal medesimo poi assolto, con statuizione non impugnata della sentenza oggetto del presente ricorso.

C) alla dott.ssa M. che: “investita dell’istanza di scarcerazione per mancanza di valido titolo custodiale presentata dal difensore ..emetteva su conforme parere del P.M…e in violazione dell’art. 391 c.p.p., un’ordinanza di non luogo a provvedere nella quale affermava che, benchè non fosse stata applicata alcuna misura cautelare, essendo stato l’imputato condannato alla pena di otto mesi di reclusione e dovendosi eseguire la sanzione sostitutiva dell’espulsione dal territorio dello stato italiano D.Lgs. n. 286 del 1998, ex art. 16 si era nella fase di esecuzione materiale del provvedimento di espulsione, quale sanzione sostitutiva della pena detentiva, sanzione applicala con sentenza e da eseguirsi anche se la sentenza non è irrevocabile ai sensi del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 16, comma 2.

Così operando, violava i suoi doveri.. “, etc. (v. parte conclusiva dell’addebito all’ A.)”.

All’esito del conseguente giudizio, nel corso del quale le difese (comune quella dei dott. A. e M.) avevano depositato rispettive memorie, rendendo la dott.ssa M. anche dichiarazioni orali a confutazione degli addebiti, ribaditi invece dal P.G., che aveva tuttavia prospettato la possibilità di modifica delle comuni incolpazioni, formulate D.Lgs. n. 109 del 2006, ex art. 1 e ex art. 2, comma 1, lett. a) e g) in quelle di cui alla lett. ff) del medesimo articolo di legge, la Sezione Disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura, con sentenza n. 6 del 16.11.2010, depositata il 12.1.2011, dichiarava i tre magistrati responsabili di tale ultimo illecito disciplinare, così riqualificati i fatti ascritti, infliggendo a ciascuno la sanzione della censura, assolvendo invece il dott. P. dalla residua incolpazione, per essere rimasto escluso il relativo addebito.

La suddetta triplice affermazione di responsabilità, la cui modifica è stata ritenuta possibile in applicazione dell’art. 421 c.p.p., fermi restanti i fatti storici ascritti, poggia sulla essenziale considerazione di partenza, secondo cui l’imputato S., ancorchè ne fosse stato convalidato l’arresto, avrebbe dovuto essere immediatamente rimesso in libertà ai sensi dell’art. 391, c.p.p., comma 6, in assenza di alcuna adozione, nella specie non richiesta dal P.M., di misure cautelari restrittive.

Ha ritenuto ancora la sezione disciplinare che la circostanza che l’imputato dovesse essere espulso dal territorio nazionale, in esecuzione della sanzione sostitutiva della pena detentiva patteggiata, non ne giustificasse l’ulteriore detenzione, non essendo questa funzionale alla espulsione, dovendo al più ritenersi che il S. avrebbe dovuto essere condotto in un centro di identificazione ed espulsione e non anche rimanere, a tempo indeterminato, in carcere fino alla sua materiale apprensione da parte dell’autorità amministrativa competente. Conseguentemente i provvedimenti rispettivamente assunti dai tre incolpati, ivi compreso il “parere” del P.M., al cui ingiustificato non liquet si era conformata la dott.ssa M., avevano assunto i caratteri dell’abnormità, per macroscopico errore o negligenza nell’applicazione della legge, tanto più inescusabile perchè incidente sul fondamentale diritto di libertà come tale giustificante anche il sindacato del giudice disciplinare, in deroga, normativamente prevista, a quanto in via generale stabilito, con riferimento all’attività interpretativa, dal D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, comma 2.

Avverso la suddetta sentenza hanno proposto distinti ricorsi per cassazione i tre magistrati incolpati, tramite i difensori a tal fine rispettivamente nominati (comuni quelli dei dott. A. e M.) ed esponenti ciascuno un unico motivo;ulteriore ricorso ha proposto personalmente il dottor P., deducendo dieci motivi di censura.

Non ha svolto attività difensiva il Ministero della Giustizia. Sono state infine depositate memorie illustrative per i ricorrenti A. e M..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Va preliminarmente disposta la riunione dei ricorsi ai sensi dell’art. 335 c.p.c., in quanto proposti contro la medesima sentenza.

2. I ricorsi proposti dai difensori dei dott. A. e M. deducono entrambi la violazione del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, comma 1, lett. ff) nonchè la nullità per contraddittorietà ed illogicità della motivazione, in relazione all’art. 606c.p.p., comma 1, lett. e).

