Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 15782 del 07/06/2021

Cassazione civile sez. I, 07/06/2021, (ud. 11/02/2021, dep. 07/06/2021), n.15782

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE CHIARA Carlo – Presidente –

Dott. ACIERNO Maria – rel. Consigliere –

Dott. NAZZICONE Loredana – Consigliere –

Dott. FALABELLA Massimo – Consigliere –

Dott. CARADONNA Lunella – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 25129/2016 proposto da:

Istituto Primavera Impresa Sociale a r.l., in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in Roma, Via

Pompeo Trogo n. 21, presso lo studio dell’avvocato Casanova

Stefania, rappresentato e difeso dall’avvocato Panico Antonio,

giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

P.C., elettivamente domiciliata in Roma, Via Igino

Giordani n. 34, presso lo studio dell’avvocato Sapio Angela,

rappresentata e difesa dall’avvocato Bianco Felice, giusta procura

in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 3137/2016 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI,

depositata il 19/08/2016;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

11/02/2021 dal Cons. Dott. FALABELLA MASSIMO.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. – Con citazione notificata il 4 febbraio 2015 P.C. adiva la Corte di appello di Napoli chiedendo: accertarsi la nullità del lodo arbitrale pronunciato il 24 novembre 2014; dichiararsi la tempestività dell’impugnazione della Delib. Assembleare 20 dicembre 2012, della società a responsabilità limitata denominata Istituto Primavera Impresa Sociale, avente ad oggetto l’esclusione della medesima quale socio; accertarsi, infine, la nullità della clausola di cui all’art. 10 dello statuto sociale.

Resisteva la società, che chiedeva rigettarsi il proposto gravame e accogliersi la propria impugnazione incidentale vertente sulla validità dell’offerta reale da essa formulata, con declaratoria della conseguente sua liberazione dall’obbligazione di liquidazione del valore della quota.

2. – La Corte di appello di Napoli, con sentenza del 19 agosto 2016, accoglieva l’impugnazione principale e, dichiarata la nullità del lodo, decidendo la controversia nel merito, dichiarava tempestiva e fondata l’opposizione avverso la Delib. Assembleare 20 dicembre 2012, di esclusione del socio P.C. pronunciandosi, per l’effetto, nel senso della nullità della richiamata Delibera.

3. – La sentenza è stata impugnata per cassazione da Istituto Primavera con tre motivi di ricorso; resiste con controricorso P.C..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – Con il primo motivo sono denunciate la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 168 del 2003, art. 2 e dell’art. 50 c.p.c., nonchè la palese contraddittorietà della motivazione. Sostiene la ricorrente che il legislatore, nel delineare i compiti assegnati alle sezioni specializzate in materia di impresa, abbia operato una ripartizione degli affari rilevante sotto il profilo della competenza. La società istante osserva, poi, che risultava improprio il richiamo operato dalla Corte di appello alla disciplina contenuta nell’art. 50 c.p.c., circa la transiatio judicii: tale norma, infatti, non era stata applicata nella fattispecie, atteso che la sezione ordinaria della Corte di appello non aveva declinato la propria competenza concedendo il termine per la riassunzione al fine di provocare l’effetto conservativo dell’impugnazione, ma aveva semplicemente disposto che la trattazione del processo proseguisse avanti alla sezione specializzata.

Il motivo di censura è infondato.

Esso investe la sentenza impugnata nella parte in cui la Corte di appello, pur ritenendo che la ripartizione degli affari tra sezione specializzata e sezione ordinaria riguardasse la competenza, ha escluso la fondatezza dell’eccezione di inammissibilità dell’impugnazione del lodo, in quanto “indirizzata genericamente alla Corte di appello, anzichè alla Corte di appello sezione specializzata in materia di impresa” e ha rilevato che la tempestiva proposizione del gravame innanzi al giudice incompetente impedisse la decadenza all’impugnazione: a quest’ultimo riguardo il giudice distrettuale ha osservato come il “meccanismo sanante” previsto dall’art. 50 c.p.c., non possa riferirsi, in via esclusiva, all’errore dell’individuazione del giudice competente per il giudizio di cognizione di primo grado, dovendo trovare applicazione anche in fase di gravame.

