Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 15763 del 29/07/2016


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Cassazione civile sez. III, 29/07/2016, (ud. 20/04/2016, dep. 29/07/2016), n.15763

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. AMENDOLA Adelaide – Presidente –

Dott. AMBROSIO Annamaria – rel. Consigliere –

Dott. RUBINO Lina – Consigliere –

Dott. VINCENTI Enzo – Consigliere –

Dott. PELLECCHIA Antonella – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 11587-2014 proposto da:

DRF SRL, in persona del l.r.p.t. P.A., elettivamente

domiciliata in ROMA, VIA MAGNAGRECIA 84, presso lo studio

dell’avvocato LUCA CHESSA, rappresentata e difesa dall’avvocato

CARLO GUGLIELMO IZZO giusta procura speciale in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

M.T., C.T.E., elettivamente domiciliati in

ROMA, VIA FONTANELLA BORGHESE 72, presso lo studio dell’avvocato

ANTONIO VOLTAGGIO, che li rappresenta e difende unitamente

all’avvocato PAOLO VOLTAGGIO giusta procura speciale a margine del

controricorso;

– controricorrenti –

e contro

C.T.E.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 2003/2014 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 26/03/2014;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

20/04/2016 dal Consigliere Dott. ANNAMARIA AMBROSIO;

udito l’Avvocato CARLO GUGLIELMO IZZO;

udito l’Avvocato ANTONIO VOLTAGGIO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CARDINO Alberto, che ha concluso per il rigetto del ricorso e

rigetto della domanda ex art. 96.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Decidendo sulle contrapposte domande delle parti in ordine alla risoluzione per legittimo esercizio della facoltà di recesso ovvero per inadempimento del contratto preliminare di compravendita immobiliare in data 07.05.2008, il Tribunale di Roma, con sentenza n. 20845 in data 31.10.2012, rigettava la domanda della promittente acquirente DRF s.r.l. e, ritenuto il grave inadempimento della stessa nel pagamento degli acconti contrattualmente previsti, accoglieva la domanda riconvenzionale dei promittenti venditori M.T. e C.T.E., dichiarando la legittimità del recesso da essi esercitato e il conseguente loro diritto di trattenere le somme percepite a titolo di caparra.

La decisione, gravata da impugnazione in via principale da parte della DRF s.r.l. e in via incidentale da parte dei M. – C., era parzialmente riformata dalla Corte di appello di Roma, la quale con sentenza n. 2003 in data 26.03.2014 così provvedeva: rigettava l’appello principale e, in parziale accoglimento di quello incidentale, ordinava la cancellazione della trascrizione del preliminare; condannava l’appellante principale al pagamento delle spese processuali.

Avverso detta sentenza ha proposto ricorso per cassazione la DRF, svolgendo quattro motivi, illustrati anche da memoria.

Hanno resistito, depositando controricorso M.T. e C.T.E..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. La Corte di appello ha ritenuto che l’interpretazione della comune volontà delle parti, espressa nel preliminare – peraltro ratificato in un atto notarile, assolutamente chiaro nell’attribuzione degli obblighi reciprochi e delle relative tempistiche – conduceva a ritenere che le parti avevano convenuto un pagamento dilazionato nel tempo del prezzo della compravendita fino alla data per la stipula del definitivo e che solo a tale data era fissato il termine ultimo per la demolizione di un manufatto abusivo presente sull’immobile promesso in vendita; di modo che la promittente acquirente, per poter pretendere la demolizione dell’opera abusiva e la stipula del definitivo (con contestuale pagamento della restante quota di prezzo di Lire 300.000.000), avrebbe dovuto avere già corrisposto ai venditori almeno Lire 260.000.000 (ivi incluse Lire 60.000.000 versati alla stipula del preliminare e le restanti Lire 200.000.000 in due tranches successive). E poichè la DFR s.r.l. aveva versato unicamente la somma di Lire 110.000.000, non aveva ragione di pretendere la demolizione del fabbricato.

In particolare la Corte territoriale ha evidenziato che la società, assumendo che la demolizione del manufatto dovesse prima del pagamento degli acconti, il cui mancato pagamento le era addebitato da controparte, deduceva, in un’intervenuta modifica dell’assetto contrattuale di natura obiettivamente novativa a seguito della quale sarebbero state modificate a suo favore le date previste per la demolizione: accordo del quale, peraltro, la società non aveva fornito alcuna prova e che non poteva essere neppure oggetto di prova per testimoni o per presunzioni, non essendovi nessun elemento per ritenere quantomeno verosimile che le parti avessero apportato modifiche all’originario assetto contrattuale.