Dal contenuto, in massima parte analogo, delle due impugnazioni, possono enuclearsi le seguenti censure:

a) la Sezione Disciplinare del C.S.M. non avrebbe tenuto conto che i comportamenti addebitati erano consistiti in attività di interpretazione di norme, disciplinarmente non censurabile quale macroscopica violazione di legge, in quanto trovanti spunto, se non fondamento, da alcune pronunzie di legittimità, tra cui anche una a sezioni unite;

b) del pari incensurabile sarebbe stata l’interpretazione delle norme, venute in considerazione nella vicenda, secondo la quale, ai fini dell’applicazione della sanzione sostitutiva dell’espulsione dal territorio nazionale, sarebbe stato necessario o comunque legittimo il mantenimento della custodia cautelare;

c) non avrebbe costituito macroscopica violazione di legge la sostituzione della reclusione con la suddetta sanzione, in quanto prevista dal D.Lgs. n. 286dfel 1998, art. 16, commi 1 e 2 da cui deriverebbe che la sanzione sostitutiva possa essere eseguita nel momento in cui sia stata già scontata parte della pena detentiva sotto forma di custodia cautelare;

d) rispondendo l’ordine provvisorio, previsto dall’art. 300 c.p.p., alla finalità di dar luogo alla scarcerazione dell’imputato alla data in esso prevista, nel caso in cui non sia nel frattempo intervenuta una diversa ragione di scarcerazione, la sua emissione sarebbe stata nella specie diretta ad impedire che la custodia cautelare si protraesse oltre il tempo definito con la sentenza di condanna non irrevocabile, realizzando detto risultato. Nessuna delle censure sopra riferite è meritevole di accoglimento.

Va anzitutto precisato, in via di generale premessa all’esame delle singole doglianze, che l’incensurabilità, agli effetti disciplinari garantita dal D.Lgs. n. 109 del 2006, at. 2, comma 2 al magistrato nella “attività di interpretazione di norme di diritto”, non può essere riferita a qualsiasi procedimento applicativo delle disposizioni contenute nella legge processuale o sostanziale, ma esige che al riguardo sia stata compiuta una, sia pur non complessa, operazione ermeneutica, nelle ipotesi in cui il dettato normativo difetti di quella obiettiva ed immediata evidenza (comunemente espressa dal brocardo in claris non fit interpretatio) che non consenta ragionevoli dubbi in ordine al suo effettivo tenore.

Diversamente opinando, ove si ritenesse incensurabile qualsiasi ipotesi di lettura, anche palesemente contraria alla lettera ed all’intenzione del legislatore, emergenti con immediatezza dalla disposizione, si finirebbe con l’ammettere un’assoluta ed illimitata impunità disciplinare per ogni caso di malgoverno di norme di diritto, con conseguente svuotamento di pratico significato delle fattispecie di illecito delineate dall’art. 2, comma 1, lett. g) ed ff). Sulla scorta di tali elementari considerazioni, risultano allora agevoli, per disattendere i profili di censura in precedenza riferitile considerazioni che di seguito vengono rispettivamente esposte. 1) La chiarezza della norma, contenuta nell’art. 391 c.p.p., comma 6, (disposizione applicabile al giudizio direttissimo per effetto del richiamo operato dall’art. 449, comma 1, u.p.), a termini della quale “quando non provvede a norma del comma 5 ( vale a dire all’applicazione di una misura coercitiva in presenza delle condizioni di cui all’art. 273 e delle esigenze cautelari di cui all’art 274), il giudice dispone con ordinanza la immediata liberazione dell’arrestato e del fermato”, non consente dubbi interpretativi di sorta, imponendo la scarcerazione dell’imputato, giudicato in stato di detenzione conseguente a fermo o arresto in flagranza, ancorchè convalidato, tutte le volte in cui non sia stata a suo carico adottata una misura cautelare detentiva: tanto in virtù del principio, derivante da quello fondamentale di cui all’art. 13 Cost., comma 1, cui è informato il vigente sistema processuale penale, secondo il quale la restrizione in carcere delle persone è consentita soltanto nei casi in cui sia divenuta irrevocabile la condanna ad una pena detentiva non sospesa o sostituita, oppure sia cautelarmente necessaria, in presenza di gravi indizi e delle tassative esigenze previste dalla legge. Nel caso di specie, in cui il giudice, dopo aver convalidato l’arresto, aveva celebrato il giudizio direttissimo e, nell’ambito dello stesso, recepito il “patteggiamento” ex art. 444 c.p.p., in virtù del quale la pena ritenuta applicabile era stata sostituita con la sanzione dell’espulsione dal territorio nazionale, mentre nessuna misura cautelare restrittiva ex artt. 273-274 c.p.p era stata richiesta dal P.M. ed applicata dal giudice, quest’ultimo non aveva alcuna scelta, nè margini interpretativi di sorta, bensì l’obbligo di disporre la liberazione immediata del prevenuto. Nessun dubbio poteva al riguardo essere giustificato dai precedenti giurisprudenziali di legittimità, citati dai ricorrenti (Cass. S.U. pen. 1/10-16/11/91 n. 1 e, successivamente, Cass. 6A pen. n. 1156/00 e Cass. 4A sez. pen. n. 40951/02), trattandosi di decisioni che nessun apporto alla tesi del mantenimento dello stato di detenzione, derivante dall’arresto convalidato, anche dopo il giudizio direttissimo, e la cui attenta lettura avrebbe invece dovuto rafforzare, quand’anche ve ne fosse stato bisogno, quella opposta.

