Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 1580 del 23/01/2018


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Cassazione civile, sez. III, 23/01/2018, (ud. 01/12/2017, dep.23/01/2018),  n. 1580

Fatto

I FATTI

La vicenda che ha dato origine al presente giudizio è la seguente: a seguito di un incidente aereo verificatosi nel (OMISSIS) sul (OMISSIS), persero la vita 38 cadetti, l’ufficiale accompagnatore e i membri dell’equipaggio.

Alcuni familiari ed eredi delle vittime, tra i quali i signori L.M.A., M.R.L. e V.C., odierni controricorrenti, agirono in giudizio nei confronti del Ministero della Difesa per il risarcimento del danno, dando mandato all’avv. J.A..

Il Tribunale di Roma, con sentenza del 1995, respinse la domanda.

A fronte del rigetto, alcuni dei familiari delle vittime, tra i quali i sopra menzionati controricorrenti, diedero incarico all’avv. J. di proporre appello.

L’avv. J. (senza essere a ciò autorizzato dai suoi officiati) diede a sua volta mandato ad litem per l’appello all’avv. C.C. il quale provvide a redigere l’atto di appello. La corte d’appello nel 2000 emise una pronuncia di condanna generica del Ministero della Difesa in favore degli istanti “indicati in epigrafe”, tra i quali non comparivano i nominativi degli odierni contro ricorrenti (i cui nominativi per errore non erano stati indicati nell’atto di appello).

Dopo aver riportato la condanna generica, nel 2002 il Ministero offriva alle famiglie delle vittime di por termine alla lite concludendo una transazione: alla proposta aderivano, tra gli altri, gli odierni controricorrenti, i quali si vedevano però rifiutare dal Ministero la conclusione della transazione perchè i loro nomi non risultavano indicati tra i beneficiari della condanna contenuta nella sentenza di appello. La sentenza di appello non veniva impugnata.

Nel 2005, L.M.A., M.R.L. e V.C. convenivano in giudizio dinanzi al Tribunale di Roma gli avvii J.A. e C.C. affinchè ne venisse accertata la responsabilità professionale per aver omesso di indicare i loro nominativi nell’atto introduttivo del giudizio conclusosi con la sentenza di condanna generica nei confronti del Ministero della Difesa, facendo perder loro il diritto al risarcimento del danno per la morte dei congiunti, e la successiva possibilità di concludere la transazione col Ministero soccombente.

L’avv. C. chiamava in causa la Milano Ass.ni.

Il Tribunale di Roma, nel 2007, all’esito del giudizio di primo grado, accertava e dichiarava la responsabilità del solo avv. J. che condannava al risarcimento dei danni, mentre rigettava la domanda nei confronti dell’avv. C..

La Corte d’Appello di Roma, con la sentenza del 2013 qui impugnata, in accoglimento dell’appello, confermava la condanna dell’avv. J. e anche condannava l’avv. C., in solido con l’avv. J., a pagare tutte le somme liquidate in favore degli eredi dei cadetti defunti da parte del tribunale sul presupposto dell’esistenza di un rapporto professionale con entrambi gli avvocati (e quindi di una responsabilità professionale anche dell’avv. C.); dichiarava altresì la Milano Ass.ni tenuta a manlevare l’avv. C..

In particolare, in primo grado, il tribunale ha ritenuto responsabile professionalmente il solo avv. J., al quale i parenti delle vittime avevano rilasciato procura a proporre appello, mentre la corte d’appello ha ritenuto responsabile per inadempimento professionale e per i danni che ne sono derivati anche l’avv. C., che non aveva avuto alcun rapporto preliminare con i parenti delle vittime: a lui si era rivolto direttamente (senza alcuna autorizzazione da parte dei suoi clienti) l’avv. J., incaricandolo di proporre l’appello (sostanzialmente, incaricando l’avv. C. di sostituirlo nell’attività professionale che era stato incaricato di compiere dai suoi clienti, attuali controricorrenti). Successivamente, poichè il giudizio di appello aveva avuto prima facie esito positivo, (prima che emergesse l’omessa indicazione dei nomi dei controricorrenti nella sentenza di appello) lo stesso avv. C. aveva scritto ai parenti delle vittime, comunicando che la loro domanda era stata accolta e chiedendo la liquidazione del compenso professionale in suo favore per il lavoro svolto nel giudizio di appello.

