Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 15794 del 07/06/2021

Cassazione civile sez. lav., 07/06/2021, (ud. 10/02/2021, dep. 07/06/2021), n.15794

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRIA Lucia – Presidente –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –

Dott. MAROTTA Caterina – Consigliere –

Dott. SPENA Francesca – Consigliere –

Dott. BELLE’ Roberto – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 28200/2015 proposto da:

C.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA RIPETTA n.

142, presso lo studio dell’avvocato BRUNO POGGIO, rappresentato e

difeso dall’avvocato FRANCESCO ANTONIO POLIMENI;

– ricorrente –

contro

REGIONE CALABRIA, in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA MATTEO BOIARDO N. 12, presso

lo studio dell’avvocato GIUSEPPE MORABITO, rappresentata e difesa

dall’avvocato FERDINANDO MAZZACUVA;

– controricorrente –

e contro

AZIENDA SANITARIA PROVINCIALE n. (OMISSIS) DELLA PROVINCIA DI REGGIO

CALABRIA;

– intimata –

avverso la sentenza n. 1354/2014 della CORTE D’APPELLO di REGGIO

CALABRIA, depositata il 29/05/2015 R.G.N. 388/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

10/02/2021 dal Consigliere Dott. ROBERTO BELLE’;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

GIACALONE Giovanni, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato NATALE POLIMENI, per delega verbale Avvocato

FRANCESCO ANTONIO POLIMENI.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. La Corte d’Appello di Reggio Calabria ha rigettato il gravame proposto da C.G. avverso la sentenza del Tribunale della stessa città che aveva disatteso la sua domanda nei confronti della locale Azienda Sanitaria Provinciale n. (OMISSIS) di Reggio Calabria (di seguito, Asp), finalizzata all’accertamento dell’inesistenza della propria incompatibilità all’esercizio di attività di convenzionamento interno ambulatoriale, rispetto alla qualità di socio di una struttura accreditata sanitaria esterna, per insussistenza dei presupposti di tale incompatibilità.

La Corte d’Appello riteneva che non occorresse soffermarsi sulla questione in ordine alla novità o meno della domanda di impugnativa delle dimissioni per violenza morale, solo in grado di appello esplicitamente basata anche su tale vizio del consenso, in quanto la menzionata violenza comunque non poteva essere ravvisata.

La Asp – sottolineava la Corte territoriale – aveva infatti soltanto ventilato la possibilità di far valere un diritto e non aveva perseguito un vantaggio ingiusto, senza contare che non era stata prospettata un’azione di forza, ma era stato avviato un procedimento di cessazione dell’accreditamento, nel quale sarebbe stato necessariamente coinvolto l’Istituto di cui il ricorrente era socio, così da poter far valere le proprie ragioni, poi riproponibili, in caso di esito sfavorevole, anche in sede giudiziale.

L’insussistenza dell’incompatibilità escludeva poi in radice, secondo la Corte di merito, l’ingiustizia del danno.

A tale proposito, la Corte d’Appello rilevava come la posizione del C., in quanto destinatario dell’incarico di convenzione ambulatoriale a partire dal 1989, non potesse giovarsi della salvaguardia stabilita dalla norma finale n. 2 dell’ACN del 2005 con riferimento alle situazioni consolidatesi nella vigenza del D.P.R. n. 291 del 1987, perchè già era vigente il più restrittivo D.P.R. n. 119 del 1988.

2. Giova; i C. ha proposto ricorso per cassazione con due motivi, poi illustrati da memoria e resistiti da controricorso della Asp.

Diritto

CONSIDERATO

Che:

1. Con il primo motivo il ricorrente deduce, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione di norme di diritto e accordi collettivi nazionali di lavoro (D.P.R. n. 291 del 1987, artt. 1, 3, 4, D.P.R. n. 119 del 1988, artt. 1 e 2, D.P.R. n. 120 del 1988, art. 1, D.P.R. n. 316 del 1990, artt. 1 e 2 e art. 15 A.C.N. 23.03.2005).

Egli sostiene che la Corte d’Appello avrebbe erroneamente interpretato la normativa in materia di rapporti con professionisti convenzionati, per quel che attiene agli accordi relativi all’erogazione delle prestazioni specialistiche sanitarie negli studi privati dei professionisti (D.P.R. n. 119 del 1988) e i diversi accordi che disciplinano i rapporti convenzionali in materia di prestazioni di diagnostica strumentale e di laboratorio (D.P.R. n. 120 del 1988).