Con tali decisioni, invero, si era soltanto evidenziato che la predetta convalida, “funzionalmente V. diretta alla celebrazione del giudizio direttissimo”, legittimava “la procrastinazione dello status detentionis dell’imputato fino alla emanazione del successivo provvedimento coercitivo”, con possibilità della relativa emissione con la sentenza stessa o con distinto successivo provvedimento, così affermando un principio limitato alla virtuale fase intermedia, del passaggio dalla convalida dell’arresto a quella della celebrazione del contestuale giudizio direttissimo, senza tuttavia anche ammettere la possibilità di mantenimento, successivamente alla definizione di quest’ultimo, dello stato di detenzione, in assenza dell’adozione di misure cautelari ed in aperto contrasto con la tassativa disposizione di cui all’art. 391 c.p.p., comma 6. Per rendersi conto dell’assoluta implausibilità, anche alla luce dei suesposti precedenti, della tesi difensiva, basti considerare: che nel caso della sentenza n. 19/91, vi era stata, con la stessa sentenza di condanna emessa all’esito del giudizio direttissimo, contestuale a quello di convalida dell’arresto in flagranza, l’emissione di una ordinanza cautelare, della quale si era doluta il ricorrente, sostenendo (infondatamente, secondo le S.S.U.U.) che la stessa avrebbe dovuto essere emessa subito dopo la convalida suddetta;che in quello della sentenza n. 1156/00, il 4 giudice di merito aveva inserito – correttamente come poi evidenziato da questa Corte – nel dispositivo della sentenza ex art. 444 c.p.p., emessa all’esito del giudizio direttissimo, la formula “dispone che l’imputato rimanga in stato di custodia cautelare”, dopo aver esposto nella stessa sentenza le ragioni dell’adozione della misura custodiale; che in quello definito con la sentenza n. 40951/02, la difesa aveva impugnato la decisione ex art. 444 c.p.p., sul rilievo (ritenuto infondato in base al principio sopra esposto) che, non essendo stata emessa misura cautelare dopo la convalida dell’arresto, l’imputato non avrebbe potuto essere tratto al conseguente giudizio direttissimo, mancando la condizione del relativo stato di detenzione; vicende tutte palesemente diverse da quella oggetto del procedimento disciplinare, nelle quali non si era in alcun modo discusso della mancata applicazione della disposizione dettata dall’art. 391 c.p.p., comma 6 all’esito del giudizio direttissimo conseguente alla convalida dell’arresto o del fermo, nè affermato alcun principio che potesse giustificare, dopo tale giudizio, il mantenimento della detenzione senza l’emissione di una misura cautelare.

Ed, a tale ultimo proposito, è appena il caso di evidenziare come la giurisprudenza penale di legittimità, effettivamente pertinente al riguardo, sia da anni univoca sui principi di elementare evidenza normativa, secondo cui la convalida dell’arresto in flagranza, così come quella del fermo, non costituisce formale ed autonomo titolo di detenzione, essendo esclusivamente rivolta al controllo della legittimità dell’operato della polizia giudiziaria e del pubblico ministero, in relazione alla sussistenza delle condizioni e dei termini di cui all’art. 386 c.p.p., commi 3 e 4 e art. 390 c.p.p., comma 1, mentre per la prosecuzione della custodia cautelare è necessario l’emanazione di un distinto provvedimento, richiedente la sussistenza delle condizioni e delle esigenze rispettivamente previste dagli artt. 273 e 274 c.p.p.(v., tra le tante, sez. 1A n. 2390/90, sez.5A n. 418/91, sez. 1A n. 753/94, sez. 3A n. 42074/08, sez. 6A n. 38180/10).