La corte d’appello, nell’estendere la responsabilità professionale anche al secondo avvocato, distingue tra contratto d’opera professionale e procura, puntualizzando che il contratto d’opera è un contratto consensuale, mentre la procura è la mera esternazione del rapporto di rappresentanza processuale e non è elemento costitutivo di esso, e che il rapporto professionale può perfezionarsi anche in mancanza del rilascio di una procura alle liti. Ricava la prova dell’esistenza del rapporto professionale da alcune iniziative intraprese dal C., in particolare dalle lettere da questi inviate ai parenti delle vittime dopo la conclusione del giudizio di appello, con cui comunica l’esito e chiede il saldo e anche da una comunicazione al Ministero della Difesa tratta dal successivo giudizio revocatorio intrapreso evidentemente dagli avvocati avverso la sentenza di appello per risolvere il pregiudizio derivante ai clienti dalla mancata indicazione dei loro nomi nella sentenza tra i beneficiari della condanna nei confronti del Ministero.

La Milano Ass.ni s.p.a. ha proposto ricorso per cassazione articolato in quattro motivi e illustrato da memorie nei confronti di L.M.A., M.R.L. e V.C., dell’avv. C. e dell’avv. J., per la cassazione della sentenza n. 2448 del 2013 depositata dalla Corte d’Appello di Roma in data 30 aprile 2013.

L’avv. C. resiste con controricorso.

Con distinto controricorso illustrato da memoria resistono i signori L., M. e V..

La società ricorrente (che nel frattempo ha cambiato denominazione sociale in Unipolsai Ass.ni s.p.a.), poichè la notifica del ricorso originariamente eseguita nei confronti dell’avv. J. è risultata negativa (risultando lo stesso trasferito), in data 23.2.2016 ha provveduto a notificare ricorso in rinnovazione all’avv. J. al suo domicilio attuale, con notifica andata a buon fine ed atto depositato in cancelleria in data 7.3.2016.

La causa, chiamata una prima volta all’udienza pubblica del maggio 2016, non essendo ancora scaduti i termini per il deposito dell’eventuale controricorso da parte dell’avv. J., è stata rinviata a nuovo ruolo, per consentire all’avv. J. di svolgere attività difensive, ed è stata rinviata e discussa all’udienza del 1 dicembre 2017.

L’avv. J. non ha svolto attività difensive in questa sede.

Diritto

LE RAGIONI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo, la ricorrente compagnia di assicurazioni denuncia l’omessa pronuncia su una questione pregiudiziale, in relazione all’art. 112 c.p.c. e all’art. 360 c.p.c., n. 4, lamentando che la corte d’appello non si sia pronunciata su varie eccezioni sollevate dalla Milano Ass.ni, in particolare sulla eccezione di carenza di interesse ad impugnare e di mancata indicazione di specifici motivi di appello.

Il motivo è infondato.

Dal percorso motivazionale della sentenza impugnata si ricava con chiarezza l’implicito rigetto delle eccezioni della ricorrente, volte a far dichiarare l’inammissibilità dell’appello proposto dalla controparte: la corte d’appello infatti non soltanto ha ritenuto che gli appellanti avessero interesse ad impugnare ma ha accolto il loro appello, volto a far accertare la responsabilità professionale anche dell’avv. C., pur in assenza di una formale procura alle liti rilasciata in suo favore, sulla base dell’implicita considerazione -quanto alla sussistenza dell’interesse ad agire – della diversa e più favorevole affermazione consistente nella individuazione di due diversi soggetti, corresponsabili di uno stesso evento dannoso, uno dei quali per di più (proprio quello ritenuto esente da responsabilità in primo grado) supportato da una assicurazione professionale. Nel far ciò, non ha avuto difficoltà ad individuare la questione sottoposta al suo esame dagli appellanti principali, avente ad oggetto la sussistenza di un contratto d’opera professionale tra essi e l’avv. C. pur in mancanza del rilascio in favore di questi di una formale procura alle liti.

