Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 15775 del 29/07/2016


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Cassazione civile sez. III, 29/07/2016, (ud. 13/05/2016, dep. 29/07/2016), n.15775

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CHIARINI Maria Margherita – Presidente –

Dott. FRASCA Raffaele – Consigliere –

Dott. OLIVIERI Stefano – rel. Consigliere –

Dott. CIRUILLO Francesco Maria – Consigliere –

Dott. DI MARZIO Fabrizio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 15815-2013 proposto da:

C.P., (OMISSIS) quale erede di CO.VI.,

domiciliato ex lege in ROMA, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI

CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato FORTUNATO DATTOLA

giusta procura speciale in calce al ricorso;

– ricorrenti –

contro

M.G.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 493/2012 della CORTE D’APPELLO di REGGIO

CALABRIA, depositata il 11/12/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

13/05/2016 dal Consigliere Dott. STEFANO OLIVIERI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SERVELLO Gianfranco, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

La Corte d’appello di Reggio Calabria con sentenza 11.12.2012 n. 493, rigettava l’appello proposto da C.P. e confermava la decisione di prime cure che aveva rigettato la domanda di risoluzione per inadempimento del contratto di locazione stipulato in data 14.4.1986 con M.G., successivamente rinnovato, nonchè la domanda di condanna al pagamento delle maggiori somme dovute per incremento del canone nel corso del rapporto.

I Giudici rilevavano che:

alcuna prova era stata fornita da parte della C. di una esplicita richiesta di “aggiornamento Istat” del canone formulata ai sensi della L. n. 392 del 1978, art. 32 dall’originario locatore Co. al conduttore M., essendosi limitato quest’ultimo soltanto ad ammettere di “avere accettato” le richieste verbali del locatore di aumento del canone fino all’importo di Euro 400,00 mensili (Lire 800.000 mensili);

l’importo del maggior canone asseritamente dovuto, indicato dalla C. nell’atto di intimazione di sfratto, non corrispondeva ed era superiore a quello risultante dall’aggiornamento Istat” del canone base pattuito nel 1986 (Lire 400.000 pari ad Euro 206,58), circostanza che dimostrava come non si verteva in tema di variazione dell’indice Istat, quanto piuttosto di vero e proprio “aumento” del canone rispetto a quello indicato in contratto, con conseguente inefficacia dell’adesione prestata dal M. anche al più modesto aumento, attesa la nullità delle modifiche in aumento del canone concordate in corso di rapporto, sanzionata dalla L. n. 392 del 1978, art. 79, comma 1;

corretta doveva inoltre ritenersi la statuizione del primo giudice che aveva affermato la sostituzione automatica della clausola contrattuale che prevedeva l’aggiornamento Istat del canone senza necessità di espressa richiesta del locatore, con la norma imperativa dell’art. 32 Legge equo canone, non potendo in conseguenza assumere rilievo la mancata osservanza della clausola nulla da parte del conduttore ai fini della valutazione dell’inadempimento grave e della risoluzione del contratto;

smentita era rimasta la circostanza che il M. non avesse validamente fatto offerta di pagamento dei canoni per i mesi di giugno e luglio 2009, atteso che la modalità di pagamento mediante assegno bancario inviato a mezzo di lettere raccomandate spedite dall’avv. Morace, non aveva dato luogo ad alcuna contestazione da parte della C. che aveva regolarmente accettato il pagamento del canone effettuato con le stesse modalità per i precedenti consecutivi mesi di marzo, aprile e maggio 2009, sicchè rimaneva destituita di fondamento la tesi della locatrice secondo cui aveva rifiutato la consegna delle successive raccomandate non potendone conoscere il contenuto, trattandosi di comportamento non conforme al principio di buona fede che presiede alla esecuzione del contratto;

infondato era il motivo di gravame che denunciava la tardività della eccezione di compensazione proposta dal M. tra il credito alla restituzione dell’importo dei canoni versato in eccedenza per nullità della clausola contrattuale, ed il debito per omesso pagamento delle bollette della fornitura idrica, trattandosi di poste contabili derivanti dall’unico rapporto locativo e dunque essendo legittimato il Giudice a dispone ex officio la compensazione “impropria” i modesti ritardi nei pagamenti di taluni canoni non integravano la gravità richiesta dall’art. 1455 c.c. per pronuncia la risoluzione del contratto.

