Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 15817 del 23/07/2020

Cassazione civile sez. lav., 23/07/2020, (ud. 16/10/2019, dep. 23/07/2020), n.15817

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BRONZINI Giuseppe – Presidente –

Dott. RAIMONDI Guido – Consigliere –

Dott. DE GREGORIO Federico – rel. Consigliere –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 6681-2014 proposto da:

M.P., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA FALERIA 17,

presso lo studio dell’avvocato MANFREDO PIAZZA, rappresentato e

difeso dall’avvocato VINCENZO FERRARI;

– ricorrente –

contro

BANCA CARIME S.P.A., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA LEONE IV 99, presso

lo studio dell’avvocato CARLO FERZI, che la rappresenta e difende

unitamente agli avvocati ANGELO GIUSEPPE CHIELLO, CESARE POZZOLI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 254/2013 della CORTE D’APPELLO di CATANZARO,

depositata il 07/03/2013 r.g.n. 1394/2010.

LA CORTE, visti gli atti e sentito il consigliere relatore:

 

Fatto

RILEVA

che:

Il Dott. M.P. conveniva in giudizio Banca CARIME S.p.a. davanti al giudice del lavoro di Cosenza, facendo presente che quale dipendente dell’istituto di credito inquadrato nel quarto grado dei funzionari, in ragione delle mansioni svolte dal 4 ottobre del 1994 come funzionario assegnato al servizio generale della direzione centrale della banca, aveva diritto ad essere inquadrato come funzionario di primo grado con la qualifica di vicecapo servizio di direzione centrale in applicazione di quanto stabilito dagli artt. 2 e 5 del contratto integrativo aziendale 5 aprile 1995, con conseguente diritto anche al pagamento di differenze retributive a far data dal 30 settembre 1994, con la condanna altresì di parte convenuta risarcimento del danno da perdita di chances;

il giudice adito rigettava la domanda di parte attrice, che di conseguenza appellava la pronuncia sfavorevole, deducendone l’erroneità per avere interpretato malamente le declaratorie contrattuali, osservando in particolare che le disposizioni della contrattazione integrativa andavano intese nel senso che la sola qualifica attribuibile ai funzionari addetti all’interno dei servizi direzione centrale era quella di vice capo e ciò era desumibile dall’interpretazione conforme di criteri di cui agli artt. 1362 e 1363 c.c.. Ciò imponeva di considerare prioritariamente il contenuto del c.c.n.l., da cui promanava il contratto integrativo, al quale era demandata la funzione di accertare le qualifiche dalle quali scaturiva il diritto ad essere inquadrati nella categoria dei funzionari. Inoltre, il contratto integrativo aveva delineato un sistema in forza del quale il capo servizio era coadiuvato da un vicecapo e da funzionari in posizione paritaria con quest’ultimo, tanto che era disposta la firma congiunta di due funzionari in assenza del capo servizio. L’appellante aveva altresì lamentato la mancata ammissione della prova per testi da egli richiesta;

la Corte d’Appello di Catanzaro con sentenza n. 254 in data 7 febbraio – 7 marzo 2013 rigettava l’interposto gravame di cui al ricorso in data 24 giugno 2010, per l’effetto confermando l’impugnata sentenza, con la compensazione integralmente delle spese relative al secondo grado del giudizio;

avverso l’anzidetta pronuncia d’appello ha proposto ricorso per cassazione il Dott. M.P. con atto del 7 / 11 marzo 2014, affidato a tre motivi, cui ha resistito al S.p.a.

BANCA CARIME mediante controricorso, tempestivamente notificato il 15 aprile 2014.

