Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 15753 del 23/07/2020

Cassazione civile sez. trib., 23/07/2020, (ud. 28/02/2020, dep. 23/07/2020), n.15753

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –

Dott. CRUCITTI Roberta – Consigliere –

Dott. CATALDI Michele – Consigliere –

Dott. CONDELLO Pasqualina Anna Piera – rel. Consigliere –

Dott. NICASTRO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 24812/13 R.G. proposto da:

DAPAV DI D.A. & C. S.A.S., in persona del legale

rappresentante, D.A., D’.AN.,

D.E., R.A., tutti rappresentati e difesi, in virtù

di mandato a margine del ricorso, dall’avv. Andrea Amatucci, con

domicilio eletto presso lo studio dell’avv. Antonio Cepparulo, in

Roma, Viale Camillo Sabatini, n. 150;

– ricorrenti –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,

rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, con

domicilio eletto in Roma, alla via dei Portoghesi, n. 12;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

avverso la sentenza della Commissione Tributaria regionale del Molise

n. 26/1/13 depositata in data 5 aprile 2013

udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 28 febbraio

2020 dal Consigliere Dott.ssa Condello Pasqualina Anna Piera.

 

Fatto

RILEVATO

che:

La Commissione provinciale di Isernia rigettava i ricorsi riuniti proposti dalla Dapav di D.A. & C. s.a.s. e dai soci D.A., R.A., D’.An. ed D.E. avverso gli avvisi di accertamento per l’anno d’imposta 2007, con i quali l’Agenzia delle entrate aveva accertato maggior reddito d’impresa, indebite detrazioni ai fini I.V.A. e maggior valore della produzione netta.

La decisione veniva impugnata dalla società e dai soci e la Commissione tributaria regionale accoglieva parzialmente l’appello. Confermava, per quanto interessa in questa sede, sia la ripresa a tassazione concernente la plusvalenza derivante dalla concessione in godimento gratuito di un immobile da parte della società al socio D’.An., ritenendo che dovesse trovare applicazione l’art. 86 t.u.i.r., sia il rilievo sull’indebita detrazione di I.V.A., evidenziando che i soggetti che svolgevano attività imponibile ed attività esente non dovevano distinguere le operazioni imponibili da quelli esenti, “poichè l’imposta detraibile si otteneva applicando il prorata all’imposta assolta sugli acquisti”; riteneva, quindi, che, in relazione alle operazioni esenti riguardanti canoni locativi, la società non aveva rettificato la detrazione I.V.A. nella percentuale stabilita dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 19-bis. Riconosceva, inoltre, la deducibilità delle quote di ammortamento relative ad immobili di proprietà della società, trattandosi di beni strumentali e non di immobili “patrimonio”.

Ricorrono per la cassazione della suddetta decisione la società e i soci, affidandosi a due motivi.

L’Agenzia delle entrate resiste con controricorso e spiega ricorso incidentale, con un unico motivo.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. Con il primo motivo del ricorso principale le parti contribuenti deducono la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 86 e del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36, nonchè omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, per avere i giudici di appello ritenuto legittimo il rilievo relativo alla plusvalenza derivante dalla concessione in godimento gratuito di un bene dell’impresa al socio D’.An..

Nei gradi del giudizio di merito avevano dimostrato che il bene immobile di proprietà della società, rimasto sempre nella disponibilità dell’impresa, non era stato assegnato al socio o destinato in modo definitivo a finalità estranee all’esercizio dell’impresa, ma era stato piuttosto utilizzato sin dal 2001, a titolo di comodato gratuito, da D’.An. – divenuto socio accomandante nel 2007 – che ne aveva la piena ed esclusiva disponibilità materiale; la Direttiva CEE 77/388 invocata dall’Agenzia delle entrate a supporto della pretesa fiscale disciplinava l’1.V.A. e non le imposte dirette e in ogni caso, anche per la giurisprudenza comunitaria, l’utilizzo di un bene aziendale in assenza di accordo non era assimilabile alla assegnazione o alla destinanzione a finalità estranee del bene poichè ad essa non corrispondeva la fuoriuscita del bene dal complesso aziendale.