La sentenza di appello, non notificata, è stata ritualmente impugnata per cassazione, con nove motivi, da C.P., con atto notificato in data 30.5.2013 presso il difensore domiciliatario dell’intimato M.G. che non ha svolto difese.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo (indicato nel ricorso con la lettera A) la ricorrente deduce:

a) il vizio di “nullità della sentenza” ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per violazione dell’art. 115 c.p.c., comma 1, non avendo considerato la Corte territoriale il fatto non contestato, allegato nell’atto di intimazione di sfratto, che l’importo dovuto era stato determinato a seguito di “rivalutazioni annuali” del canone;

b) ed ancora in subordine analogo vizio di legittimità, relativo a violazione dell’art. 115 c.p.c., comma 1 e dell’art. 416 c.p.c., comma 2, per non aver rilevato la Corte territoriale che non era stato contestato il fatto allegato nella memoria difensiva depositata dalla locatrice in seguito alla ordinanza ex art. 426 c.p.c., secondo cui il maggior importo richiesto costituiva 1′ “aggiornamento ISTAT” del canone originariamente pattuito.

Le censure sono inammissibili.

Premesso che risulta dallo stesso ricorso per cassazione che l’intimato si era costituto nel procedimento speciale di convalida dello sfratto con comparsa di costituzione depositata dal proprio difensore, nella quale oltre ad opporsi alla convalida aveva svolto anche difese nel merito, controdeducendo all’inadempimento contestato dalla locatrice in relazione alle modalità di pagamento del canone a mezzo assegno trasmesso per posta, nonchè deducendo che l’originario locatore aveva insistentemente richiesto verbalmente un aumento del canone, fino ad un ammontare pari ad Euro 400,00 (circa Lire 800.000) che era stato accettato dal conduttore, con la conseguenza che appare del tutto infondata la tesi sostenuta dalla ricorrente secondo cui la “mancata costituzione” del conduttore nel procedimento di merito (recte: il mancato deposito di una “memoria difensiva integrativa” ex art. 426 c.p.c.), in seguito alla conversione del rito, comportava gli effetti della “non contestazione” previsti dall’art. 416 c.p.c., comma 2, senza considerare che anche nel rito speciale locatizio l’ordinamento non attribuisce alla “contumacia” del conduttore alcun effetto negativo, come invece erroneamente ipotizza la ricorrente (cfr. Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 14623 del 23/06/2009), orbene tanto premesso, osserva il Collegio che le censure sono inammissibili, per carenza del requisito di specificità ex art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, in quanto prive di argomentate critiche rivolte alla motivazione della sentenza di appello, che ha puntualmente esaminato la questione della modifica verbale dell’importo del canone, rilevando che il M. aveva ammesso soltanto di aver modificato con il locatore, in corso di rapporto e fino ad un determinato importo, l’aumento del canone originariamente pattuito, ma non anche di aver ricevuto richieste -anche solo verbali- di applicazione dell’ “aggiornamento” del canone secondo le variazioni degli indici ISTAT dei prezzi al consumo ai sensi della L. n. 392 del 1978, art. 32 fatto che escludeva alla radice l’assunto di una asserita non contestazione sul punto degli incrementi ISTAT, peraltro smentito anche dalla accertata non corrispondenza tra l’importo che sarebbe derivato applicando dalla data di stipula del contratto, e dunque a decorrere dall’anno 1986, le variazioni dell’indice ISTAT, ed invece l’ammontare del canone (determinato a seguito degli aumenti in corso di rapporto) indicato dalla C. nell’atto di intimazione di sfratto e di condanna del conduttore al pagamento delle maggiori somme.