Diritto

CONSIDERATO

che:

con il primo motivo è stata denunciata la violazione dei principi di ermeneutica contrattuale di quegli artt. 1362 – 1363 c.c. nonchè art. 96 disp. att. c.p.c. Erroneamente risultava interpretato, in particolare, l’art. 2, comma 2 del contratto integrativo 5 aprile 1995, con riferimento alle parole “possono essere attribuite”, per cui la Corte di merito aveva ritenuto che parte datoriale non fosse obbligata ad attribuire l’unica qualifica che la norma della contrattazione collettiva riservava ai lavoratori appartenenti alla categoria dei funzionari adibiti allo svolgimento di mansioni all’interno di un servizio della direzione centrale. In proposito il ricorrente ha sostenuto di aver dimostrato ed argomentato che, quale funzionario addetto ad un servizio della direzione centrale, aveva svolto le mansioni di vicecapo del servizio di direzione centrale, come da puntuale descrizione contenuta nel ricorso introduttivo del giudizio. L’interpretazione operata dalla Corte d’Appello veniva quindi contestata, perchè non conforme alla regola, secondo cui per interpretare un contratto collettivo è necessario coordinare le varie clausole contrattuali, così come previsto dall’art. 1363 c.c., anche quando l’interpretazione può essere compiuta sulla base del senso letterale delle parole, senza residui di incertezza, poichè l’espressione senso letterale delle parole, di cui all’art. 1362 cit. codice, deve intendersi come riferita all’intera formulazione letterale della direzione negoziale, e non già limitata ad una parte soltanto, quale è la singola clausola del contratto composto di più clausole, dovendo il giudice collegare e confrontare tra loro frasi e parole al fine di chiarirne il significato (Cass. lav. 17 febbraio 2010 n. 3685). Quindi, richiamata varia giurisprudenza di legittimità in tema di interpretazione dei contratti collettivi di lavoro, secondo parte ricorrente, tenuto conto dell’art. 3 del contratto collettivo funzionari 11 aprile 1991, circa le caratteristiche della categoria dei funzionari, non poteva che essere attribuito contenuto normativo al comma 1 della disposizione, nonchè contenuto obbligatorio al comma 2. Più precisamente, nella parte obbligatoria era prevista anche la clausola di rinvio alla contrattazione aziendale per accertare le qualifiche aziendali che, corrispondendo ai requisiti di cui al comma 1, conferiscono diritto all’inquadramento tra i funzionari, rinvio dunque vincolato al rispetto dei requisiti già stabiliti in sede di contrattazione nazionale. Inoltre, il comma 2 impiegava correttamente il verbo accertare, appunto per sottolineare che i requisiti sono stati già stabiliti e che alla contrattazione aziendale era lasciato soltanto il compito di individuare le qualifiche, che corrispondendo a detti requisiti davano diritto ad essere inquadrati tra i funzionari. Il rinvio alla contrattazione integrativa aziendale era indispensabile perchè soltanto a questo livello risultava possibile stabilire o accertare le qualifiche alle quali, essendo correlate mansioni aventi l’requisiti previsti in sede di c.c.n.l., spettava l’inquadramento nella categoria funzionari. Il contratto collettivo nazionale non rinviava al contratto integrativo il potere di stabilire se il datore di lavoro dovesse o meno attribuire le qualifiche ai funzionari, come erroneamente opinato dalla sentenza impugnata. Infatti, l’obbligo datoriale di far conoscere e quindi di attribuire le qualifiche ai lavoratori era già presente nell’ordinamento in base all’art. 96 disp. att. c.c., comma 1, norma non modificabile, nè derogabile da un contratto come quelle integrativo, in base alla quale l’imprenditore deve far conoscere al prestatore di lavoro al momento dell’assunzione la categoria e la qualifica assegnatagli in relazione alle mansioni per cui è stato assunto. In tale contesto andava, quindi, letto art. 2, comma 2, del contratto integrativo 5 aprile 1995 (nell’ambito della categoria funzionari possono essere attribuite le qualifiche di vicecapo di servizio direzione centrale…), che andrebbe quindi letta, secondo parte ricorrente, in forma diretta nei seguenti termini: le qualifiche di vicecapo di servizio direzione centrale, di direttore, vicedirettore e vice direttore aggiunto di dipendenza possono essere attribuite nell’ambito della categoria dei funzionari, in tal modo limitandosi a descrivere la principale caratteristica di alcune qualifiche, così come richiesto dal contratto collettivo nazionale. In sostanza, secondo il ricorrente, con il citato art. 2, comma 2 sono state accertate le qualifiche che hanno la caratteristica di poter essere attribuite ai funzionari. Ovviamente, il datore di lavoro nel momento in cui deve attribuire delle qualifiche ad alcuni funzionari può attribuire solo quelle che hanno le previste caratteristiche individuate dal contratto integrativo e che quindi possono essere attribuite a funzionari. Inoltre, il citato art. 2, comma 2 determina l’insieme delle qualifiche che possono essere attribuite ai funzionari, di modo che avendo il contratto collettivo nazionale con l’art. 3, comma 2, delegato esclusivamente alla contrattazione integrativa il compito di individuare le qualifiche da attribuire a funzionari, il datore di lavoro, poichè obbligato ad attribuire le qualifiche ai sensi del citato art. 96, può attribuire ai funzionari soltanto le qualifiche che, in quanto espressamente individuate dal contratto integrativo, possono essere loro attribuite;