2. La censura è infondata.

Il D.P.R. n. 917 del 1986, art. 86, comma 1, stabilisce che “1. Le plusvalenze dei beni relativi all’impresa, diversi da quelli indicati nell’art. 85, comma 1, concorrono a formare il reddito: a) se sono realizzate mediante cessione a titolo oneroso; b) se sono realizzate mediante il risarcimento, anche in forma assicurativa, per la perdita o il danneggiamento dei beni; c) se i beni vengono assegnati ai soci o destinati a finalità estranee all’esercizio dell’impresa”.

La fattispecie in esame, nella quale si discute della concessione in comodato gratuito di un bene strumentale dell’impresa ad un socio, rientra sicuramente nell’ipotesi di cui al citato t.u.i.r., art. 86, lett. c), in ragione dell’assenza di una utilità economica indiretta (del bene concesso in comodato) per la società comodante.

La espressione “destinazione di beni a finalità estranee all’esercizio dell’impresa”, come pure l’assegnazione ai soci, per la sua genericità, prestandosi a ricomprendere qualunque ipotesi nella quale si verifichi un fenomeno d’oggettiva espulsione, senza corrispettivo, del bene dall’impresa ed al suo regime, è oggetto di contrapposte interpretazioni.

Parte della dottrina sostiene che il presupposto per il realizzo della plusvalenza non si concretizza se il bene, pur non essendo più utilizzato nel ciclo produttivo, resti pur sempre appartenente alla società; si è precisato, in particolare, che non si verifica tale presupposto in presenza di contratti che trasferiscono temporaneamente solo la disponibilità del bene a terzi (locazione, affitto, comodato), e ciò sulla base della considerazione che i plusvalori patrimoniali richiedono il passaggio definitivo del bene dal patrimonio della società a quello di soci o di terzi e, quindi, il mutamento nella titolarità dei beni medesimi.

La tesi richiamata non è sostenibile, essendo maggiormente condivisibile altra interpretazione della dottrina, secondo la quale l’assegnazione dei beni ai soci o la loro destinazione a finalità estranee all’attività d’impresa non costituisce mai un’operazione fiscalmente neutrale.

Partendo dalla premessa che la cessione a titolo oneroso non debba essere elevata a condicio sine qua non della tassazione delle plusvalenze delle imprese, secondo questa diversa linea interpretativa, analogamente a quanto previsto dal t.u.i.r., art. 58, comma 3, – che stabilisce che si determina una plusvalenza soggetta a tassazione anche nell’ipotesi in cui un bene viene utilizzato personalmente dall’imprenditore o dai suoi familiari o viene destinato a finalità estranee all’esercizio dell’impresa (cd. autoconsumo) – anche l’inciso “altre finalità estranee all’esercizio dell’impresa” che si ritrova nel t.u.i.r., art. 86, comma 1, lett. c), lascia ritenere che in tutte queste ipotesi il fenomeno rilevante ai fini fiscali è il venir meno dell’antecedente destinazione del bene all’esercizio dell’impresa. Infatti, considerato che l’azienda è definita come il complesso dei beni organizzati per (o destinati al) l’esercizio dell’impresa, l’atto di destinazione in esame è lo strumento attraverso il quale un bene o un complesso di beni vengono estromessi da tale ordinamento; per effetto di tale atto muta la funzione economica dei beni che vengono sottratti all’organizzazione dell’impresa. Sotto il profilo fiscale, i beni che entrano a far parte di un’azienda commerciale acquistano la singola caratteristica di poter produrre plusvalenze o minusvalenze, patrimoniali o reddituali, che concorrono a formare il reddito d’impresa; nel momento in cui i beni escono dall’azienda perdono immediatamente tale caratteristica, con la conseguenza che assume particolare rilevanza fiscale l’atto di destinazione con il quale prende origine o si conclude il processo produttivo relativamente ai beni cui viene impressa la destinazione aziendale o extra-aziendale.