La ricorrente si è limitata, al riguardo, ad impugnare la detta statuizione reiterando il medesimo assunto difensivo secondo cui nella specie doveva ravvisarsi la “non contestazione” del conduttore circa la imputazione del maggior canone ad incremento ISTAT, già formulata nei motivi di gravame disattesi dalla Corte d’appello, senza tuttavia specificare l’errore in cui sarebbe incorso il Giudice di merito nel pervenire a conclusione diametralmente opposta (tanto in relazione alla interpretazione del contenuto della comparsa di riposta depositata nella fase della opposizione alla convalida, quanto in relazione al calcolo evidenziante al difformità degli importi), e dunque senza indicare gli elementi necessari ad inficiare tale accertamento, in evidente violazione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4. Inoltre, la contestazione sembra rivolta, non ad un errore applicativo della norma ex art. 115 c.p.c., comma 1 (che disciplina gli effetti della non contestazione), quanto piuttosto alla interpretazione del contenuto dell’atto difensivo del conduttore, e dunque ad un eventuale “errore di fatto” che avrebbe dovuto allora essere censurato con riferimento al diverso parametro normativo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (nel testo innovato dal D.L. n. 83 del 2012 conv. in L. n. 134 del 2012 applicabile ratione temporis), con conseguente ulteriore profilo di inammissibilità del motivo, cui si aggiunge, quanto alla censura sub lett. b), anche il difetto di autosufficienza per inosservanza dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, non risultando trascritta la “memoria difensiva” depositata dalla locatrice ai sensi dell’art. 426 c.p.c. e dunque rimanendo “ab origine” preclusa alla Corte la stessa verifica dell’assunto della ricorrente secondo cui la linea di difesa della locatrice si fondava sull’assunto che la rivalutazione del canone era stata richiesta nel corso del rapporto esclusivamente a titolo di variazione ISTAT. Con il secondo motivo (lett. B) si deduce il vizio ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per errata interpretazione della Legge equo canone, art. 32 in quanto la Corte territoriale non avrebbe considerato che il lungo tempo trascorso dalla stipula del contratto nel 1986 ed il pagamento dei maggiori importi, senza contestazione da parte del conduttore, consentivano di presumere che l’aumento del canone pagato dal conduttore era da imputarsi esclusivamente alla applicazione degli aggiornamenti ISTAT. Il motivo è inammissibile in quanto viene fatto valere attraverso l’ “errore di diritto” quello che, invece, è un tipico “errore di fatto”, venendo la critica interamente sull’asserita inesatta valutazione da parte della Corte territoriale delle risultanze documentali che avrebbero invece condotto – secondo la ricorrente – alla formazione della prova presuntiva favorevole alla locatrice, dovendo ribadirsi il principio secondo cui il vizio di violazione o falsa applicazione di norme di diritto – deducibile come motivo di ricorso per cassazione osservando il principio dell’indicazione analitica dei motivi di doglianza – si risolve in un giudizio sulla fattispecie astratta contemplata dalla norma di diritto applicabile al caso concreto e la relativa denunzia deve avvenire mediante la specifica indicazione dei punti della sentenza impugnata che si assumono essere in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza e/o dalla dottrina prevalente: ne consegue che deve considerarsi inammissibile il ricorso per cassazione con il quale si censura come violazione di norma di diritto, e non come vizio di motivazione, un errore in cui si assume che sia incorso il giudice di merito nella ricostruzione di un fatto giuridicamente rilevante, sul quale la sentenza doveva pronunciarsi (cfr. Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 10385 del 18/05/2005; id. Sez. 5, Sentenza n. 9185 del 21/04/2011).