Con il secondo motivo, la ricorrente denuncia la violazione dell’art. 112 c.p.c., nonchè la violazione e falsa applicazione degli artt. 1321, 1325 e 1326 cp.c. nonchè art. 2697 c.c. e l’erronea motivazione circa un punto decisivo della controversia, ex art. 360 c.p.c., n. 5.

Sostiene la ricorrente che dalla stessa ricostruzione dei fatti offerta dai congiunti delle vittime e contenuta nel loro atto di appello nella causa di risarcimento danni per responsabilità professionale emerge con chiarezza che essi non hanno mai avuto nessun rapporto professionale con l’avv. C.: sono gli stessi controricorrenti ad affermare di aver incaricato solo l’avv. J., che questi senza alcuna loro autorizzazione incaricò il C. di occuparsi dell’appello, che l’atto di appello fu redatto dal solo C. il quale omise l’indicazione dei nominativi dei mandatari nell’atto di appello (da cui l’affermazione della sentenza che condanna il Ministero in favore dei nominati indicati in epigrafe tra i quali non compaiono L., M. e V.).

La ricorrente ritiene che la corte d’appello sarebbe incorsa in ultrapetizione, avendo esorbitato dai limiti della domanda, non avendo mai i danneggiati affermato di aver conferito mandato professionale all’avv. C., sia in violazione di legge (in riferimento agli articoli sulla conclusione del contratto e sull’onere della prova).

La compagnia di assicurazioni afferma, richiamando la motivazione di primo grado, ad essa favorevole in quanto circoscriveva la responsabilità professionale al solo avv. J., che è ben vero che l’avv. J. ha violato l’incarico fiduciario nei confronti dei suoi clienti, delegando ad altri il compimento dell’attività professionale che era stato incaricato di compiere personalmente, e che essendo l’avv. J. soltanto il rappresentante processuale dei danneggiati, e non anche il loro rappresentante sostanziale, non aveva il potere di nominare nuovi procuratori, tanto meno in sua vece, e quindi che l’avv. J. ha conferito l’incarico all’avv. C. a solo titolo personale, in carenza di poteri idonei ad impegnare nel conferimento di incarico anche i suoi rappresentati.

Esclude quindi che la sostituzione nel mandato professionale illegittimamente operata dall’avv. J. possa produrre l’efficacia di far sorgere un rapporto diretto tra l’avv. C. e i rappresentati dall’avv. J., e quindi che da ciò possa sorgere una responsabilità del C. verso i clienti, e in conseguenza una obbligazione di manleva della sua assicurazione per la responsabilità professionale.

Il motivo è infondato, nei termini di cui in motivazione.

Non è oggetto di contestazione neppure in fatto che i danneggiati abbiano dato l’incarico solo al primo avvocato, J., che non lo abbiano autorizzato a nominare sostituti o altri procuratori, che questi senza alcuna autorizzazione da parte loro abbia incaricato il collega di redigere l’atto di appello, e che i danneggiati abbiano in effetti appreso dell’attività svolta dall’avv. C. in loro favore in appello solo ad intervenuta conclusione del giudizio di appello, quando l’esito della causa sembrava favorevole anche riguardo ai L., V. e M., tanto che l’avv. C. aveva comunicato loro l’esito positivo del giudizio di appello congratulandosi e chiedendo il corrispettivo per la prestazione professionale svolta.