2) Le considerazioni sopra esposte comportano, quale necessaria conseguenza, l’infondatezza anche del secondo profilo di censura, considerato che, in assenza di un provvedimento cautelare che giustificasse la protrazione della detenzione dopo la conclusione del giudizio direttissimo, la necessità che l’imputato dovesse, senza soluzione di continuità temporale, essere sottoposto alla sanzione sostitutiva, immediatamente esecutiva D.Lgs. n. 286 del 1998, ex art. 16, commi 1 e 2 irrogatagli con la sentenza ex art. 444 c.p.p., non costituiva titolo o ragione sufficiente per mantenerlo, sia pur provvisoriamente, in carcere. E’ ben vero che l’espulsione dal territorio nazionale prevista dalle norme contenute nella legge citata e, soprattutto, le modalità della relativa esecuzione, integrano delle restrizioni della libertà personale (come riconosciuto dalla Corte Cost.le con sent. n. 105/01), ma le stesse non possono tuttavia parificarsi, quanto ad intensità ed afflittività, alla detenzione in carcere, che nel vigente sistema processuale penale, al di fuori dei casi di espiazione di pena, costituisce l’extrema ratio cui il giudice può ricorrere soltanto quando, in presenza delle già citate condizioni ed esigenze di cui agli artt. 373 e 374 c.p.p., ogni altra misura risulti inadeguata (art. 275, comma 3), dovendosi comunque escludere la relativa applicabilità in tutti i casi in cui la pena detentiva, irrogata o prevedibilmente irroganda, non debba essere concretamente espiata (principio generale desumibile, tra le altre, dalla disposizione contenuta nel comma 2 bis del citato articolo, con riferimento alla prevista possibilità di concessione della sospensione condizionale).

Nel caso di specie, dunque, in cui la condanna “patteggiata” ex art. 444 c.p.p. non prevedeva, in considerazione dell’operata sostituzione con la sanzione di cui all’art 16 cit. D.Lgs, alcuna possibilità di espiazione in carcere, e, pertanto, neppure avrebbe potuto adottarsi una misura cautelare detentiva, difettando le citate condizioni di legge, a fortiori improponibile si palesa la tesi della legittimità del mantenimento in carcere, in forza di una mera convalida delFarresto, di un condannato non passibile in concreto di tale forma di detenzione, bensì destinatario di un provvedimento, che ancorchè limitativo della libertà personale ed immediatamente esecutivo, non avrebbe potuto, per la manifesta sproporzione tra il mezzo ed il fine perseguito, giustificare l’adozione dell’estrema misura de qua.

3) Non miglior sorte merita il terzo profilo di censura, strettamente connesso e dipendente dal precedente, atteso che la natura di sanzione sostitutiva di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 16 non detentiva e comportante la sola strumentale restrizione del diretto accompagnamento alla frontiera a mezzo dell’autorità di polizia, in un contesto processuale in cui nessuna pena detentiva da scontare era stata irrogata (e pertanto non si poneva alcuna questione di computo della custodia cautelare al riguardo), tenuto conto della chiarezza del dato normativo e della evidenziata diversità tra detta limitazione della libertà personale e quella detentiva, non consentiva alcuna ragionevole interpretazione della relativa norma di diritto, nel senso ritenuto dagli odierni ricorrenti, tale da comportare l’incensurabilità D.Lgs. n. 109 del 2006, ex art. 2, comma 2 dell’attività al riguardo svolta.

4) Il quarto profilo di censura, relativo alla posizione del solo ricorrente dott. A., è manifestamente infondato, attenendo ad una violazione di legge, grave, palese ed inspiegabile, che si è aggiunta a quella già commessa e ne ha di fatto aggravato le conseguenze. La corretta posizione giuridica da indicare all’autorità carceraria del S., il quale nessuna pena avrebbe dovuto scontare in virtù della sentenza emessa dal Tribunale, nè si trovava sottoposto a custodia cautelare (sicchè inconferente risultava ogni riferimento ai termini di durata massima previsti dall’art. 303 c.p.p.), altro non avrebbe potuto essere che quella di persona da rimettere in immediata libertà, ancorchè da affidarsi all’autorità di polizia per l’esecuzione della sanzione sostitutiva di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 16. Tali attività avrebbero potuto essere agevolmente coordinate all’atto della pronunzia della sentenza e del doveroso provvedimento di cui all’art. 391 c.p.p., comma 6, tenuto conto che l’imputato avrebbe dovuto comunque transitare per la casa circondariale, per l’espletamento delle formalità di scarcerazione, con conseguente possibilità di essere contestualmente preso in consegna dall’autorità di polizia, ove la stessa fosse stata tempestivamente informata, così evitando quella soluzione di continuità temporale tra la cessazione dello stato di custodia in carcere e l’esecuzione della sanzione espulsiva, cui si ritenne di ovviare con l’indebita protrazione di fatto della prima, situazione di illegittimo “stallo” che, già perdurante da quattro giorni, venne formalmente avallata dall’erronea comunicazione in questione, per protrarsi ulteriormente fino alla liberazione dell’imputato, avvenuta dopo quasi un mese dal giudizio.

