Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 15819 del 29/07/2016


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Cassazione civile sez. un., 29/07/2016, (ud. 05/07/2016, dep. 29/07/2016), n.15819

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. RORDORF Renato – Primo Presidente f.f. –

Dott. AMOROSO Giovanni – Presidente Sezione –

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Presidente Sezione –

Dott. CURZIO Pietro – Presidente Sezione –

Dott. AMENDOLA Adelaide – Presidente Sezione –

Dott. AMBROSIO Annamaria – rel. Presidente Sezione –

Dott. GIANCOLA Maria Cristina – Consigliere –

Dott. PETITTI Stefano – Consigliere –

Dott. DE CHIARA Carlo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 20130/2015 proposto da:

R.F., elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE LIEGI 1,

presso lo studio dell’avvocato GIOVANNI MELIADO’, rappresentata e

difesa dall’avvocato MAURIZIO PANIZ, che la rappresenta e difende,

per delega in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

CONSIGLIO DELL’ORDINE DEGLI AVVOCATI DI TREVISO, in persona del

Presidente pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA

BASSANO DEL GRAPPA 24, presso lo studio dell’avvocato LUCA GRAZIANI,

rappresentato e difeso dall’avvocato ALBERTO BORELLA, per delega in

calce al controricorso;

– controricorrente –

e contro

CONSIGLIO NAZIONALE FORENSE, PROCURATORE GENERALE PRESSO LA CORTE DI

CASSAZIONE, PROCURATORE DELLA REPUBBLICA PRESSO IL TRIBUNALE DI

TREVISO, PROCURATORE GENERALE PRESSO LA CORTE DI APPELLO DI VENEZIA;

– intimati –

avverso la sentenza n. 97/2015 del CONSIGLIO NAZIONALE FORENSE,

depositata il 16/07/2015;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

05/07/2016 dal Consigliere Dott. ANNAMARIA AMBROSIO;

uditi gli avvocati Maurizio PANIZ e Luca GRAZIANI per delega

dell’avvocato Alberto Borella;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. DE

AUGUSTINIS Umberto, che ha concluso per l’accoglimento del terzo

motivo, p.q.r..

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Nella seduta disciplinare del 30.03.2009 il Consiglio dell’ordine di Treviso irrogò all’avv. R.F. la sanzione disciplinare della censura, ritenendola responsabile della violazione dell’art. 22 del codice deontologico “per aver presentato in data 18.11.2005, nell’interesse del proprio assistito, sign. L.R., un atto di denuncia querela nei confronti dell’avvocato M.A. senza avere adeguatamente vagliato la fondatezza delle accuse rivolte al collega e senza avere informato, tempestivamente, il Consiglio dell’Ordine di tale iniziativa (così, testualmente, il capo di incolpazione).

Il ricorso proposto dall’avv. R. avverso detta decisione venne accolto dal Consiglio Nazionale Forense limitatamente alla natura della sanzione; ma la decisione, a seguito di ricorso alle Sezioni unite della Cassazione interposto dalla incolpata, venne cassata con rinvio con sentenza n. 1002 del 20.01.2014 per la principale considerazione che non si era tenuto conto del fatto decisivo che la denuncia-querela era fatto riferibile all’assistito e non al legale incolpato.

All’esito del giudizio di rinvio il C.N.F., con sentenza n. 109 del 23.10.2014/16.07.2015, ha rigettato tutte le domande dell’incolpata, applicando, in parziale riforma della decisione del C.O.A. la sanzione dell’avvertimento e compensando interamente le spese processuali.

Avverso detta sentenza ha proposto ricorso per cassazione l’avv. R.F., svolgendo tre motivi.

Il C.O.A. di Treviso ha depositato deduzioni ai sensi del R.D. n. 27 del 1934, art. 66.

E’ stata depositata memoria di replica di parte ricorrente.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Il C.N.F. – premesso che la fattispecie andava esaminata con riferimento all’art. 22 del C.d.f. ante 2006, vigente all’epoca del fatto, alla stregua della consolidata giurisprudenza di cassazione per cui l’illecito deontologico è riconducibile all’illecito amministrativo per cui non trova applicazione il principio del favor rei e precisato, altresì, che, sul punto, la sentenza di rinvio si era astenuta dal prendere posizione, dichiaratamente “volendo… prescindere dalla delicatissima quaestio iuris della applicabilità o meno, della norma più favorevole succedutasi nel tempo nelle more del procedimento disciplinare” – ha rilevato che dalla sentenza di cassazione erano enucleabili tre principi e cioè: a) che l’autenticazione della firma del querelante da parte del difensore non comporta in capo a quest’ultimo ai sensi del comb. disp. dell’art. 337 c.p.p., comma 1, e art. 333 c.p.p., comma 2, la personale responsabilità del legale per il contenuto dell’atto di denuncia-querela; b) che l’art. 22 del C.d.f. richiede in capo all’avvocato solo la preliminare analisi della verosimiglianza dei fatti in ragione dei quali viene richiesta la sua assistenza professionale nei confronti di altro collega; c) che occorreva confutare specificamente la diversa prospettazione in fatto e in diritto dell’incolpata.