La procura è un atto unilaterale contenente un conferimento di poteri, emanato “intuitu personae”. Pertanto, il rappresentante processuale non può sostituire altri a sè nell’esecuzione dell’incarico ricevuto, a meno che tale facoltà non gli sia stata espressamente conferita; ne consegue che la legittimazione del sostituto del mandatario o del procuratore a compiere atti efficaci nella sfera giuridica del “dominus” richiede necessariamente un’esplicita autorizzazione da parte di quest’ultimo senza che a diversa conclusione possa giungersi in base al disposto dell’art. 1717 c.c., il quale si limita a regolare la responsabilità del mandatario per aver sostituito altri a sè senza esserne autorizzato (v. Cass. n. 15412 del 2010). Diversamente, qualora la procura alle liti conferisca al difensore il potere di nominare altro difensore, deve ritenersi che essa contenga un autonomo mandato “ad negotia” – non vietato dalla legge professionale nè dal codice di rito -, che abilita il difensore a nominare altri difensori, i quali non sono semplici sostituti del legale che li ha nominati, bensì, al pari di questo, rappresentanti processuali della parte (Cass. n. 1756 del 2012).

Calando questi principi nell’esame della fattispecie concreta, da un canto l’illiceità della condotta dell’avv. J., nel sostituire a sè un altro professionista in difetto di autorizzazione, è stata accertata, sanzionata e non è più in discussione.

Dall’altro, la procura non gli consentiva di sostituire altri a sè, non essendo stata espressamente prevista e conferita tale facoltà. Il conferimento di procura a terzi in difetto di poteri di per sè non poteva spiegare diretta efficacia nella sfera giuridica dei suoi clienti. Il fatto che, avendo egli agito in difetto di poteri, il conferimento di incarico da parte dell’avv. J. nei confronti dell’avv. C. non fosse idoneo di per sè a spiegare efficacia nella sfera giuridica dei suoi rappresentati e a conferire all’avv. C. il sopra indicato potere di agire come diretto rappresentante processuale della parte, non fa però venir meno la legittimità dell’affermazione della corresponsabilità dell’avv. C., per il suo operato, nei confronti dei clienti dell’avv. J., che egli, con il suo negligente operato professionale, ha pregiudicato, e, di seguito, l’operatività dell’obbligo di manleva della sua compagnia di assicurazioni.

Nel caso di specie, la corte d’appello ha valutato le circostanze di fatto e reputato che sia la condotta tenuta dall’avv. C. verso i clienti (consistente sia nel notiziarli dell’esito positivo del giudizio di appello, sia nell’aver inviato loro la parcella) sia la condotta degli stessi, attuali controricorrenti, che a loro volta hanno nei fatti iniziato ad intrattenere un dialogo professionale con l’avv. C. dopo il termine dell’appello, stiano a significare che un rapporto contrattuale diretto si sia instaurato.

Tuttavia, si ritiene che si debba giungere alla stessa soluzione propugnata dalla corte d’appello, nel senso della corresponsabilità dell’avv. C., e della condanna in manleva in suo favore della società di assicurazione professionale di questi, per un diverso ordine di considerazioni, senza dover evocare la figura del contatto sociale.

Il contratto d’opera professionale è rapportabile alla più ampia categoria del contratto di mandato, perchè instaura con il cliente un rapporto gestorio, relativo, se il professionista come nel nostro caso è un avvocato, a gestire professionalmente la posizione della parte in relazione ad una determinata questione giuridica, sia essa connessa con una attuale o futura controversia o meno.

Nella ricostruzione prevalente, il mandato, pur essendo un contratto caratterizzato dall’elemento della fiducia, non è tuttavia basato necessariamente sull'”intuitus personae”, per cui al mandatario non è vietato di per sè avvalersi dell’opera di un sostituto, a meno che il divieto non sia stato espressamente stabilito oppure si tratti di attività rientrante nei limiti di un incarico fiduciario affidato “intuitu personae” (Cass. n. 18512 del 2006), tant’è che l’art. 1717 c.c. disciplina le ipotesi di sostituzione del mandatario allo scopo di delimitarne l’ambito di legittimità e di definire le responsabilità.