p. 3. Le considerazioni che precedono, evidenzianti come nessuna ragionevole interpretazione di norme di diritto, contenute nel codice di rito penale e nella legge speciale, avrebbe consentito, nel descritto contesto processuale, di lasciare in carcere l’imputato, conclusivamente inducono questa Corte a ritenere corretto il giudizio della sezione disciplinare del C.S.M., che, senza incorrere in alcuna violazione o falsa applicazione delle norme di riferimento, nè in carenze o illogicità argomentative, ha ravvisato nella vicenda gli estremi della “adozione di provvedimenti …sulla base di errore macroscopico”, vale dire di una delle tre ipotesi di illecito disciplinare a ” fattispecie alternative” previste dal D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, comma 1, lett. ff); tanto non solo nel comportamento del giudicante che, a fronte di un chiaro ed inequivoco dettato normativo imponente l’immediata scarcerazione, aveva omesso di provvedervi con la sentenza che aveva definito il giudizio o con una tempestiva separata ordinanza ad hoc, ma anche in quello del magistrato successivamente investito dell’istanza di scarcerazione, il quale, pur venuto a conoscenza di, una palesemente indebita, situazione di detenzione senza titolo che si protraeva da alcuni giorni, conformandosi al burocratico parere di non liquet emesso dal P.M., secondo cui non vi sarebbe stato luogo a provvedere, non essendo stata emessa alcuna misura cautelare ed essendo in corso l’esecuzione della sanzione sostitutiva, senza neppure accertarsi se, come e quando tale esecuzione fosse stata concretamente attivata, aveva omesso di rimettere l’imputato in libertà, come dovutogli ex art. 391 c.p.p., comma 6.

Considerato che la sussistenza degli estremi, soggettivi ed oggettivi, di almeno una delle tre fattispecie previste dalla disposizione citata è sufficiente ad integrare l’illecito de quo, poco o punto rileva l’impropria qualificazione di abnormità (in quanto “non previsti da norme vigenti”), nella specie anche attribuita dai giudici disciplinari ai provvedimenti in questione, con conseguente irrilevanza delle doglianze al riguardo esposte dai ricorrenti, così come con riferimento all’altra ipotesi relativa alla “grave ed inescusabile negligenza”.

p. 4. Resta fermo il trattamento sanzionatorio dei due suddetti incolpati, considerato che nessuna censura risulta a tal riguardo formulata nei rispettivi ricorsi, mentre quella proposta, dalla sola dott.ssa M., nella memoria depositata ex art. 378 c.p.c., è inammissibile, integrando la stessa un nuovo motivo di impugnazione, la cui deduzione non è consentita in tali atti defensionali, aventi la limitata funzione di illustrare quelli già esposti nel ricorso.

p. 5. Passando alla posizione del dott. P., si ritiene opportuno esaminare secondo l’ordine di priorità logico – giuridica le censure contenute nei due ricorsi, raggruppando quelle connesse.

p. 5.1. Manifestamente infondata è la denuncia di violazione dell’art. 521 c.p.p. proposta con il sesto motivo del ricorso personale, lamentandosi lo “spostamento del nucleo dell’addebito” nei vari passaggi del procedimento disciplinare, considerato che il fatto ascritto al magistrato requirente, quello di avere formulato un erroneo parere, secondo cui il giudice nessun provvedimento avrebbe dovuto adottare in ordine allo status libertatis dell’imputato, non essendo quest’ultimo oggetto di alcuna misura cautelare, ma soltanto destinatario di un provvedimento di espulsione in corso di esecuzione, non ha mai subito sostanziali modifiche. L’addebito originario, quello di aver fornito un parere gravemente erroneo, per non aver tenuto conto della disposizione di cui all’art. 391 c.p.p., comma 6, quand’anche la relativa osservanza spettasse al giudice, è rimasto nei suoi essenziali estremi di fatto immutato, sia nella fase delle indagini, sia in quella del giudizio, senza l’introduzione di circostanze nuove, così consentendo all’incolpato di avvalersi di tutte le garanzie difensive (di fatto esercitate mediante la presentazione di quattro memorie), e soltanto in sede di decisione finale, sia formato oggetto di una diversa qualificazione giuridico – disciplinare, nei termini in narrativa riferiti. Ma tanto era ben consentito dalla citata disposizione del codice di procedura penale (analogicamente applicabile al procedimento disciplinare), la cui violazione, secondo la costante giurisprudenza delle sezioni penali di questa Corte, si configura soltanto nei casi in cui il fatto ritenuto in sentenza si trovi, rispetto a quello contestato, in rapporto di eterogeneità o di sostanziale incompatibilità, tali da determinare una vera e propria trasformazione essenziale dell’addebito nei confronti del l’imputato, ponendolo “a sorpresa” di fronte ad un fatto nuovo, senza poter così avere possibilità di difendersi; situazione quest’ultima che si palesa del tutto inconfigurabile nel caso di specie, nel quale la contestazione, muovendo sempre da un unico e ben preciso fatto storico, costituito dalla formulazione del più volte citato parere, ha solo subito, in sede di decisione, una qualificazione più appropriata, rispetto a quella originaria, ravvisandosi, senza l’introduzione di circostanze di fatto nuove, gli estremi dell’illecito di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, comma 1, lett. ff in luogo di quello di cui alla lett. g).