con il secondo motivo è stata denunciata la violazione dell’art. 1362 c.c., dovendo aversi riguardo in prima battuta al criterio letterale, sicchè nella specie, visto che il soggetto del predicato verbale “possono essere attribuite” sono le qualifiche e non il datore di lavoro, era evidente, secondo parte ricorrente, la violazione del canone ermeneutico di cui all’art. 1362. Quindi, tenendo conto che il verbo potere non ha un solo significato, ma diversi, per interpretare correttamente la clausola contrattuale anzidetta occorre individuare il senso che si adatta meglio a questo contesto, per cui tra i diversi significati che può assumere il verbo potere, il predicato verbale “possono essere attribuite” nel contesto della clausola contrattuale di cui all’art. 2, comma 2 poteva assumere soltanto il senso di avere il permesso, l’autorizzazione dell’essere attribuite, e non quello viceversa assunto dal giudice di merito, donde la violazione della suddetta norma di legge;

infine, con il terzo motivo è stata denunciata la violazione dell’art. 2103 c.c., poichè alla luce delle anzidette doglianze sarebbe evidente che la sentenza impugnata era pervenuta al rigetto della domanda sulla base del ragionamento in contrasto con gli invocati principi ermeneutici, incorrendo in errori decisivi, giacchè essi sostengono il decisum della Corte d’Appello prospettando soltanto come possibile il diniego della qualifica di vicecapo servizio direzione centrale – cui corrisponde il grado I dei funzionari, reclamato dal M. – in quanto, secondo la Corte distrettuale, il datore di lavoro non avrebbe avuto l’obbligo di attribuirla ai funzionari che nei servizi della direzione centrale svolgevano tali mansioni. Il carattere decisivo dei denunciati errori ermeneutici consentiva di apprezzare la violazione dell’art. 2103 c.c. in cui era incorsa la decisione impugnata, la quale aveva finito con il negare il diritto al giusto inquadramento del lavoratore in relazione alle mansioni cui egli era stato adibito;

le anzidette doglianze, tra loro connesse, siccome tutte inerenti alla controversa interpretazione della contrattazione di riferimento e perciò esaminabili congiuntamente, appaiono infondate alla luce delle lineari e corrette argomentazioni di segno contrario con le quali la Corte di merito ha respinto le tesi in proposito sostenute dall’allora appellante;