Il C. sostiene infatti che la sua compatibilità trovasse fondamento nel fatto che, quando aveva iniziato a prestare servizio anche come medico ambulatoriale, era in vigore il D.P.R. n. 291 del 1987, che all’art. 4, comma 3, consentiva l’esercizio di entrambe le attività (seppur con certi limiti orari). A suo dire, la suddetta previsione sarebbe poi stata mantenuta dal successivo D.P.R. n. 119 del 1988, nonostante quest’ultimo avesse introdotto una disciplina più rigida in materia di cumulo di attività professionali, sicchè la sua posizione rientrava perfettamente tra le situazioni legittimamente acquisite ai sensi del D.P.R. n. 291 del 1987, art. 4, comma 3, punti 1 e 2.

Con il secondo motivo il ricorrente censura, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione dell’art. 1434 c.c. e segg., qualificando come error in judicando il non aver la Corte territoriale ravvisato un vizio del consenso, nella fattispecie della violenza morale esercitata dall’Asp e dalla Regione nei suoi confronti, per ottenere le dimissioni, a fronte del paventato rischio di perdere l’accreditamento al Servizio Sanitario Regionale per l’Istituto privato di cui era socio.

Più in particolare, il lavoratore fonda le sue censure sull’assunto che il giudice dell’appello non avrebbe considerato che la violenza morale esercitabile dal datore – e tale da indurre il lavoratore a dimettersi – poteva esprimersi con modalità variabili anche non esplicite, richiamando giurisprudenza di questa Corte in proposito.

2. L’eccezione di inammissibilità sollevata dalla Regione Calabria nel controricorso è fondata ed assorbente, nei termini che seguono.

La Regione ha richiamato la sentenza del Tribunale che, secondo quanto concordemente riportano entrambe le parti, ha ritenuto la “mancanza di un’idonea impugnazione delle dimissioni” e comunque la “mancanza di idonea indicazione dei presupposti a base dell’impugnazione”, per concluderne che l’azione di accertamento della compatibilità tra l’incarico convenzionato “interno” e la veste di socio di una società accreditata “esterna” fosse priva di interesse, in quanto di per sè sola inidonea ad arrecare al ricorrente “alcun risultato pratico utile e concreto”, così determinandosi inammissibilità della domanda ai sensi dell’art. 100 c.p.c..

2.1 In proposito, il ragionamento secondo cui il solo accertamento della compatibilità tra le due posizioni non potrebbe portare alla domandata reintegra, è in sè inattaccabile, perchè, essendovi state le dimissioni, se anche quella compatibilità dovesse essere riconosciuta, il rapporto non potrebbe per ciò solo essere ripristinato.

Si deve poi considerare come costituisca acquisizione consolidata presso questa Corte, quella per cui la concretezza ed attualità dell’interesse che deve sottostare alla proposizione della domanda, oltre che – si può qui aggiungere una palese esigenza di evitare il frazionamento di un’unica reale pretesa attraverso più giudizi, in spregio al principio di ragionevole durata del processo, rende “non… proponibili azioni autonome di mero accertamento di fatti giuridicamente rilevanti che costituiscano solo elementi frazionari della fattispecie costitutiva di un diritto, il quale può costituire oggetto di accertamento giudiziario solo nella sua interezza” (Cass. 4 maggio 2012, n. 6749 e, in precedenza, Cass. 27 gennaio 2011, n. 2051 e Cass., S.U., 20 dicembre 2006, n. 27187 e, successivamente, Cass. 24 gennaio 2019, n. 2057).

La conseguenza è che l’interesse ad agire, così declinato, in tanto potrebbe essere riconosciuto, in quanto fosse stata ab origine introdotta domanda di annullamento delle dimissioni, perchè una domanda di accertamento della sussistenza della menzionata compatibilità, anche se in ipotesi destinata a costituire elemento di ricostruzione della fattispecie della violenza morale, quale potrebbe derivare ex art. 1438 c.c., dalla prospettazione dell’esercizio di un diritto inesistente, non potrebbe essere introdotta autonomamente in vista soltanto di una futura azione destinata a perseguire il concreto e reale interesse per cui si addiviene a processo.