p. 5.2. Con il primo ed il settimo motivo del ricorso personale vengono, rispettivamente, dedotte violazione del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, lett. ff) e connesse carenze di motivazione, per avere i giudici disciplinari ritenuto che il parere incriminato costituisse un “provvedimento”, come tale censurabile nelle ipotesi di macroscopica erroneità, abnormità o negligenza inescusabile di cui alla citata disposizione, senza considerare che nella specie l’atto compiuto, oltre a non rivestire connotati provvedimentali, non avrebbe vincolato il giudice e neppure sarebbe stato richiesto ai fini della decisione sull’istanza del difensore del S., come confermato dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui alla liberazione dell’imputato per decorso della custodia cautelare il giudice può provvedere anche senza interpellare il P.M., mentre quest’ultimo soltanto nella fase delle indagini preliminari è responsabile della verifica dei termini di custodia cautelari.

I motivi non meritano accoglimento, condividendo questa Corte la non restrittiva accezione del termine “provvedimento” fornita nella sentenza impugnatala ritenersi, in coerenza alle finalità perseguite dalla norma disciplinare (che, diversamente, resterebbe vanificata per gran parte degli atti compiuti dai P.M.), di assicurare la corretta e diligente osservanza della legge da parte di tutti i magistrati, giudicanti o requirenti, dell’ordine giudiziario, non limitata ai soli atti a contenuto decisorio o comunque tali da incidere direttamente sulle situazioni giuridiche dei soggetti coinvolti nel processo, ma estesa a tutti quelli comunque compiuti nell’esercizio delle relative funzioni, ed a tal titolo inseriti in una sequela procedimentale, indipendentemente dall’efficacia, vincolante o meno, degli stessi e dalla rilevanza esterna.

Tale accezione non ha forzato, come lamenta il ricorrente, il principio di tipicità dell’illecito disciplinare, non avendo integrato gli estremi dell’applicazione analogica della relativa norma precettiva, ma soltanto fornito una ragionevole interpretazione della disposizione, tenendo conto dell’effettiva intenzione del legislatore come sopra individuabile.

La circostanza che, nel caso di specie, non fosse stata emessa una misura cautelare non poteva esimere il P.M., una volta interpellato dal giudice, dall’esprimere il richiesto parere sull’istanza de liberiate, che correttamente gli era stata a tal fine sottoposta, nell’ambito dell’ordinaria dialettica processuale, in quanto controparte pubblica e titolare dell’azione penale, rispetto al cui efficace esercizio la restrizione della libertà personale dell’imputato, ove non ancora condannato, assolve ad una finalità strumentale. Che tale parere non fosse vincolante poco o punto rileva, considerato che dello stesso avrebbe comunque dovuto il giudice tener conto, anche nell’ipotesi in cui avesse ritenuto di doverlo disattendere, sicchè insostenibile ed ingiustificatamente riduttiva del ruolo svolto dal P.M. in tutte le fasi del processo penale, si palesa la tesi dell’irrilevanza processuale del parere in questione.

p. 5.3. L’unico motivo del ricorso del difensore, deducente erronea applicazione del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, comma 1, lett. ff), ed il terzo, quarto e quinto dell’impugnazione personale, che riprendono e sviluppano le salienti censure contenute nella precedente, deducendo illogicità e contraddittorietà della motivazione sotto vari profili, attengono alla ritenuta sussistenza dello “errore macroscopico ” nel parere espresso quale P.M. dal dott. P., di cui si sostiene la correttezza giuridica e si lamenta il travisamento.

Si lamenta in particolare che i giudici disciplinari attribuendo indebitamente al magistrato l’insussistente affermazione secondo la quale l’imputato avrebbe potuto essere privato della libertà a tempo indeterminato fino alla materiale apprensione da parte dell’autorità di polizia competente all’esecuzione della sanzione espulsiva, non avrebbero considerato che, in realtà, il P.M. avrebbe soltanto, de tutto correttamente, evidenziato come, in mancanza di una misura cautelare in atto e dovendosi invece dar corso alla suddetta sanzione sostitutiva, nessun provvedimento di revoca o modifica della custodia cautelare il giudice fosse tenuto ad assumere a seguito dell’istanza del difensore. Tale parere, perfettamente aderente, alla situazione giuridica in atto, non avrebbe implicato l’ammissione della possibilità di mantenere il S. in stato di detenzione sine die, ma esattamente il contrario, dovendo il medesimo necessariamente essere scarcerato per potere essere affidato all’autorità di polizia, competente alla immediata esecuzione della sanzione di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 16, in funzione della quale, come ritenuto in analoga vicenda da altra autorità giudiziaria (Trib.