invero, esaminato il contratto collettivo nazione di lavoro, in particolare l’art. 3 relativo alla categoria dei funzionari (1. Sono funzionari coloro che, investiti di specifiche mansioni… vengono inquadrati nella categoria superiore a quella dei quadri… 2. Nei contratti integrativi verranno accertate le qualifiche aziendali che corrispondendo ai requisiti sopra elencati, danno diritto all’inquadramento tra i funzionari. 3. Nei contratti integrativi per i funzionari potranno essere previsti più gradi. 4….), secondo la Corte distrettuale detta contrattazione delineava con ampia configurazione la categoria dei funzionari, qualificandola come categoria di lavoratori al vertice della scala aziendale in termini responsabilità, sottoposti soltanto alla dirigenza ed in grado di coordinare sia quadri che impiegati. Tuttavia, detta contrattazione non precisava figure intermedie, all’interno dei funzionari tutti, delegando alla contrattazione integrativa l’eventuale suddivisione in gradi, suddivisione non obbligatoria ma lasciata alla discrezionalità delle parti. Quindi, l’art. 2 della contrattazione integrativa in tema di gradi e qualifiche dei funzionari, nel richiamare l’art. 3 del contratto collettivo, stabiliva che: 1. A termini dell’art. 3 del c.c.n.l. l’organico dei funzionari si articola nei gradi 1, 2, 3 e 4. 2. Nell’ambito della categoria dei funzionari possono essere attribuite le qualifiche di Vice Capo Servizio di Direzione Centrale, di Direttore, Vice Direttore e Vice Direttore aggiunto di dipendenza. 3. I funzionari possono essere utilizzati, a giudizio della Società, nell’ambito della propria categoria, sia presso la Direzione centrale che presso le Dipendenze.). L’art. 3 del contratto integrativo, quindi, concernente i gradi minimi e la pianta organica, prevedeva che nei servizi della direzione centrale e nelle dipendenze della società venivano fissati seguenti i gradi minimi: servizi della direzione centrale – vicecapo… funzionario di primo grado. Pertanto, ad avviso della Corte distrettuale, dal tenore testuale delle anzidette clausole si evinceva: la suddivisione in 4 gradi dei funzionari, gradi cui non corrispondevano però specifiche mansioni, che non si riscontravano in alcuna norma, ma ai quali conseguivano soltanto diverse posizioni economiche, che giustificavano in astratto le richieste del M.; la possibilità di attribuire ai funzionari in generale le qualifiche indicate comportanti invece mansioni specifiche; infine, i gradi minimi per poter accedere alle suddette qualifiche, con ciò intendendosi necessariamente il grado minimo che doveva essere posseduto da ciascuna qualifica di funzionario (nella specie il vicecapo servizio della direzione centrale, che doveva essere almeno funzionario di primo grado). Per contro, la tesi interpretativa sostenuta dall’appellante – secondo il quale dalla lettura coordinata delle anzidette disposizioni si sarebbe dovuto evincere che tutti i funzionari addetti alla direzione centrale avrebbero dovuto possedere il primo grado, a prescindere dalla qualifica di vicecapo servizio- non era condivisibile, in primo luogo per il dato testuale delle clausole, ma anche in relazione alla regola di cui all’art. 1363 c.c.. Sebbene la previsione del contratto collettivo si completava con quella della contrattazione integrativa, era anche vero che mentre il c.c.n.l. delineava seppure con formula ampia la categoria dei funzionari, il contratto integrativo tuttavia non qualificava i gradi di funzionario con specifiche mansioni. Ne derivava necessariamente che vi era piena fungibilità nello svolgimento di mansioni per i funzionari di ogni grado. In sostanza, nella suddivisione in gradi non risultava applicabile l’art. 2103 c.c. e le mansioni di riferimento erano soltanto quelle generali del funzionario, per cui nell’assegnazione del grado il datore di lavoro era condizionato soltanto dagli ordinari criteri di correttezza e buona fede nell’esercizio della discrezionalità. Nè tale conclusione variava, per il significato dell’art. 3 (rectius: 2.2) del contratto integrativo aziendale, laddove assegnava ai funzionari determinate qualifiche, poichè la disposizione precisava che le qualifiche ivi elencate potevano essere attribuite ai funzionari, ma non ne imponeva l’assegnazione, nè le rapportava ai diversi gradi. L’art. 4 (rectius: 3) poi, nello stabilire i gradi minimi, significava il contrario di quanto propugnato dall’appellante, e cioè che il vicecapo servizio della direzione centrale doveva essere necessariamente funzionario di primo grado, ma non il contrario, ossia che l’essere adibito alla direzione centrale avrebbe comportato automaticamente il conferimento del grado primo. Pertanto, nemmeno risultava applicabile il concetto di equivalenza delle mansioni di tutti i funzionari addetti alla direzione centrale. Infatti, alla suddivisione in gradi non corrispondeva in nessuna parte della disciplina contrattuale quella in diverse mansioni. Dunque, la posizione paritaria del vicecapo servizio della direzione centrale, rispetto agli altri funzionari addetti alla sede centrale, andava valutata nell’ambito della stessa area, quella dei funzionari, ma non significava che tutti dovessero avere lo stesso grado. Nella configurazione contrattuale l’assegnazione dei gradi veniva lasciata alla discrezionalità del datore di lavoro, che aveva invece vincoli solo inversi laddove non poteva assegnare date qualifiche ai funzionari che non avessero già un determinato grado. A sostegno della decisione veniva altresì richiamato il principio affermato dal Tribunale di Milano il 18 aprile 1989, secondo cui il contratto collettivo per il personale direttivo delle aziende di credito contempla soltanto la qualifica di funzionario senza indicazione dei gradi. Pertanto, l’assenza nella predetta contrattazione collettiva della correlazione tra grado ed espletamento di particolari mansioni, rimessa alla discrezionalità del datore di lavoro, comporta che il dipendente non ha diritto, in base all’art. 2103 c.c., a pretendere il conferimento di un grado superiore per il solo fatto che abbia svolto mansioni normalmente attribuite al personale direttivo. Nè infine le anzidette conclusioni potevano essere diverse, previa ammissione delle prove orali chieste da parte attrice, atteso che l’accertamento delle mansioni in concreto svolte sia dall’appellante che dai suoi colleghi della direzione centrale era del tutto irrilevante in relazione alla domanda così come formulata;