Avuto riguardo ai ridetti principi di diritto, ha quindi rilevato:

che, in base agli accertamenti intervenuti e ai conseguenti rilievi della Cassazione era pacifico che l’avv. R. non aveva personalmente presentato la denuncia-querela e che, in base al principio sub a) non poteva essere ritenuta responsabile del contenuto della denuncia-querela;

che, peraltro, era fuori dubbio che l’incolpata avesse assunto la difesa del denunciante e, pertanto, fosse pienamente al corrente dell’iniziativa prima che la denuncia-querela venisse depositata, tanto da avere ammesso di avere partecipato essa stessa “in fretta e furia” alla relativa stesura, per evitare che il cliente incorresse in espressioni calunniose; di conseguenza l’impropria formulazione del capo di imputazione, in cui si contestava la presentazione della denuncia-querela non influiva sulla riconducibilità dei fatti accertati alla norma di cui all’art. 22 C.d.f. (ante riforma 2006), risultando la menzione degli addebiti semplicemente circoscritta in un ambito comportamentale che permaneva congruamente rapportato alla norma che il C.O.A. aveva ritenuto violata;

che, valutati i fatti in base al principio sub c), doveva escludersi che l’avv. R. avesse ritardato la comunicazione dell’iniziativa al C.O.A. e che, invece, in base al principio sub b) doveva ritenersi responsabile dell’incolpazione ascrittale per non avere previamente verificato la verosimiglianza del contenuto delle accuse che, per il tramite del suo assistito andava a rivolgere al collega o perlomeno per avere effettuato la relativa prognosi con colpevole superficialità;

1.1. Con il primo motivo di ricorso si denuncia violazione o falsa applicazione dell’art. 384 c.p.c., comma 2, dell’art. 22 C.d.f. ante 2006, del R.D.L. n. 1578 del 1933, art. 45; R.D. n. 37 del 1934, art. 48, dell’art. 111 Cost., nonchè dell’art. 112 c.p.c., con riferimento al R.D.L. n. 1578 del 1933, art. 56, (ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5). Al riguardo parte ricorrente deduce: che è stato violato il principio di diritto che sarebbe estrapolabile dalla sentenza di cassazione di rinvio, secondo cui non vi sarebbe violazione della norma deontologica, allorquando le ragioni dell’archiviazione della denuncia non siano conseguenti a manifesta infondatezza della denuncia querela; che la decisione si fonda su un comportamento dell’incolpata neppure implicitamente contenuto nel capo di incolpazione, con conseguente vizio di ultrapetizione; che, invero, nella specie il capo di incolpazione faceva riferimento alla presentazione in proprio della denuncia-querela, mentre l’avv. R. è stato condannato per non avere preventivamente valutato la verosimiglianza della denuncia-querela presentata dal cliente.

1.2. Con il secondo motivo di ricorso si denuncia violazione o falsa applicazione dell’art. 384 c.p.c., comma 2. Al riguardo parte ricorrente lamenta che – contrariamente a quanto rilevato dal C.N.F. – era preclusa la nuova produzione documentale in sede di rinvio e che i documenti nn. 13, 14, 16, 17, 35, 36, 37, 38, 39, 39 bis e 40 allegati alla comparsa di costituzione del C.O.A. non erano stati precedentemente depositati dall’avv. R..

1.3. Con il terzo motivo di ricorso si denuncia violazione o falsa applicazione della L. 31 dicembre 2012, n. 247, art. 65, che ha sancito il principio del favor rei disponendo che le norme contenute nel codice deontologico si applicano anche ai procedimenti in corso al momento della sua entrata in vigore, se più favorevoli. Al riguardo parte ricorrente deduce che l’art. 22, nella versione entrata in vigore il 27.01.2006 non prevedeva il preventivo vaglio di fondatezza della denuncia del cliente e, così pure la nuova formulazione dell’ipotesi disciplinare, confluita nell’art. 38 del C.d.f. in vigore dal 15.12.2014.

2. La Corte ritiene fondato e assorbente il terzo motivo di ricorso, con il quale si reclama l’applicazione della norma più favorevole all’incolpata; ciò in quanto, come emerge dalla esposizione sub 1., l’unico fatto in concreto accertato dal C.N.F. a carico dell’avv. R. (essendo stati esclusi gli altri addebiti) è costituito dall’avere omesso il preventivo vaglio di “verosimiglianza” delle accuse che, per il tramite del cliente, andava a rivolgere al collega (o perlomeno di avere effettuato la relativa prognosi con colpevole superficialità) e tale fatto non costituisce più illecito disciplinare.