1.1. Con il primo motivo di ricorso si denuncia violazione o falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., nonchè dell’art. 1231 c.c. (ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3). Al riguardo parte ricorrente deduce che la Corte di appello – postulando che essa appellante facesse valere un accordo novativo del contratto preliminare di cui si controverte – sarebbe incorsa nel duplice vizio di omessa pronuncia sulla domanda di risoluzione del preliminare di compravendita del 07.05.2008 e di ultrapetizione essendosi pronunciata su una domanda di risoluzione per inadempimento di un presunto accordo novativo, con conseguente violazione e falsa applicazione dell’art. 1231 c.c., dal momento che la modifica della tempistica delle date di pagamento costituiva solo una modificazione accessoria.

1.2. Il motivo è manifestamente infondato.

Relativamente alle censure di error in procedendo – in disparte la loro non perspicua formulazione in relazione al disposto dell’art. 360 c.p.c., n. 4 – si osserva che la Corte territoriale non si è pronunciata su un contratto “diverso” da quello per cui è causa e neppure ha omesso di pronunciarsi sulla domanda di risoluzione contrattuale, così come formulata dalla D.F.R. e riproposta con l’atto di appello, essendosi, piuttosto, limitata a interpretare i contenuti della domanda stessa, evidenziando come il dedotto inadempimento non trovasse alcun riscontro nell’assetto contrattuale formalizzato nel preliminare di vendita e postulasse, piuttosto, una modificazione della tempistica dell’accordo, di cui, peraltro, mancava alcun riscontro probatorio e sinanche una parvenza di verosimiglianza.

Orbene – rammentato che la interpretazione del giudice di merito circa il contenuto o l’ampiezza della domanda integra un accertamento in fatto, insindacabile in cassazione, salvo che sotto il profilo della correttezza della motivazione della decisione impugnata sul punto (Cass. 21 giugno 2007 n. 14486) – si osserva che, nella specie, si verte in materia di interpretazione dei contenuti delle allegazioni e deduzioni delle parti, peraltro adeguatamente motivata e, comunque, neppure specificamente attinta dal motivo all’esame.

La decisione si rivela, di conseguenza, conforme alla regola probatoria che grava la parte che agisce per la risoluzione dell’onere di fornire la prova del titolo ad ottenere l’adempimento; mentre le deduzioni di parte ricorrente, circa la qualificazione come novazione o meno del presunto accordo modificativo della tempistica dei pagamenti, si rivelano, all’evidenza, prive di decisività, una volta che la Corte territoriale ha evidenziato l’assenza di riscontro probatorio dell’accordo stesso.

Il motivo va, dunque, rigettato.

2. Con il secondo motivo di ricorso si denuncia violazione o falsa applicazione dell’art. 1362 c.c. e dell’art. 1385 c.c. (ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3). Al riguardo parte ricorrente deduce che è errata l’interpretazione della volontà contrattuale delle parti in base alla quale l’obbligo assunto dai promittenti-venditori di provvedere alla demolizione del fabbricato sarebbe diventato esigibile soltanto dopo il pagamento da parte della DRF s.r.l. di tutti gli acconti di prezzo pattuiti con il preliminare, fondandosi siffatta interpretazione sull’assunto che la demolizione dovesse essere istantanea. Deriverebbe da ciò che correttamente la parte promittente-acquirente poteva opporre l’eccezione ex art. 1460 c.c., stante l’inerzia della controparte nell’attivarsi per la demolizione.

2.1. La censura, al di là del formale richiamo dei citati artt. 1362 c.c., non evidenzia alcuna sostanziale violazione di canoni dell’ermeneutica, in cui sia incorsa la Corte, limitandosi a suggerire una diversa esegesi dell’accordo inter partes, quale formalizzato nel documento contrattuale ed è, per tale profilo, dunque, inammissibile, per non essere – come ben noto – consentito, in questa sede di legittimità, il riesame in ulteriore (terza) istanza, di valutazioni di merito quali innegabilmente sono quelle in ordine al significato più plausibile attribuibile a disposizioni negoziali.

Con essa l’impugnante cerca di insidiare la tenuta, sul piano logico e giuridico, del convincimento maturato dal giudice di merito, secondo cui il chiaro tenore letterale del preliminare – in ragione del quale era consentito il mantenimento del manufatto abusivo almeno sino a quando non fossero stati pagati Lire 260 milioni – corrispondeva “ad un principio logico nell’economia del contratto”, atteso che (anche in considerazione del fatto che, per quanto risultava dal testo contrattuale, di trattava di immobile condonabile) “non si può ragionevolmente ritenere che l’acquirente possa obbligare il venditore alla demolizione del manufatto con la semplice corresponsione di un quinto del prezzo di compravendita giacche un eventuale suo inadempimento (ovvero un rifiuto a stipulare) determinerebbe infatti un significativo danno per la parte venditrice, nemmeno in parte compensato dalla caparra sino ad allora incamerata” (v. pag. 11 della sentenza).