va, quindi, in via preliminare rilevato il difetto di autosufficienza del ricorso de quo laddove omette di riprodurre o comunque di riportare compiutamente ex art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 l’atto introduttivo del giudizio, in data 22 maggio 2007, appena menzionato alle pagg. 2 e 3 dello stesso ricorso per cassazione, nella parte in cui si accenna in effetti unicamente alla sua pretesa di conseguire il grado 1 per il solo fatto di essere stato promosso funzionario di grado IV in data 4.10.1994, godendo quindi del corrispondente status adibito al servizio generale della Direzione Centrale della Banca CARIME, donde il preteso diritto ex artt. 2 e 3 del suddetto contratto integrativo alla qualifica di Vice Capo di Servizio e perciò anche al relativo grado, qualifica tuttavia mai formalmente riconosciutagli, sebbene richiesta, senza in alcun modo allegare lo svolgimento di effettive mansioni corrispondenti all’invocata qualifica, allegazione invece soltanto vagamente dedotta (a pagg. 11 / 12 del ricorso per cassazione, con riferimento al primo motivo) mediante pari generico richiamo all’ivi asserita puntuale descrizione contenuta nel ricorso introduttivo. D’altro canto, dal complesso delle varie doglianze mosse da parte ricorrente ben si comprende come in effetti l’impugnazione di cui si discute riguardi essenzialmente la sola contestata interpretazione della contrattazione collettiva, soprattutto quella aziendale, e non già gli accertamenti fattuali occorrenti ex art. 2103 c.c. da parte dei giudici di merito in tema inquadramento per il prolungato e prevalente svolgimento di mansioni superiori (v. del resto la pertinente finale osservazione sul punto a pag. 6 della sentenza d’appello circa l’assoluta irrilevanza della prova testimoniale articolata da parte del M. in ordine alle mansioni in concreto svolte);

tanto chiarito, l’anzidetta complessiva interpretazione della contrattazione collettiva, nazionale e integrativa, non risulta affetta da specifici ed evidenti errori ermeneutici in relazione ai criteri fissati dagli artt. 1362 e 1363 c.c., emergendo alquanto chiaramente che dalla prevista generale categoria dei funzionari (suddivisa nei quattro gradi) non derivava come necessaria conseguenza che tutti coloro che vi erano stati inquadrati e poi adibiti al servizio centrale avessero diritto alla qualifica di vicecapo (e quindi anche al grado minimo richiesto per detta qualifica, ossia il primo), mentre il grado minimo richiesto unicamente per detta qualifica, non comportava, automaticamente, che anche tutti gli altri funzionari assegnati allo stesso servizio avessero perciò solo diritto al pure al medesimo grado, per contro espressamente occorrente soltanto per la qualifica di vicecapo;