Nè consente di superare la preclusione all’accesso del sindacato di legittimità la deduzione nel corpo espositivo del motivo – preceduta da un incomprensibile n. 4) – anche del vizio di omessa motivazione ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, in quanto al Corte d’appello non avrebbe tenuto conto di tutte le “circostanze indicate nel motivo che precede”: la assoluta genericità della formulazione della censura si risolve infatti in una inammissibile richiesta alla Corte di una nuova rivalutazione nel merito dei fatti, non consentita in sede di legittimità (cfr. (cfr. Corte cass. Sez. U, Sentenza n. 13045 del 27/12/1997; id. Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 5024 del 28/03/2012; id. Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 91 del 07/01/2014), dovendo inoltre rilevarsi che trova applicazione l’art. 360 c.p.c., comma 1, nella nuova formulazione introdotta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b), convertito con modificazioni nella L. 7 agosto 2012, n. 134 (recante “Misure urgenti per la crescita del Paese”), che ha sostituito il n. 5 dell’art. 360 c.p.c., comma 1 (con riferimento alle impugnazioni proposte avverso le sentenze pubblicate successivamente alla data dell’11 settembre 2012), rimanendo pertanto circoscritto il controllo del vizio di legittimità (fino ad allora esteso anche al processo logico argomentativo fondato sulla valutazione dei fatti allegati assunti come determinanti in esito al giudizio di selezione e prevalenza probatoria, potendo essere censurata la motivazione della sentenza, oltre che per “omessa” considerazione di un fatto controverso e decisivo dimostrato in giudizio, anche per “insufficienza” e per “contraddittorietà” della argomentazione) al “minimo costituzionale” prescritto dall’art. 111 Cost. ed individuato “in negativo” dalla consolidata giurisprudenza della Corte, formatasi in materia di ricorso straordinario, secondo cui tale requisito minimo non risulta soddisfatto soltanto qualora ricorrano quelle stesse ipotesi (mancanza della motivazione quale requisito essenziale del provvedimento giurisdizionale; motivazione apparente; manifesta ed irriducibile contraddittorietà; motivazione perplessa od incomprensibile) che si convertono nella violazione dell’art. 132 c.p.c., n. 4 e che determinano la nullità della sentenza. Al di fuori delle ipotesi indicate (attinenti alla “esistenza” del requisito motivazionale del provvedimento giurisdizionale) residua soltanto l’omesso esame di un fatto storico controverso, che è stato oggetto di discussione e “decisivo”, non essendo più consentito impugnare la sentenza per criticare la sufficienza del discorso argomentativo giustificativo della decisione adottata sulla base di elementi fattuali acquisiti al rilevante probatorio ritenuti dal Giudice di merito determinanti ovvero scartati in quanto non pertinenti o recessivi (cfr. Corte cass. SS.UU. in data 7.4.2014 n. 8053). Orbene, da un lato, la sentenza di appello ha ampiamente motivato sulla imputazione ad “aumento” disposto in corso di rapporto e non ad “aggiornamento ISTAT” della maggiorazione del canone, sicchè non ricorre una carenza del requisito di validità della sentenza, desunta dal contenuto intrinseco del testo motivazionale; dall’altra i fatti indicati dalla ricorrente (lungo tempo trascorso; adesione del conduttore al pagamento dei canoni aumentati), sono manifestamente privi del carattere di decisività (ai fini della dimostrazione della imputazione degli incrementi esclusivamente alle variazioni ISTAT: ossia a richieste effettuate dal locatore ai sensi della L. n. 392 del 1978, art. 32), tenuto conto che tali circostanze di fatto appaiono pienamente compatibili con la diversa valutazione di merito del Giudice di appello che ha, invece, inteso riferire le maggiorazioni in questione a pattuizioni verbali aventi ad oggetto una modifica in “aumento” del canone base in corso di rapporto.

Il terzo motivo (lett. C) denuncia la nullità della sentenza (violazione art. 99 c.p.c., art. 101 c.p.c., comma 2, art. 112 c.p.c. e art. 416 c.p.c., comma 2 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4) per avere il Giudice di appello rilevato “ex officio” la nullità del patto verbale di “aumento” del canone in corso di rapporto, L. n. 392 del 1978, ex art. 79 (lett. C-1) e comunque per non aver preventivamente sollecitato il contraddittorio sulla questione di invalidità del patto verbale, ai sensi dell’art. 101 c.p.c., comma 2 (lett. C – 2).

Il motivo è inammissibile ed infondato.

Occorre premettere che, come è dato evincere dallo stesso ricorso per cassazione (pag. 8), il Giudice di primo grado aveva rilevato “ex officio” la nullità la clausola di rivalutazione “automatica” del canone (in violazione dell’art. 32 Legge equo canone) in base alle variazioni dell’indice ISTAT, contenuta nel contratto di locazione, ed in conseguenza delle maggiorazioni dell’importo del canone stabilito nel contratto stipulato il 14.4.1986.

Tale statuizione della decisione di primo grado – fondata sulla nullità della clausola – era stata oggetto di specifico motivo di gravame da parte della locatrice.

Ne segue che alcuna violazione dell’art. 101 c.p.c., comma 2 può essere ravvisata nella attività processuale della Corte d’appello che si è limitata a decidere sulla questione di nullità come devoluta alla sua cognizione dai motivi di gravame dedotti dall’appellante C..