Deve però ritenersi che il mandato professionale (sia che il professionista scelto sia, come nella specie, un avvocato, o anche qualora sia un professionista appartenente ad una diversa categoria professionale, quale un medico, o un architetto) sia invece caratterizzato esso stesso dall’intuitus personae, in quanto è un contratto il cui oggetto è la prestazione professionale di quella determinata persona che il cliente individua in ragione della particolare competenza e quindi della fiducia che in essa ripone, determinandosi a svolgere, tramite il professionista, una determinata attività nella quale non si impegnerebbe in mancanza di una persona di fiducia alla cui professionalità appoggiarsi. Quindi, di per sè (a prescindere dalla problematica connessa all’esistenza o meno di una procura con poteri di sostituzione), il mandato allo svolgimento di un incarico professionale non ammette sostituzioni che non siano autorizzate.

Il comportamento dell’avvocato che, senza essere stato incaricato dal cliente, ma su incarico del difensore del cliente si ingerisca nella difesa compiendo direttamente atti difensivi, rientra di conseguenza nella prima delle tre ipotesi di sostituzione del mandatario disciplinate dall’art. 1717 c.c. (sostituzione non autorizzata e non necessaria per la natura dell’incarico), dovendosi ricondurre il contratto d’opera professionale alla più ampia categoria del rapporto di mandato.

L’art. 1717 c.c., comma 3 distinguono tre ipotesi di sostituzione (mandato non autorizzato o non necessario, mandato senza indicazione della persona del sostituito e mandato autorizzato in cui il mandatario risponde solo per le errate istruzioni), quanto alla responsabilità che il mandatario può assumere verso il mandante.

Quello che preme mettere in rilievo, però, in riferimento a tutte e tre le ipotesi, è che l’art. 1717 c.c., comma 4 e u.c. prevede la possibilità per il mandante di agire direttamente contro la persona del sostituto, per far valere le sue pretese rimaste insoddisfatte o lese dal comportamento dell’illegittimo sostituto.

Quindi, nella ipotesi in esame, a fronte dell’illecita attività dell’avvocato che, in sostituzione dell’unico avvocato incaricato dai clienti e senza l’autorizzazione dei clienti si sostituisca all’avvocato di fiducia compiendo attività processuali non autorizzate con esito pregiudizievole per i clienti stessi, i clienti possono agire direttamente nei confronti del sostituto per farne accertare la responsabilità. E’ una azione diretta che trae la sua fonte dall’esercizio di un’attività direttamente pregiudizievole nella sfera dei clienti altrui da parte dell’avvocato non autorizzato, ed è un’azione diretta che consente ai clienti di far valere una responsabilità contrattuale del professionista, volta, nel caso in esame, al risarcimento dei danni.

Dalla affermazione di responsabilità del professionista verso i danneggiati, perseguibile dai danneggiati con l’azione diretta, discende l’obbligo della sua assicurazione professionale di tenerlo indenne dalle conseguenze dannose provocate a terzi dallo svolgimento dell’attività professionale stessa.

L’assicurazione professionale infatti risponde per ogni danno provocato dal professionista nell’esercizio della sua attività professionale, e qui siamo di fronte ad un danno certo ed è altrettanto certo che sia stato causato dall’attività professionale svolta, anche se senza incarico, in favore dei parenti delle vittime.

Con il terzo motivo, la Milano Ass.ni lamenta l’omessa pronuncia su una questione di merito, in relazione all’art. 112 c.p.c. e art. 360 c.p.c., n. 4 in quanto la Corte d’Appello non avrebbe preso in considerazione l’esistenza di una previsione di legge che consentirebbe agli aventi causa da ciascuna delle vittime della sciagura del (OMISSIS) che non hanno potuto percepire somme a titolo di risarcimento del danno, di chiedere un indennizzo (L. n. 228 del 2012, comma 258). Sostiene che la questione, sulla quale il giudice di appello non si è pronunciato, sarebbe stata sollevata in appello dall’avv. J. all’interno del passaggio di un atto non riportato nel suo contenuto, nè si indica se tale atto sia stato prodotto in questa sede. Nel merito, la ricorrente sostiene che, ove la corte d’appello avesse tenuto conto della normativa sopravvenuta, avrebbe dovuto operare la compensatio lucri cum damno tra il danno risarcibile e l’importo che i danneggiati avrebbero potuto percepire a titolo di indennizzo.