in ogni caso, per sottrarsi al sindacato di legittimità, non è necessario che quella data dal giudice sia l’unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, sicchè, quando di una clausola siano possibili due o più interpretazioni, non è consentito alla parte, che aveva proposto l’interpretazione disattesa dal giudice, dolersi in sede di legittimità del fatto che ne sia stata privilegiata un’altra (Cass. I civ. n. 4178 del 22/02/2007, in senso conforme, tra le altre, Cass. lav. n. 5890 del 22/01 – 13/03/2014), dovendosi altresì precisare, quanto alla contestata interpretazione del suddetto contratto aziendale, che in base alla formulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 (come modificato dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40), secondo cui è possibile la denuncia con ricorso per cassazione della violazione o falsa applicazione dei contratti collettivi, non è consentito a questa S.C. procedere ad una interpretazione diretta della clausola di un contratto collettivo integrativo, in quanto la suddetta nuova formulazione della norma riguarda esclusivamente i contratti collettivi nazionali di lavoro (Cass. lav. n. 27062 del 03/12/2013, in senso conforme v. anche Cass. n. 6748 del 2010 e n. 3681 del 17/02/2014);

peraltro, stando anche alla prospettazione in senso paritario, per come dedotta da parte ricorrente, la pretesa del grado superiore risulterebbe comunque infondata in base al principio di diritto al riguardo più volte affermato dalla giurisprudenza di legittimità (v. tra le altre Cass. lav. n. 1027 del 13/02/1980), secondo cui ove un contratto collettivo aziendale preveda una equivalenza di mansioni nell’ambito di una determinata categoria, nel senso che le stesse sono indifferentemente assegnate a prescindere dal grado che, nella stessa categoria riveste il prestatore di lavoro (cosiddetta mobilità verticale nella categoria), il lavoratore che sia inquadrato in tale categoria non ha diritto, a norma dell’art. 2103 c.c., al conferimento di un grado superiore per il fatto di essere stato adibito a mansioni normalmente assegnate a personale avente grado superiore, dal momento che se al grado non sono collegate specifiche mansioni, non è possibile da queste risalire a quello (in senso conforme Cass. lav. n. 5470 del 19/10/1981, n. 603 del 25/01/1984. Parimenti, Cass. lav. n. 6383 del 22/07/1987, che quindi nello specifico, alla stregua del principio suesposto, confermava l’impugnata sentenza, la quale aveva rigettato la domanda del dipendente bancario, volta ad ottenere la retrodatazione del conferimento del grado quinto in relazione allo svolgimento delle mansioni di capo del servizio esecutivo e contabile, in particolare rilevando che tali mansioni, ai sensi dell’ordinamento interno della banca, potevano essere svolte presso le filiali anche da un dipendente di grado sesto, quale, all’epoca dello svolgimento delle mansioni stesse, era il lavoratore istante. Idem Cass. lav. n. 876 – 1/2/1988, che nella specie, quindi, cassava la pronuncia del giudice del merito, il quale aveva riconosciuto la qualifica di Vice-direttore ad un dipendente con qualifica di funzionario di settimo grado, anche se l’ordinamento della banca prevedeva per entrambe le qualifiche, l’espletamento delle stesse mansioni.

Analogamente, Cass. lav. n. 4996 del 29/05/1990 ha affermato che qualora un accordo aziendale preveda un’equivalenza di mansioni nell’ambito di una categoria, nel senso che le medesime sono indifferentemente assegnate a prescindere dal grado che nella stessa categoria riveste il lavoratore – c.d. mobilità verticale – il prestatore di lavoro che sia inquadrato in tale categoria non ha diritto, a norma dell’art. 2103 c.c., al conferimento di un grado superiore, dal momento che dalle mansioni non è possibile risalire a tale grado, non essendo le mansioni stesse specifiche di questo.

Principio di diritto condiviso inoltre da Cass. lav. n. 570 del 30/01/1989, che l’effetto cassava la sentenza impugnata di riconoscimento al lavoratore l’inquadramento tra i funzionari di primo grado, sebbene il c.c.n.l. 6 febbraio 1975, per i funzionari di casse di risparmio e monti di credito su pegni, ed il contratto integrativo aziendale vigenti all’epoca del rapporto non specificassero le mansioni corrispondenti a ciascuno dei tre gradi della prevista categoria di funzionario.