2.1. Va premesso che l’orientamento cui ha fatto riferimento il C.N.F. per affermare la permanente applicabilità della norma di cui all’art. 22 del C.d.f. ante 2006, secondo la regola del tempus regit actum – orientamento, per il vero, esposto in forma dubitativa, senza prendere posizione sul punto, nella sentenza di cassazione con rinvio – è stato rivisto da queste Sezioni unite alla luce del disposto della L. 31 dicembre 2012, n. 247, art. 65, comma 5, recante “nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense”, il quale, nel prevedere l’emanazione di un nuovo codice deontologico forense, così recita nell’ultima parte: “L’entrata in vigore del codice deontologico determina la cessazione di efficacia delle norme previgenti anche se non specificamente abrogate. Le norme contenute nel codice deontologico si applicano anche ai procedimenti disciplinari in corso al momento della sua entrata in vigore, se più favorevoli per l’incolpato”.

2.2. Invero – secondo principio ormai acquisito nella giurisprudenza di queste Sezioni Unite, che va qui ribadito (cfr. Sez. Unite 27 ottobre 2015, n. 21828; Sez. Unite, 27 ottobre 2015, n. 21829; Sez. Unite, 16 febbraio 2015, n. 3023) – la nuova legge professionale, nel fissare il momento di transizione dall’operatività del vecchio a quella del nuovo codice deontologico, ha sancito, esplicitamente – così prevenendo le incertezze interpretative manifestatesi in occasione di precedenti successioni di norme deontologiche (e, peraltro, risolte in base al diverso criterio del tempus regit actum: cfr. Cass. 15120/13, 28159/08) – che la successione nel tempo delle norme dell’allora vigente e di quelle dell'(allora) emanando nuovo codice deontologico (e delle ipotesi d’illecito e delle sanzioni da esse rispettivamente contemplate) deve essere improntata al criterio del favor rei.

2.3. Ciò posto, si osserva che l’enunciazione del dovere del preventivo vaglio di “verosimiglianza” della fondatezza delle accuse rivolte al collega quale derivante dalla norma di cui all’art. 22 del C.d.f. nel testo in vigore all’epoca del fatto (“L’avvocato, salvo particolari ragioni, non può rifiutare il mandato ad agire nei confronti di un collega, quando ritenga fondata la richiesta della parte o infondata la pretesa del collega (…)” – già scomparsa dal testo del cit. art. 22 aggiornato alla data del 27 gennaio 2006 e in vigore negli anni successivi – non è prevista neppure dal nuovo codice deontologico approvato il 31.1.2014, pubblicato il 16.10.2014 ed entrato in vigore il 15.12.2014, in funzione di una (almeno tendenziale) tipicizzazione degli illeciti e della predeterminazione delle sanzioni correlativamente applicabili.

Invero l’art. 38 del nuovo C.d.f., nel disciplinare i fatti, già ricondotti sotto la rubrica “rapporto di colleganza” dall’art. 22 del precedente C.d.f., prevede, per la parte che qui rileva, al comma 1 che “L’avvocato che intenda promuovere un giudizio nei confronti di un collega per fatti attinenti all’esercizio della professione deve dargliene preventiva comunicazione per iscritto, tranne che l’avviso possa pregiudicare il diritto del titolare”.

2.4. Va precisato che – contrariamente, al precedente sopra cit. (sent. n. 3023 del 2015) richiamato dal C.O.A. per inferirne quantomeno la necessità di una cassazione del rinvio – qui non si pone un problema di riqualificazione del fatto e di correlativa scelta della sanzione; bensì di prendere atto che l’unico fatto, che risulta accertato dal C.N.F., e cioè l’omesso vaglio di “verosimiglianza” della fondatezza dell’accusa rivolta al collega, non integra più un illecito disciplinare e non è, quindi, più sanzionabile.

Non c’è chi non veda che esaminare la vicenda – come pretenderebbe parte resistente – alla luce dell’obbligo previsto dal nuovo C.d.f., art. 38, della preventiva comunicazione scritta al collega (per giunta in una situazione in cui è stata affermata la tempestività della comunicazione effettuata dall’incolpata al C.O.A., prevista dal previgente art. 22) lungi dal risolversi in una mera riqualificazione del fatto, comporterebbe la contestazione “ora per allora” di un fatto diverso, con risultati totalmente dissonanti vuoi con il principio tempus regit actum, vuoi, ancor più, con il principio del favor rei, affermato dal cit. art. 65.

2.5. Alla stregua delle considerazioni che precedono, va accolto il terzo motivo, assorbiti i primi due, con conseguente cassazione della decisione impugnata; e poichè non sono necessari ulteriori accertamenti in fatto, la Corte può decidere nel merito ex art. 384 c.p.c., comma 2, annullando la sanzione irrogata, per non essere il fatto più previsto come illecito disciplinare.

Il complesso iter procedimentale, indiziario della problematicità della vicenda, nonchè la risoluzione della stessa sulla base dello ius superveniens inducono a ravvisare i presupposti di cui all’art. 92 c.p.c., per la compensazione integrale tra le parti dell’intero giudizio.

PQM

La Corte accoglie il terzo motivo di ricorso, assorbiti gli altri; cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, annulla la sanzione irrogata;

compensa integralmente tra le parti le spese dell’intero giudizio.

Così deciso in Roma, il 5 luglio 2016.

Depositato in Cancelleria il 29 luglio 2016

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