Il motivo è inammissibile.

La ricorrente, in violazione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, non riporta con precisione il passo dell’atto di parte con il quale la questione – senz’altro sopravvenuta rispetto alla introduzione della domanda in primo grado – è stata introdotta in causa nè precisa se l’atto sia stato nuovamente prodotto in questa sede. In mancanza di tali indicazioni, non mette la Corte in condizione di valutare se il fatto stesso della mera possibilità dell’indennizzo sia stato introdotto in causa, da chi, in che termini, e se la corte d’appello, chiamata a pronunciarsi sulla compensatio, abbia omesso la pronuncia.

Infine, con il quarto motivo la ricorrente denuncia la violazione, l’errata interpretazione e la falsa applicazione dell’art. 1917 c.c., nonchè l’insufficiente e carente motivazione circa la domanda di garanzia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5.

In particolare, con questo motivo la ricorrente denuncia che la corte d’appello avrebbe condannato la compagnia a manlevare l’avv. C. di quanto questi fosse stato condannato a pagare in virtù della sentenza, senza considerare le condizioni di polizza, dalle quale emergevano alcune limitazioni: il limite del massimale, la previsione di una franchigia che sarebbe dovuta rimanere a carico dell’assicurato, l’esclusione di ogni responsabilità derivante da vincolo solidale.

Il motivo è inammissibile, per diverse, concorrenti ragioni.

In primo luogo, trattasi di questione nuova, che non risulta sia mai stata introdotta nei precedenti gradi di merito. Non sono riportati nè richiamati passi degli atti di parte contenenti il richiamo a queste clausole contrattuali, nè tanto meno è stato adeguatamente indicato quando questi documenti furono depositati in primo grado e che numerazione abbiano assunto tra i documenti depositati dalla Milano Ass.ni, nè è chiarito che essi siano stati nuovamente prodotti in questa sede.

A ciò si aggiunga l’esistenza di ulteriori profili di inammissibilità: le limitazioni di responsabilità in favore dell’assicuratore, derivanti da clausole contrattuali, non sono riportate nel loro esatto contenuto.

Inoltre, la Corte non può intervenire sindacando direttamente l’interpretazione del contratto di assicurazione data dalla corte d’appello; potrebbe essere legittimamente chiamata a verificare esclusivamente il rispetto dei canoni interpretativi fissati dalla legge. La novità della questione preclude anche il controllo sulla completezza della motivazione sul punto.

Il ricorso va complessivamente rigettato.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come al dispositivo, in favore della parte controricorrente costituita dai signori L., M. e V..

Le spese del presente grado possono invece essere compensate nei rapporti tra Unipolsai s.p.a., ricorrente, e C.C., in considerazione della prevalente adesione dell’avv. C. alla posizione della Unipol (le posizioni convergono per tre motivi su quattro).

Il ricorso per cassazione è stato proposto in tempo posteriore al 30 gennaio 2013, e la parte ricorrente risulta soccombente, pertanto è gravata dall’obbligo di versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater.

PQM

La Corte rigetta il ricorso. Pone a carico della ricorrente le spese di giudizio sostenute da L.A., M.R.L. e V.C., che liquida in complessivi Euro 10.200,00 oltre 200,00 per esborsi, oltre contributo spese generali ed accessori. Compensa le spese tra la parte ricorrente e l’avv. C.C..

Dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della corte di cassazione, il 1 dicembre 2017.

Depositato in Cancelleria il 23 gennaio 2018

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