Peraltro, va ancora ricordato quanto affermato da Cass. lav. n. 603/1984 cit., secondo cui nel nostro ordinamento non esiste un principio generale, di parità di trattamento nei rapporti di lavoro – almeno per quanto concerne il settore privato – non desumibile, in particolare, nè dall’art. 36 Cost., che fissa il criterio della proporzionalità ed adeguatezza della retribuzione con esclusivo riferimento al singolo rapporto – a prescindere, quindi, da ogni comparazione intersoggettiva – nè dall’art. 3 Cost., che stabilisce l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, e non anche nello ambito degli accordi privatistici – come i contratti collettivi di lavoro – costituenti in ogni caso atti di autonomia negoziale. Di conseguenza, non contrasta con alcun precetto costituzionale l’accordo aziendale che preveda uno sviluppo di carriera per gradi nell’ambito della categoria – nella specie ivi esaminata degli impiegati – senza distinzione, se non in via del tutto eccezionale, di tali gradi per livelli di mansioni. Conforme Sez. L, Sentenza n. 4078 del 27/04/1987. V. anche Cass. sez. un. civ. n. 17079 del 08/08/2011, che, in tema di incentivi per l’esodo anticipato dal lavoro, con riferimento ai compensi previsti circa la diversità di disciplina fiscale correlata all’età del lavoratore al momento dell’esodo, escludeva un contrasto con l’art. 3 Cost., atteso che, nell’ambito dei rapporti di lavoro di diritto privato, la disciplina contrattuale non è vincolata dal principio di parità di trattamento. V. ancora Cass. lav. n. 16262 del 19/08/2004: nel rapporto di lavoro privato non esiste un diritto soggettivo del lavoratore subordinato alla parità di trattamento, nè è possibile sottoporre a sindacato di ragionevolezza le disposizioni di accordi collettivi non in contrasto con gli specifici precetti antidiscriminatori. Cfr. altresì Cass. sez. un. civ. n. 4570 del 17/05/1996, secondo cui non esiste un diritto soggettivo del lavoratore subordinato alla parità di trattamento, essendo, al contrario, legislativamente prevista come possibile una situazione di disparità di trattamento dall’art. 2077 c.c., comma 2, nè è ravvisabile l’insorgenza di un danno risarcibile, poichè questo, postulando la lesione di un diritto, non è configurabile laddove esso non sussiste. Nemmeno il diritto può derivare dalla violazione del criterio di ragionevolezza, atteso che le clausole generali di correttezza e buona fede, le quali costituiscono il tramite per un controllo di ragionevolezza sugli atti di autonomia negoziale, possono operare solo all’interno del rapporto e non possono essere quindi utilizzate in relazione a comportamenti esterni, e cioè adottati dal datore di lavoro nell’ambito di rapporti di lavoro diversi. Infine, non è configurabile alcun comportamento discriminatorio del datore di lavoro qualora esso, pur determinando una disparità di trattamento fra i lavoratori, costituisca corretto adempimento di una norma collettiva, che, in forza dell’art. 2077 c.c., comma 2, sia entrata a far parte del rapporto individuale di lavoro dei soggetti beneficiati e che, in quanto atto di esercizio dell’autonomia collettiva, si sottrae ad ogni potere correttivo in sede di controllo giudiziario);

pertanto, il ricorso va rigettato con conseguente condanna della parte soccombente al rimborso delle relative spese;

atteso, infine, l’esito interamente negativo dell’impugnazione qui proposta, sussistono i presupposti di legge per il versamento dell’ulteriore contributo unificato.

PQM

la Corte RIGETTA il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle relative spese, che liquida a favore della parte controricorrente in complessivi Euro =4000,00= per compensi professionali ed in Euro =200,00=, per esborsi, oltre spese generali al 15%, i.v.a. e c.p.a. come per legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, del comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 16 ottobre 2019.

Depositato in Cancelleria il 23 luglio 2020

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