Nè appare censurabile ora per allora, l’eventuale vizio processuale per violazione del contraddittorio ex art. 101 c.p.c., comma 2 in cui sarebbe incorso il primo giudice, in quanto, convertendosi tale nullità processuale in un vizio deducibile con motivo di gravame, lo stesso avrebbe dovuto essere puntualmente dedotto dalla C. con l’atto di appello, mentre come è dato verificare dai motivi di gravame (trascritti alle pag. 9-11 del ricorso per cassazione), la statuizione del rilievo ex officio della nullità contrattuale su cui era fondata la decisione di prime cure, era stata impugnata esclusivamente in relazione a profili di merito, concernenti: a) gli effetti prodotti dalla nullità parziale della clausola contrattuale di “aggiornamento automatico” del canone in base alle variazioni ISTAT, che determinavano una mera sostituzione automatica della clausola con la norma imperativa di cui alla L. n. 392 del 1978, art. 32 (motivo di gravame indicato al n. 3 dell’atto di appello: cfr. ricorso pag. 9); b) la validità del patto verbale di aumento del canone, in considerazione della adesione spontanea del conduttore al pagamento delle maggiori somme richieste verbalmente dal locatore.

La proposizione, per la prima volta, con ricorso per cassazione di una nullità processuale verificatasi in primo grado rimane evidentemente preclusa al sindacato di legittimità.

Quanto alle altre censure concernenti la questione di nullità del patto verbale di aumento del canone, fondate sulla asserita non rilevabilità di ufficio della nullità della predetta clausola contrattuale di aggiornamento automatico, le stesse appaiono manifestamente infondate, atteso che, per giurisprudenza consolidata, la domanda di risoluzione per inadempimento della prestazione contrattuale presuppone un contratto valido, e dunque la questione della nullità risulta acquisita al “thema decidendum” senza necessità di apposita domanda od eccezione di parte, vertendo su un fatto costitutivo del diritto fatto valere dal locatore il cui accertamento rientra direttamente nella cognizione ed appartiene ai poteri di verifica del Giudice di merito, non assumendo rilevanza a tal proposito la qualificazione del vizio di nullità (totale, parziale; speciale o di protezione) del negozio, come precisato da questa Corte che, distinguendo tra obbligo di rilevazione ex officio e mera facoltà della conseguente pronuncia dichiarativa della nullità (ove alla rilevazione officiosa non sia seguita domanda di parte), ha enunciato il principio di diritto secondo cui “la “rilevazione” “ex officio” delle nullità negoziali (sotto qualsiasi profilo, anche diverso da quello allegato dalla parte, ed altresì per le ipotesi di nullità speciali o “di protezione”) è sempre obbligatoria, purchè la pretesa azionata non venga rigettata in base ad una individuata “ragione più liquida”, e va intesa come indicazione alle parti di tale vizio; la loro “dichiarazione”, invece, ove sia mancata un’espressa domanda della parte pure all’esito della suddetta indicazione officiosa, costituisce statuizione facoltativa (salvo per le nullità speciali, che presuppongono una manifestazione di interesse della parte) del medesimo vizio, previo suo accertamento, nella motivazione e/o nel dispositivo della pronuncia, con efficacia, peraltro, di giudicato in assenza di sua impugnazione” (cfr. Corte cass. Sez. U, Sentenza n. 26242 del 12/12/2014), dovendo ricomprendersi nell’obbligo di rilevazione officiosa delle nullità negoziali anche quelle cosiddette di protezione, che sono da configurarsi, alla stregua delle indicazioni provenienti dalla Corte di giustizia, come una “species” del più ampio “genus” rappresentato dalle prime, tutelando le stesse interessi e valori fondamentali – quali il corretto funzionamento del mercato (art. 41 Cost.) e l’uguaglianza almeno formale tra contraenti forti e deboli (art. 3 Cost.) – che trascendono quelli del singolo (cfr. id. SU 26242/2014, che viene a modificare il precedente difforme arresto di Corte cass. Sez. U, Sentenza n. 14828 del 04/09/2012).