Reggio Emilia, ord. 31.3.06), neppure sarebbe stata giustificabile la protrazione dell’eventuale custodia cautelare. Pertanto non sarebbero state nella specie configurabili l’abnormità del provvedimento, che avrebbe puntualmente esposto la situazione al riguardo sussistente, nè la macroscopica violazione di legge, nè, ancora, la negligenza inescusabile, che la sezione disciplinare del C.S.M. avrebbe, impropriamente cumulando le distinte ipotesi disciplinari di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, comma 1, lett. ff), ravvisato nell’operato del ricorrente. Le censure non meritano accoglimento.

I giudici disciplinari non hanno attribuito al dott. P. l’affermazione, non resa, secondo cui l’imputato avrebbe potuto essere trattenuto in carcere a tempo indeterminato in attesa della espulsione, ma soltanto evidenziato come il “burocratico” non liquet espresso nel censurato parere, ove recepito – come nella specie avvenuto – dal giudice, equivaleva ad ammettere, in un contesto nel quale la materiale apprensione dell’imputato da parte della Questura, nonostante l’immediata esecutività della sanzione irrogatagli ed i giorni trascorsi dalla sentenza, non era ancora intervenutala possibilità (di fatto poi verificatasi) di ulteriore prolungamento di tale detenzione sine titulo.

Del tutto condivisibile e corretto deve, pertanto, considerarsi, anche alla luce delle considerazioni che hanno condotto al rigetto dei ricorsi degli altri due incolpatici giudizio di disvalore deontologico, correlato al macroscopico errore di diritto, formulato a carico del dott. P., per aver espresso un parere di carattere palesemente elusivo, poichè, considerando la richiesta del difensore sotto il limitato angolo visuale della revoca o modifica di una (insussistente) misura cautelare, senza porsi l’essenziale domanda se l’imputato potesse ancora essere legittimamente detenuto – quesito in ordine al quale il tassativo disposto di cui all’art. 391 c.p.p., comma 6 non avrebbe consentito dubbi – e venendo meno all’obbligo istituzionale di vegliare sulla corretta osservanza delle leggi (al P.M. imposto dall’art. 73 dell’Ordinamento Giudiziario), aveva sostanzialmente avallato l’illegittima situazione in corso e propiziato l’altrettanto erronea decisione di “non luogo a provvedere” da parte del giudice, pur in cospetto di una evidente ragione imponente, al di là delle esteriori modalità di formulazione dell’istanza de liberiate, l’accoglimento di quest’ultima.

La sufficienza degli elementi di giudizio idonei al riscontro dell'”errore macroscopico” esime, come si è già considerato esaminando i ricorsi dei dott. A. e M., dal valutare i profili di censura attinenti alle alternative ipotesi disciplinari, di abnormità e inescusabile negligenza. Quanto, poi, al richiamo al citato precedente giurisprudenziale di merito, va solo precisato che lo stesso non è di alcun apporto alla tesi difensiva, atteso che nella relativa vicenda, pur caratterizzata da una tardante esecuzione della sanzione espulsiva, la detenzione dell’imputato rinveniva il suo titolo (poi correttamente dichiarato caducato dal Tribunale, in sede di gravame ex art. 310 c.p.p., per ritenuta incompatibilità con la esecuzione della sanzione suddetta) in una misura cautelare, che, a differenza che nel caso presente era stata disposta dal giudice all’esito della convalida dell’arresto e non revocata con la sentenza di condanna, situazione nella quale, dunque, non si poneva l’obbligo di immediata liberazione ai sensi dell’art. 391 c.p.p., comma 6.

Per il resto, esclusa la possibilità di diversificazione dell’errore compiuto dal dott. P. rispetto a quelli, sostanzialmente identici, commessi dagli altri due incolpati, attenendo i residui profili di censura alle medesime tematiche affrontate nell’esame dei relativi ricorsi si ritiene sufficiente rinviare alle considerazioni in precedenza esposte.