Come chiarito dalle Sezioni Unite di questa Corte, il rapporto tra sezione ordinaria e sezione specializzata in materia di impresa, nello specifico caso in cui entrambe le sezioni facciano parte del medesimo ufficio giudiziario, non attiene alla competenza, ma rientra nella mera ripartizione degli affari interni all’ufficio giudiziario; rientra, invece, nell’ambito della competenza in senso proprio la relazione tra la sezione specializzata in materia di impresa e l’ufficio giudiziario diverso da quello ove la prima sia istituita (Cass. Sez. U. 23 luglio 2019, n. 19882). E’ evidente, allora, che la proposizione dell’impugnazione aventi alla Corte di appello di Napoli (piuttosto che avanti alla sezione specializzata di detta Corte) non potesse assumere il rilievo che le conferisce la ricorrente. Tale profilo è assorbente, anche se per completezza merita ricordare che, in ogni caso, l’impugnazione proposta davanti ad un giudice diverso da quello avanti al quale l’impugnazione stessa deve essere proposta non determina l’inammissibilità di questa, ma è idoneo ad instaurare un valido rapporto processuale, suscettibile di proseguire dinanzi al giudice competente attraverso il meccanismo della translatio judicii (per tutte: Cass. Sez. U. 14 settembre 2016, n. 18121; Cass. 2 aprile 2018, n. 8155; Cass. 21 luglio 2020, n. 15463).

2. – Il secondo mezzo oppone la violazione e falsa applicazione dell’art. 829 c.p.c., comma 3 e del D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 27, oltre che la palese contraddittorietà della motivazione. Lamenta la ricorrente che il giudice d’appello abbia dapprima ritenuto applicabile l’art. 829 c.p.c., nel testo modificato dal D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 24 e poi affermato che il lodo dovesse ritenersi impugnabile alla stregua della disciplina vigente prima della riforma del 2006, posto che la convenzione di arbitrato era stata stipulata in epoca precedente. Si deduce che, sebbene si possa prendere in considerazione la disciplina vigente al fine di appurare se l’impugnazione sia o meno ammissibile, nel decidere il merito dell’appello la normativa applicabile deve identificarsi in “quella vigente al momento della proposizione del lodo e/o dell’impugnazione”.

Il motivo non ha fondamento.

Hanno precisato le Sezioni Unite, che in tema di arbitrato, l’art. 829 c.p.c., comma 3, come riformulato dal D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 24, si applica, ai sensi della disposizione transitoria di cui al D.Lgs. n. 40 cit., art. 27, a tutti i giudizi arbitrali promossi dopo l’entrata in vigore della novella e che, tuttavia, per stabilire se sia ammissibile l’impugnazione per violazione delle regole di diritto sul merito della controversia, la legge – cui l’art. 829 c.p.c., comma 3, rinvia – va identificata in quella vigente al momento della stipulazione della convenzione di arbitrato: sicchè, in caso di clausola compromissoria societaria, inserita nello statuto anteriormente alla novella, è ammissibile l’impugnazione del lodo per errores in judicando ove “gli arbitri, per decidere, abbiano conosciuto di questioni non compromettibili ovvero quando l’oggetto del giudizio sia costituito dalla validità delle delibere assembleari”, così espressamente disponendo la legge di rinvio, da identificarsi con il D.Lgs. n. 5 del 2003, art. 36 (Cass. Sez. U. 9 maggio 2016, n. 9285).

Ora, è pacifico (cfr. sentenza impugnata, pag. 10) che lo statuto sociale risalga a data anteriore al 2 marzo 2006 (di entrata in vigore del D.Lgs. n. 40 del 2006). Ne discende che il giudizio di impugnazione arbitrale poteva avere certamente ad oggetto l’invalidità della Delibera assembleare di esclusione del socio, come dipendente dalla nullità della clausola statutaria (art. 10) che tale esclusione disciplinava: la Corte di appello – merita precisare – ha difatti accertato che la disposizione dello statuto, la quale si limitava a stabilire che l’esclusione non potesse essere deliberata per ragioni discriminatorie, senza individuare le ipotesi di giusta causa in cui essa potesse aver luogo, fosse nulla per illiceità dell’oggetto (aspetto, questo, che non è stato specificamente censurato col motivo in esame). Non si comprende, d’altro canto, la deduzione della ricorrente secondo cui per decidere il merito dell’appello la Corte distrettuale avrebbe introdotto d’ufficio una questione mai sollevata prima (cfr., in particolare, pag. 10 del ricorso): come si ricava agevolmente dalla sentenza impugnata (pag. 15), infatti, la questione vertente sulla nullità dell’art. 10 dello statuto sociale era stata fatta valere da P.C. col proprio atto di impugnazione.