La Corte territoriale decidendo sui primi tre motivi di gravame ha confermato la decisione di prime cure che aveva rilevato la nullità ai sensi della L. n. 392 del 1978, art. 79 della clausola contrattuale di aggiornamento automatico del canone, per violazione dell’art. 32 medesima legge, statuendo che la sostituzione automatica della norma imperativa in luogo della clausola nulla, non consentiva egualmente di fondare la pretesa al pagamento dei maggiori importi, poichè, da un lato, non risultava che il locatore avesse mai formulato espressa richiesta di applicazione della rivalutazione del canone in base all’indice ISTAT, e dall’altro, dovendo ritenersi affetti da nullità i patti comunque diretti ad aggirare la disciplina vincolistica della locazione immobiliare, quale appunto l’accordo verbale intercorso nella specie tra l’originario locatore ed il conduttore diretto ad incrementare l’importo base del canone nel corso di rapporto.

La decisione, che deve ritenersi pertanto esente dai vizi denunciati, è conforme ai principi di diritto espressi in materia da questa Corte, tanto in materia di nullità, ex art. 79 Legge equo canone, della clausola di un contratto di locazione, con la quale le parti convengano l’aggiornamento automatico del canone su base annuale (a seguito della modifica della L. n. 392 del 1978, art. 32 operata dal D.L. 7 febbraio 1985, n. 12, art. 1 convertito, con modifiche, dalla L. n. 118 del 1985) senza necessità di richiesta espressa del locatore (cfr. Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 2417 del 07/02/2005; id. Sez. 3, Sentenza n. 24753 del 07/10/2008; id. Sa 3, Sentenza n. 3014 del 28/02/2012), quanto in materia di nullità delle pattuizioni in corso di rapporto volte a variare in aumento il canone pattuito in contratto: ed infatti anche in tema di immobili adibiti ad uso diverso da abitazione, per i quali opera il principio generale della libera determinazione convenzionale del canone locativo, ogni pattuizione avente ad oggetto non già l’aggiornamento del corrispettivo ai sensi della L. n. 392 del 1978, art. 32 ma veri e propri aumenti del canone, deve ritenersi nulla, ex art. 79, comma 1 stessa legge, in quanto diretta ad attribuire al locatore un canone più elevato rispetto a quello previsto dalla norma (cfr. Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 10286 del 27/07/2001; id. Sez. 3, Sentenza n. 8410 del 11/04/2006; id. Sez. 3, Sentenza n. 2902 del 09/02/2007; id. Sez. 3, Sentenza n. 2932 del 07/02/2008; id. Sez. 3, Sentenza n. 24433 del 19/11/2009; id. Sez. 3, Sentenza n. 13826 del 09/06/2010; id. Sez. 3, Sentenza n. 2961 del 07/02/2013).

I motivi quarto (lett. D) e quinto (lett. E) investono la sentenza di appello (per violazione degli artt. 1241, 1243 e 1246 c.c.; nonchè per violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato ex art. 99 c.p.c., art. 112 c.p.c., art. 101 c.p.c., comma 2, art. 416 c.p.c., comma 2 e art. 115 c.p.c. ed ancora per violazione dell’art. 2697 c.c.) in punto di applicazione di ufficio -in difetto di domanda riconvenzionale del conduttore di determinazione del canone legale e di restituzione delle somme versate in eccedenza – della compensazione tra crediti non omogenei, nè in relazione di corrispettività, ed inoltre essendo il controcredito del conduttore privo del requisito della liquidità.

I motivi sono infondati.