p. 5.4.Con l’ottavo ed il nono motivo di ricorso il dott. P. lamenta, rispettivamente, “omessa motivazione sulle ragioni della mancata espulsione e della perdurante detenzione ” ed “omessa motivazione sulla competenza ad eseguire l’espulsione e sulla conseguente responsabilità per la mancata espulsione previa liberazione” del S., ragioni che, come egli avrebbe inutilmente evidenziato nelle memorie difensive, sarebbero state ascrivibili non alla mancata adozione del provvedimento ex art. 391 c.p.p., comma 6, bensì al difetto coordinamento tra le attività, conseguenti alla sentenza, di competenza del Tribunale, della Questura e della Casa Circondariale, senza alcuna possibilità del P.M. di interloquire, versandosi fuori dei casi di attività rientranti tra le funzione esecutive demandategli ex art. 655 c.p.p. I motivi, strettamente connessi, vanno respinti, per palese irrilevanza, alla stregua delle considerazioni in precedenza svolte, nelle quali si è evidenziato come, nella vicenda in questione, nella quale, a distanza di otto giorni dalla pronunzia di una sentenza di condanna alla sola sanzione non detentiva, a seguito della quale ed in mancanza di adozione di alcuna misura cautelare, il prevenuto avrebbe dovuto, per tassativo disposto normativo, essere rimesso in libertà, poco o punto rilevava stabilire quale fosse l’autorità competente ad ordinare la tardante esecuzione di tale sanzione, quale tenuta ad eseguirla e, quali, infine, le ragioni della mancata sincronia tra la definizione del giudizio penale e la consegna dell’imputato alla Questura. Essendo, in siffatta anomala situazione di stallo, palese l’illegittimità della carcerazione, che in dispregio al disposto dell’art. 391 c.p.p., comma 6 era ancora in atto, a fronte di un’istanza del difensore che l’aveva evidenziata, l’unico provvedimento da adottare con immediatezza, alla data del 26/7/08, sarebbe stata la liberazione dell’imputato: tanto avrebbe dovuto, ante omnia ed indipendentemente dalla tardante esecuzione, non esigente la massima restrizione della libertà dell’individuo, chiedere il P.M., che a seguito della trasmissione dell’istanza per il parere non poteva più ignorare la situazione, imponendolo i suoi obblighi istituzionali di osservare e far osservare la legge.

p. 5.5. Altrettanto irrilevante è il secondo motivo di ricorso, con il quale si denuncia violazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 16 e del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, comma 2, con riferimento all’affermazione, contenuta nella sentenza, secondo cui nel caso in esame avrebbe dovuto pervenirsi alla liberazione del prevenuto per poi condurlo, ai fini dell’esecuzione della sanzione sostitutiva, in uno dei centri di identificazione ed espulsione di cui alla precitata norma.

La censura attiene ad una mera considerazione, non essenziale al riscontro degli elementi costitutivi dell’illecito e, pertanto, non funzionale alla decisione, con la quale si è voluto soltanto rafforzare il giudizio di implausibilità della tesi, secondo la quale sarebbe stata in qualche modo giustificabile la permanenza in carcere dell’imputato, tesi che comunque, a prescindere dalle concrete modalità esecutive nella specie adottabili, si palesava gravemente erronea sulla scorta delle altre ragioni, in precedenza considerate ed imponenti , con assoluta priorità, la liberazione, ai sensi dell’art. 391 c.p.p., comma 6 e dell’art. 13 Cost..

p. 5.6.Con il decimo ed ultimo motivo il ricorrente censura, per violazione del D.Lgs. n. 109 del 2006, artt. 5 e 12 ed omessa motivazione, il trattamento sanzionatorio subito, in quanto inficiato da non corretto coordinamento tra le disposizioni contenute nei due citati articoli, il cui combinato disposto si desumerebbe che la sanzione minima per l’illecito disciplinare ritenuto in sentenza è quello dell’ammonimento e non della censura, come erroneamente ritenuto nella parte di motivazione relativa al dott. A. e richiamata in quella adottata per il dott. P.. Neppure tale doglianza può essere accolta, considerato che l’errore in questione, che si assume compiuto a discapito del (non ricorrente sul punto) dott. A., non risulta decisivo ai fini anche della determinazione del trattamento sanzionatorio adottato per il dott. P.. Al riguardo di quest’ultimo, infatti, la motivazione contiene, nella sua parte iniziale, considerazioni, evidenzianti la “macroscopicità degli errori giuridici compiuti” e, soprattutto, “la gravità delle conseguenze subite dalla parte”, di per sè sole sufficienti a giustificare l’inflizione della censura, sicchè il successivo generico richiamo a quelle analoghe in precedenza svolte riguardo alla posizione del dott. A. (di cui erano stati, tuttavia e specificamente valutati, in chiave attenuante, stato di servizio e l’assenza di qualsiasi precedente disciplinare) risulta inessenziale, con conseguente irrilevanza del denunciato errore ai fini della posizione del dott. P..

p. 6. Conclusivamente, dunque, va respinto anche il ricorso del dott. P..

p. 7. Non vi è luogo, infine, a regolamento delle spese, in assenza di parti controricorrenti.

P.Q.M.

La Corte, a sezioni unite, riuniti i ricorsi, li rigetta.

Così deciso in Roma, il 14 giugno 2011.

Depositato in Cancelleria il 20 luglio 2011

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