In altri termini, secondo la previsione di cui al t.u.i.r., art. 86, comma 1, lett. c) l’atto di destinazione del bene costituisce presupposto di tassabilità, ben potendo il processo produttivo iniziare o concludersi anche senza atti di alienazione, con il solo inserire un bene nell’organizzazione aziendale o, al contrario, con il sottrarre il bene a tale destinazione anche senza atti di alienazione a titolo oneroso.

L’atto di destinazione assume, dunque, rilevanza e viene considerato presupposto di imponibilità sia quando con esso il bene viene devoluto al consumo personale o familiare dell’imprenditore, sia quando, con il distacco dall’azienda, viene mutata la utilizzazione economica del bene e la sua condizione giuridica, poichè esso cessa di appartenere al processo produttivo; in entrambe le ipotesi, il mutamento di destinazione si attua tramite un atto non oneroso, per il quale difetta sempre la contropartita patrimoniale, ma che determina plusvalenza, per la quantificazione della quale si deve avere riguardo al valore normale del bene oggetto dell’atto con cui si realizza il mutamento di destinazione.

Questo Collegio, aderendo al secondo orientamento dottrinale richiamato, ritiene che la ratio del t.u.i.r., art. 86, comma 1, lett. c), debba essere individuata nell’esigenza di prevedere una fattispecie di plusvalenza fiscalmente rilevante anche nel caso in cui i beni siano stati di fatto “estromessi” dalla società o per effetto della assegnazione ai soci o per destinazione ad altre finalità rispetto all’esercizio dell’impresa, e ciò nell’intento di evitare fenomeni elusivi che potrebbero determinare lo spostamento di massa imponibile dall’area di imposizione “naturale”, ovvero quella della società che possiede i beni, a soggetti terzi (quali i soci).

Si vuole, in questo modo, chiudere ogni varco alle fuoriuscite di beni dal ciclo impositivo senza applicazione del tributo sul relativo plusvalore maturato.

La rilevanza impositiva della destinazione a finalità estranee all’esercizio dell’impresa trova, in altri termini, giustificazione nella necessità di impedire che i beni possano essere sottratti dal circuito imprenditoriale senza che il valore di essi concorra alla determinazione del reddito di impresa del periodo di riferimento. Poichè sia nel caso di assegnazione del bene al socio, sia nell’ipotesi della sua destinanzione a finalità estranee all’esercizio dell’impresa manca un corrispettivo in denaro, il ricavo che viene sottoposto a tassazione è il valore normale del bene. La plusvalenza è, in tal caso, costituita dalla differenza tra il valore normale e il costo non ammortizzato dei beni (t.u.i.r., art. 86, comma 3).

Tale conclusione, d’altro canto, trova attuazione anche in materia di I.V.A., se si considera che il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 2, comma 2, n. 5, include tra le cessioni imponibili quelle gratuite di beni la cui produzione o il cui commercio rientra nell’attività propria dell’impresa e la destinazione dei beni al consumo personale o familiare dell’imprenditore e ad altre finalità estranee all’esercizio dell’impresa, anche se determinate da cessazione dell’attività (Cass. n. 12322 del 24/5/2006; Cass. n. 8852 del 7/4/2008).

Questa essendo l’interpretazione letterale e sistematica della disposizione normativa di cui al t.u.i.r., art. 86, comma 1, lett. c), nel caso di specie, gli stessi ricorrenti riconoscono che il bene immobile di proprietà della società è stato concesso in godimento a titolo gratuito ad D’.An. – divenuto socio nel 2007 – il quale ne ha acquisito la disponibilità materiale in via esclusiva, utilizzandolo come abitazione.

Anche se non è in contestazione che la società abbia conservato la proprietà del bene immobile, deve ritenersi che l’uso dell’immobile da parte del socio in assenza di un corrispettivo, riguardando un bene strumentale, dia luogo a plusvalenza tassabile ai sensi del t.u.i.r., art. 86, comma 3.