Premesso che, nella specie, la istanza di “compensazione impropria” era stata formulata dal M. nella “memoria conclusiva” depositata ai sensi dell’art. 429 c.p.c., comma 2 richiamato dall’art. 447 bis c.p.c., comma 1 per il rito locatizio (cfr. sentenza appello, in motivazione pag. 12), osserva il Collegio che costituisce, infatti, affermazione consolidata nella giurisprudenza di legittimità quella secondo cui occorre distinguere tra l’istituto della compensazione quale regolato in senso tecnico-giuridico negli artt. 1241 c.c. e ss., con la relativa disciplina comprendente l’art. 1246 c.c. sui limiti della compensabilità dei crediti, che presuppone l’autonomia dei rapporti cui si riferiscono i contrapposti crediti delle parti, e la cosiddetta compensazione “impropria” configurabile allorchè i rispettivi crediti e debiti abbiano origine da un unico rapporto, nel qual caso la valutazione delle reciproche pretese importa soltanto un semplice accertamento contabile di dare ed avere, potendo a ciò procedere il giudice di merito senza che sia necessaria l’eccezione di parte o la proposizione di domanda riconvenzionale, senza tuttavia essere investito di poteri officiosi d’indagine quanto all’esistenza dei rispettivi crediti e permanendo l’onere di allegazione e prova delle rispettive voci di credito a carico della parte interessata, nel rispetto del principio del contraddittorio (cfr. Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 16561 del 25/11/2002; id. Sez. 1, Sentenza n. 20324 del 15/10/2004; id. Sez. L, Sentenza n. 6055 del 06/03/2008; id. Sez. L, Sentenza n. 28855 del 05/12/2008; id. Sez. L, Sentenza n. 5024 del 02/03/2009; id. Sez. 3, Sentenza n. 7624 del 30/03/2010; id. Sez. L, Sentenza n. 14688 del 29/08/2012; id. Sez. 3, Sentenza n. 16800 del 13/08/2015).

Nè, in contrario, appare nella fattispecie ostativa alla compensazione impropria, la mancanza della richiesta del conduttore di rideterminazione del canone legale o la contestazione da parte della locatrice del difetto di liquidità del “controcredito” (recte della posta contabile “ad avere”) per canoni versati in eccedenza rispetto al dovuto. Ed infatti: 1-ritenuta nulla la clausola di aggiornamento automatico del canone, non occorreva procedere ad alcun ricalcolo dell’importo del canone indicato nel contratto; 2-il controcredito oggetto della “compensazione impropria o atecnica”, è stato accertato e liquidato dalla Corte d’appello in base alle stesse indicazioni fornite dalla locatrice (secondo cui l’originario canone di Lire 400.000 era stato verbalmente aumentato dapprima a Lire 800.000, e quindi ad Euro 465,00 mensili: cfr. sentenza appello, nello svolgimento processo, pag. 2), avendo ritenuto provata la Corte territoriale la corrispondenza tra l’importo del credito per accessori (fornitura servizio idrico) vantato da locatore e quello del “controcredito” (eccedenze pagate dal 2001 rispetto al canone contrattuale) vantato dal conduttore: in relazione a tale accertamento in fatto la ricorrente non ha impugnato la sentenza di appello deducendo l’erroneo accertamento del “quantum” del controcredito compensato, limitandosi soltanto ad una generica e sterile contestazione di illiquidità di detta posta, senza tuttavia fornire alcun supporto argomentativo alla critica formulata alla sentenza impugnata (inconferente il richiamo, volto a sostenere la necessità di una rideterminazione del controcredito, al precedente di questa Corte Sez. 3, Sentenza n. 16009 del 07/07/2010, atteso che nel caso di specie non ricorre la diversa ipotesi esaminata nella indicata sentenza di pattuizioni contrattuali volte a determinare, in difformità dalla legge, un canone base ed adeguamenti del canone superiori a quelli consentiti dalla variazione quadriennale del canone legale – pari al 75% della variazione ISTAT – come era stabilito per le locazioni ad uso abitativo dalla L. n. 392 del 1978, art. 24 – successivamente abrogato dalla L. n. 431 del 1998, art. 14, comma 4 -, atteso che nella fattispecie sottoposta all’esame del Collegio trova invece applicazione l’art. 32 medesima legge, che disciplina espressamente le locazioni di immobili ad uso diverso da quella abitativo).

Non dirimente è, inoltre, il rilievo secondo cui le rispettive obbligazioni (pagamento degli oneri accessori; restituzione delle indebite maggiorazioni dei canoni), configurerebbero titoli autonomi in quanto non inerenti alla relazione sinallagmatica del contratto locativo: è sufficiente rilevare in proposito che se è proprio la mancanza di sinallagma che consente l’applicazione della compensazione impropria, entrambe le obbligazioni afferiscono al medesimo complessivo rapporto giuridico scaturendo dalla esecuzione del contratto di locazione, e dunque nell’ambito della unitarietà di detto rapporto va determinato il dare ed avere tra le parti, che legittima la applicazione ex officio della compensazione atecnica.