Valga considerare che l’interpretazione delle clausole contrattuali rientra tra i compiti esclusivi del giudice di merito ed è insindacabile in cassazione se rispettosa dei canoni legali di ermeneutica ed assistita da congrua motivazione, potendo il sindacato di legittimità avere ad oggetto non già la ricostruzione della volontà delle parti, bensì solo l’individuazione dei criteri ermeneutici del processo logico del quale il giudice di merito si sia avvalso per assolvere la funzione a lui riservata, al fine di verificare se sia incorso in vizi del ragionamento o in errore di diritto (tra le molte, v.: Cass. 14 febbraio 2012, n. 2109; Cass., ord. 9 gennaio 2013, n. 380).

Orbene, nel caso di specie, la decisione appare affidata ad una coordinata e selettiva valorizzazione del dato testuale complessivamente considerato, convalidato dal criterio logico; risultando il tutto, frutto di un’operazione esegetica riservata al giudice di merito, che risulta esente da aspetti di devianza dalle norme e dai principi di diritto sopra enunciati e, anzi, pienamente aderente al criterio di cui all’art. 1362 c.c..

Il motivo va, dunque, rigettato.

3. Con il terzo motivo di ricorso si denuncia violazione o falsa applicazione dell’art. 1385 c.c. quanto all’utilizzo del termine “caparra” (ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3). Al riguardo parte ricorrente lamenta che la Corte di appello abbia violato la norma in rubrica ritenendo che l’utilizzo del termine “caparra” da parte dei coniugi M. C. nella lettera inviata alla DRF s.r.l. comportasse l’attribuzione allo stesso termine del significato previsto dall’art. 1385 c.c..

3.1. Il motivo, al pari dei precedenti, attinge valutazioni in fatto riservate al giudice del merito, peraltro spendendo argomenti non dirimenti rispetto alle plausibili argomentazioni svolte nella decisione impugnata e, comunque, inidonei a infirmare il dato testuale valorizzato dalla Corte di appello.

Anche il presente motivo va, dunque, rigettato.

4. Con il quarto motivo di ricorso si denuncia violazione o falsa applicazione dell’art. 92 c.p.c., comma 2 (ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3). Al riguardo parte ricorrente lamenta che la Corte di appello non abbia compensato le spese del primo grado, nonostante l’esito negativo per la controparte della procedura cautelare.

1.1. Il motivo è manifestamente infondato, atteso che la Corte di appello ha disatteso le censure intese alla rimodulazione delle spese di lite, in considerazione della “sostanziale soccombenza dell’appellante in ordine a tutte le domande proposte”.

Va qui ribadito che in materia di spese giudiziali, il sindacato di legittimità trova ingresso nella sola ipotesi in cui il giudice di merito abbia violato il principio della soccombenza ponendo le spese a carico della parte risultata totalmente vittoriosa (cfr.: Cass. 16 giugno 2011, n. 13229; e ancora, ex plurimis: Cass. n. 17351/2010; Cass. n. 10052/06, Cass. n. 13660/04, Cass. n. 5386/03), il che nel caso di specie non si è verificato (e, anzi, non è neppure denunciato, dal momento che è censurata la violazione dell’art. 92 c.p.c. e non dell’art. 91 c.p.c.). Esula da tale sindacato, e rientra, invece, nel potere discrezionale del giudice del merito, la valutazione di compensare in tutto o in parte le spese di lite; e ciò sia nell’ipotesi di soccombenza reciproca, sia in relazione alla sussistenza delle “gravi ed eccezionali ragioni” di cui all’art. 92 c.p.c. (qui applicabile nel testo anteriore alla novella del 2014). Detto giudice, pertanto, non è tenuto a dare ragione, con una espressa motivazione, del mancato uso di tale facoltà e la pronuncia di condanna alle spese, anche se adottata senza prendere in esame l’eventualità di una compensazione, non può essere censurata in Cassazione, neppure sotto il profilo della mancanza di motivazione (cfr. Cass. 22 luglio 2004, n. 13660).

In conclusione il ricorso va rigettato.

Le spese del giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo alla stregua dei parametri di cui al D.M. n. 55 del 2014, seguono la soccombenza.

Non si ravvisano i presupposti per la condanna ex art. 96 c.p.c., comma 1, postulando la norma il duplice riscontro nella specie, negativo – dell’elemento soggettivo dell’illecito (mala fede o colpa grave) e dell’elemento oggettivo (entità del danno sofferto).

Infine, dal momento che il ricorso risulta notificato successivamente al termine previsto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 18, deve darsi atto della sussistenza dei presupposti di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla citata L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al rimborso delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in Euro 7.200,00 (di cui Euro 200,00 per esborsi) oltre accessori come per legge e contributo spese generali. Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento a carico della parte ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.

Così deciso in Roma, il 20 aprile 2016.

Depositato in Cancelleria il 29 luglio 2016

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