La Commissione regionale, non condividendo l’assunto difensivo dei ricorrenti, i quali ritengono inapplicabile la disposizione normativa perchè non si è verificato il trasferimento della proprietà del cespite, hanno affermato che il prelievo del bene immobile dall’impresa è assimilabile ad una cessione a titolo oneroso e, pertanto, la sentenza va esente dalle censure ad essa rivolte.

3. Con il secondo motivo i ricorrenti denunciano violazione e falsa applicazione della Direttiva I.V.A. e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 19-bis, per avere la Commissione regionale confermato la ripresa relativa all’applicazione del pro-rata, con cui l’Amministrazione finanziaria, all’esito di controllo delle operazioni esenti, ha rilevato che la società non aveva esposto nella dichiarazione I.V.A. le operazioni di cui alle fatture emesse nei confronti di C.R. e dello studio associato Miele per canoni di locazione degli immobili e la cessione a titolo gratuito di un immobile ad uno dei soci.

Anche tale motivo è infondato.

Il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 19, comma 5, stabilisce i criteri di determinazione della percentuale di indetraibilità (cd. pro-rata), prevedendo: “5. Ai contribuenti che esercitano sia attività che danno luogo ad operazioni che conferiscono il diritto alla detrazione sia attività che danno luogo ad operazioni esenti ai sensi dell’art. 10, il diritto alla detrazione dell’imposta spetta in misura proporzionale alla prima categoria di operazioni e il relativo ammontare è determinato applicando la percentuale di detrazione di cui all’art. 19-bis”.

Lo stesso D.P.R. n. 633 del 1972, art. 19-bis stabilisce al comma 1 le modalità di calcolo e, al comma 2, prevede alcune deroghe: “1. La percentuale di detrazione di cui all’art. 19, comma 5, è determinata in base al rapporto tra l’ammontare delle operazioni che danno diritto a detrazione, effettuate nell’anno, e lo stesso ammontare aumentato delle operazioni esenti effettuate nell’anno medesimo. La percentuale di detrazione è arrotondata all’unità superiore o inferiore a seconda che la parte decimale superi o meno i cinque decimi. 2. Per il calcolo della percentuale di detrazione di cui al comma 1 non si tiene conto (….), quando non formano oggetto dell’attività propria del soggetto passivo o siano accessorie alle operazioni imponibili, delle altre operazioni esenti indicate ai numeri da 1) a 9) del predetto art. 10, ferma restando la indetraibilità dell’imposta relativa ai beni e servizi utilizzati esclusivamente per effettuare queste ultime operazioni”.

Questa Corte ha precisato che ai fini della determinazione dell’imposta a carico dell’impresa, nel sistema I.V.A. della rivalsa e della detrazione, ciò che rileva è l’effettivo volume di affari del contribuente, costituito dall’ammontare delle cessioni di beni e delle prestazioni di servizi dallo stesso effettuate nell’esercizio dell’attività imprenditoriale (D.P.R. n. 633 del 1972, art. 1). Ne discende che, così come le operazioni passive che abbiano comportato il pagamento dell’I.V.A. in rivalsa non danno diritto a detrazione se non rientrano nell’attività propria dell’impresa, poichè non hanno contribuito a determinare l’entità delle cessioni di beni o delle prestazioni di servizi che costituiscono l’oggetto dell’attività imprenditoriale, per la medesima ragione – a contrario – le operazioni attive esenti estranee a quell’oggetto non possono rientrare nel calcolo del pro-rata di riduzione dell’I.V.A. detraibile (Cass. n. 10528 del 23/10/1998). Ciò in quanto la determinazione dell’effettivo volume di affari del contribuente, sul quale è destinata ad incidere l’imposta, non può essere effettuata se non sulla base dell’attività in concreto dal medesimo esercitata (Cass., sez. 5, n. 4613 del 9/3/2016).