2.2 Ciò posto, il giudice di prime cure, come detto, ha deciso espressamente nel senso dell’insussistenza di un tale interesse, per carenza di un’impugnativa delle dimissioni o per carenza di indicazione dei presupposti a base di tale impugnativa.

La Corte territoriale ha invece aggirato tale aspetto, affermando che non occorresse “soffermarsi sulla questione della novità o meno di una domanda che solo in questo grado è stata esplicitamente basata anche sulla violenza morale” e preferendo quindi statuire sulla (ritenuta) insussistenza del fondamento di merito di una tale pretesa.

La verifica sull’interesse ad agire, in quanto attinente ad un presupposto processuale, va tuttavia svolta anche in sede di legittimità e sul punto si diffonde appunto la prima delle eccezioni di inammissibilità sollecitate con il controricorso, cui ampliamente replica il ricorrente con la propria memoria finale.

D’altra parte, non vi è dubbio che sia l’attore ad essere onerato della prova della ricorrenza dei presupposti processuali e quindi anche dell’interesse ad agire (Cass. 29 gennaio 2019, n. 2489; Cass. 4 febbraio 2014, n. 2447).

In forza dei suddetti complessivi presupposti era dunque onere del ricorrente, stante il fatto che su tale aspetto – rimasto assorbito in appello – non si è certamente formato alcun giudicato interno, dimostrare concretamente, riportando i corrispondenti passaggi del ricorso introduttivo ed argomentando rispetto ad essi, che in giudizio fosse stata proposta azione di annullamento delle dimissioni, poi in particolare sviluppatasi, secondo quanto dice la Corte territoriale, concentrando le deduzioni di appello verso il tema della violenza morale.

2.3 La proposizione di una domanda di annullamento per vizio del consenso non è in sè desumibile dalla associazione di una domanda di reintegrazione nella posizione pregressa con una domanda di accertamento della compatibilità tra le posizioni interne ed esterne alla Asl rivestite, perchè essa postula ben precise allegazioni rispetto allo sviamento della volontà ed agli effetti verso l’atto che tale volontà ha espresso, ovverosia le dimissioni.

Era dunque onere del ricorrente, anche al fine di consentire l’apprezzamento sulla portata della domanda iniziale, riportare i passaggi del ricorso di primo grado necessari a far constare che ab origine era stata dispiegata azione impugnatoria per vizio del consenso, a tale fine non bastando di certo l’insistenza, di cui alla memoria, sulla lettera trasmessa dal C. alla controparte all’epoca dei fatti, risultando necessario il riferimento alle allegazioni e deduzioni processuali, nella loro connessione con il petitum e con gli atteggiamenti soggettivi da una parte e dall’altra necessari ad integrare la fattispecie dell’annullamento di cui agli artt. 1427 c.c. e segg..

Il profilo dell’interesse ad agire, tutt’altro che estraneo al contendere per come concretamente sviluppatosi tra il primo ed il secondo grado del giudizio e sopra riepilogato, imponeva dunque la ricostruzione della domanda originaria in osservanza dei presupposti di specificità di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1 (Cass. 24 aprile 2018, n. 10072) e di autonomia del ricorso per cassazione (Cass., S.U., 22 maggio 2014, n. 11308) che la predetta norma nel suo complesso esprime, con riferimento in particolare, qui, al n. 3 della stessa disposizione, da cui si desume la necessità che la narrativa e l’argomentazione siano idonee, riportando anche la trascrizione esplicita dei necessari passaggi degli atti rilevanti, a manifestare pregnanza delle ragioni prospettate o di quanto (qui, interesse ad agire) la parte sia onerata comunque di prospettare, senza necessità per la S.C. di ricercare autonomamente in tali atti i corrispondenti profili ipoteticamente rilevanti (v. ora, sul punto, Cass., S.U., 27 dicembre 2019, n. 34469).

Tale onere, come si è detto, non è stato assolto, e quanto argomentato, comportando anche l’inammissibilità del ricorso, è del tutto assorbente rispetto ai motivi sviluppati con riferimento al merito.

3. Le spese del grado seguono la soccombenza.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento in favore della controparte delle spese del giudizio di cassazione, che liquida in Euro 5.000,00 per compensi ed Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 10 febbraio 2021.

Depositato in Cancelleria il 7 giugno 2021

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