Pertanto la Corte territoriale si è attenuta ai principi di diritto enunciati in materia da questa Corte e la sentenza impugnata deve, in conseguenza, ritenersi esente dai vizi di legittimità denunciati nei motivi esaminati.

Con i motivi sesto (lett. F), settimo (lett. G) e ottavo (lett. H), la ricorrente impugna la medesima statuizione della sentenza, relativa alla valutazione della insussistenza della gravità dell’inadempimento ai sensi dell’art. 1455 c.c., denunciando cumulativamente vizi di “error in judicando” (indicati con riferimento ad una serie di numerose norma del codice civile: artt. 1175, 1181, 1182, 1183, 1197, 1218, 1326, 1375, 1454, e 1455 c.c.), vizi di omessa motivazione ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nonchè vizi di nullità processuale per carenza assoluta di motivazione ex art. 111 Cost., comma 6 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, sostenendo che il Giudice di appello avrebbe attribuito efficacia liberatoria ai pagamenti eseguiti dal conduttore in misura ridotta -rispetto all’importo precedentemente versato – e con modalità diverse da quelle tenute nel corso del rapporto, pur dopo aver ricevuto l’atto di diffida ad adempiere del febbraio 2009.

La sentenza impugnata presenta – nel testo della parte motiva – una serie di argomenti logici a sostegno della decisione che escludono in limine la stessa possibilità di configurare la prospettata carenza del requisito di validità della motivazione, inteso come minimo costituzionale necessario ad integrare la apprezzabilità di un “continuum” logico tra la esposizione delle ragioni in fatto e diritto e la “regula juris” applicata al rapporto dedotto in giudizio.

Quanto alla censura mossa alla Corte territoriale per non aver rilevato la gravità dell’inadempimento del conduttore, la stessa si risolve in una mera richiesta di riesame della fattispecie concreta come esattamente rilevata dal Giudice di merito, risultando del tutto irrilevante e comunque non decisivo l’elemento probatorio della diffida ad adempiere (mediante il versamento del canone maggiorato) inviata dalla locatrice al conduttore nel febbraio 2009, atteso che il Giudice di appello ha considerato ininfluente sul giudizio di responsabilità per inadempimento il mancato pagamento del canone nell’ “importo maggiorato” (ed in particolare l’omesso pagamento dell’importo ulteriore di Euro 68,00 mensili a fa data dai canoni versati dal mese di giugno 2008, successivamente alla estinzione della procedura esecutiva), stante la nullità della clausola di aggiornamento automatico ISTAT e la nullità della pattuizione verbale di aumento del canone, ed ha motivato adeguatamente in ordine alla esattezza dell’adempimento anche in relazione alle modalità di pagamento dei canoni di giugno e luglio 2009 seguite dal conduttore (trasmissione con raccomandata di assegni bancari), in considerazione della tacita adesione manifesta dal locatore in occasione delle medesime modalità dei pagamenti dei canoni relativi al precedente trimestre marzo-maggio 2009 i cui assegni, trasmessi a mezzo posta, risultavano ricevuti e regolarmente incassati dal locatore.

Tale ragionamento non viene intaccato dalla ricorrente che si limita genericamente ad addurre che la conflittualità tra le parti non consentiva di attribuire al “mero silenzio” della locatrice alcuna efficacia negoziale, non considerando che la Corte d’appello ha attribuito tale efficacia non al mero silenzio, ma al comportamento concludente della C. che aveva regolarmente incassato gli assegni pervenuti nei mesi di marzo, aprile e maggio 2009 senza formulare alcuna contestazione.

In conclusione il ricorso deve essere rigettato. Non occorre procedere a regolare le spese di lite non avendo svolto difese l’intimato.

Sussistono i presupposti per l’applicazione il D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, che dispone l’obbligo del versamento per il ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato nel caso in cui la sua impugnazione sia stata integralmente rigettata, essendo iniziato il procedimento in data successiva al 30 gennaio 2013 (cfr. Corte cass. SU 18.2.2014 n. 3774).

PQM

La Corte:

– rigetta il ricorso;

– dichiara che sussistono i presupposti per il versamento della somma prevista dal D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 13 maggio 2016.

Depositato in Cancelleria il 29 luglio 2016

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