3. – Col terzo motivo la ricorrente deduce la violazione e la falsa applicazione dell’art. 101 c.p.c., comma 2, nonchè dell’art. 111 Cost., comma 2: viene lamentata l’omessa attivazione del contraddittorio su questione sollevata d’ufficio, determinante ai fini del decidere. Parte ricorrente si duole del fatto che la Corte di merito abbia deciso l’impugnazione dichiarando la nullità dell’art. 10 dello statuto sociale sebbene la questione non fosse stata mai sollevata dalla parte appellante. Osserva che, sebbene la nullità di clausole negoziali sia rilevabile d’ufficio, ciò non esclude che la relativa questione debba essere sottoposta al vaglio delle parti per provocarne il contraddittorio. Nel corpo del motivo sono poi svolte considerazioni estranee a quanto enunciato nella rubrica dello stesso, giacchè la ricorrente si occupa della questione relativa alla ritenuta tempestività dell’impugnazione della Delibera assembleare e osserva, in proposito, come il socio escluso potesse reagire contro la medesima entro trenta giorni: termine ricavato dalla disciplina delle società di persone (art. 2287 c.c.) e, nella fattispecie, non rispettato.

Il motivo è infondato.

La sollecitazione del contraddittorio sul tema della nullità della clausola statutaria non si imponeva, giacchè, come si è detto, detta questione apparteneva al thema decidendum, essendo stata fatta valere dall’odierna controricorrente con la sua impugnazione.

Poichè il motivo di ricorso è incentrato sulla richiamata questione processuale – e quindi sulla dedotta violazione della regola di cui all’art. 101 c.p.c., comma 2 – ad esso resta evidentemente estraneo l’oggetto della decisione assunta, sul punto della denunciata nullità, dalla Corte di appello; è sintomatico, in proposito, che tale tema sia stato introdotto, a pag. 12 del ricorso, da una vera e propria proposizione ipotetica (“se il Collegio, nel rilevare e sollevare d’ufficio la menzionata nullità, avesse invitato a contraddire”), che prelude alla successiva rappresentazione delle difese che sarebbero state svolte dalla società (“allora la scrivente difesa, nel prendere atto dell’ulteriore eccezione avrebbe osservato e rilevato quanto segue”). E’ dunque solo per completezza che si svolgono, con riguardo a tali ulteriori considerazioni, i seguenti rilievi.

L’assunto secondo cui lo statuto sociale sarebbe stato redatto in epoca anteriore all’entrata in vigore del D.Lgs. n. 6 del 2003, con cui è stato introdotto l’art. 2473 bis c.c., smentisce la Corte di appello in un accertamento di fatto, in questa sede non sindacabile; tale assunto è stato oltretutto formulato senza nemmeno dar conto degli elementi di prova che fossero stati fatti valere in giudizio per darne conto, sicchè la doglianza risulterebbe, comunque, pure carente di autosufficienza.

Come si è detto, il motivo di ricorso finisce per occuparsi pure del tema, controverso in sede di merito, della tempestività dell’impugnazione. Sul punto è sufficiente osservare che la questione (che la ricorrente non spiega come si correli a quella processuale, vertente sulla violazione del principio del contraddittorio) è stata affrontata e decisa dalla Corte di merito, la quale, riconducendo il vizio della Delibera alla nullità dell’oggetto ex art. 2479 ter c.c., comma 3 (cfr., in particolare, pag. 19 della sentenza impugnata), ha osservato come la società Istituto Primavera non avesse “mai dedotto se e quando la Delibera (fosse) stata trascritta e, tanto meno, (avesse) depositato l’estratto del libro delle deliberazioni dei soci” (pag. 14). In tal modo la Corte di appello ha ben spiegato che non vi era evidenza dell’intempestività dell’impugnazione (la quale andava proposta nel termine di tre anni dalla detta trascrizione, giusta il cit. art. 2479 ter c.c., comma 3). Ebbene, il ricorrente si limita ad osservare che il giudizio arbitrale doveva essere promosso nel termine di cui all’art. 2287 c.c. (norma dettata per le società personali), senza nemmeno misurarsi con quanto rilevato dal giudice distrettuale: in conseguenza, la censura, in quanto priva di specifica attinenza al decisum della sentenza impugnata, risulta essere inammissibile (Cass. 18 febbraio 2011, n. 4036; Cass. 3 agosto 2007, n. 17125).

4. – Il ricorso è allora respinto.

5. – Per le spese di giudizio opera il principio di soccombenza.

PQM

La Corte;

rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 6.000,00, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge,, oltre alle spese prenotate a debito; ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, ove dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 11 febbraio 2021.

Depositato in Cancelleria il 7 giugno 2021

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