Dell’art. 19-bis, comma 2, richiamato, al fine della determinazione della percentuale di indetraibilità (cd. pro-rata), impone di tenere conto anche delle operazioni esenti, quando queste costituiscano oggetto “dell’attività propria dell’impresa” (Cass. n. 11085 del 7/5/2008). Si è affermato che “l’esigenza, ai fini della determinazione dell’imposta, di tenere conto del coacervo delle operazioni di cessione e di prestazione di servizi effettuate nell’esercizio effettivo dell’impresa, comporta, infatti, la necessità di avere riguardo, non già all’attività previamente definita dall’atto costitutivo come oggetto sociale, bensì a quella realmente svolta dal contribuente nell’esercizio dell’impresa” (Cass., sez. 5, n. 6486 del 16/3/2018; Cass., sez. 5, n. 4613 del 9/3/2016; Cass., sez. 5, n. 6574 del 12/03/2008; Cass., sez. 5, n. 19484 del 10/9/2009; Cass., sez. 5, n. 22243 del 21/10/2009; Cass., sez. 5, n. 912 del 18/1/2006). Ciò significa che, per verificare se una determinata operazione attiva rientri o meno nell’attività propria di una società, ai fini della inclusione nel calcolo della percentuale d’imposta detraibile in relazione al compimento di operazioni esenti (cd. pro-rata), oltre agli atti che sono espressione tipica del raggiungimento del fine produttivo enunciato nell’atto costitutivo dell’ente, occorre avere riguardo anche a tutte le attività ulteriori che si raccordino con detto fine secondo parametri di regolarità causale, o che siano comunque ad esso legate da un nesso di carattere funzionale non meramente occasionale (Cass., sez. 5, n. 5970 del 14/3/2014; Cass., sez. 5, n. 4613 del 9/3/2016, cit.; Cass., sez. 5, n. 7654 del 24/3/2017).

Anche dai documenti di prassi emerge che il pro-rata si applica quando le operazioni esenti, siccome svolte in modo sistematico e, quindi, normalmente esercitate, determinano l’esercizio di attività esente che, se non accessoria ad altra attività principale, rappresenta attività propria del soggetto passivo I.V.A. (Circolare del Ministero delle Finanze n. 328 del 24 dicembre 1997 e risoluzione Agenzia delle entrate n. 194/E/2002).

Tra le operazioni esenti indicate al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 10, nn. da 1) a 9), espressamente richiamate dall’art. 19-bis, comma 2, dello stesso decreto, rientrano le locazioni di immobili – previste dall’art. 10, n. 8 – le quali, quando formano oggetto dell’attività propria della impresa, concorrono a determinare sia l’ammontare delle operazioni esenti effettuate nell’anno sia il volume d’affari dell’anno stesso, incidendo in tal modo sulla determinazione della percentuale di indetraibilità della imposta (cd. pro-rata).

Nella fattispecie che ci occupa, i giudici regionali, avendo rilevato che le operazioni esenti riguardavano canoni locativi, hanno correttamente ritenuto che la società non avesse rettificato la detrazione I.V.A. nella percentuale stabilita dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 19-bis, tenuto conto che l’attività di locazione costituisce oggetto dell’attività propria dell’impresa.

5. Con l’unico motivo del ricorso incidentale, la difesa erariale censura la decisione impugnata per violazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 90, nella parte in cui è stato rigettato il rilievo concernente l’indebita deduzione delle quote di ammortamento.

Con l’avviso di accertamento la Amministrazione ha disconosciuto la deducibilità delle quote di ammortamento relative ad un immobile facente parte dell’azienda concesso in affitto alla società General Dap s.a.s. ed a fabbricati a destinazione abitativa, ritenendo che si trattasse di immobili patrimonio che concorrevano alla determinazione del reddito secondo le regole proprie dei redditi fondiari.

La Commissione regionale, nel respingere l’appello dell’Ufficio, fonda la propria decisione sul presupposto che gli immobili devono, invece, considerarsi strumentali, considerato che la loro collocazione sul mercato locativo rientra nell’attività di gestione propria di una società immobiliare.

Le conclusioni cui perviene il giudice di appello sono condivisibili.

Occorre premettere che i beni dell’impresa comprendono i “beni merce” -ossia quei beni alla cui produzione o scambio è destinata l’attività d’impresa – ed i beni diversi dai beni merce, a loro volta distinti in beni strumentali, per natura o per destinazione, e in beni meramente patrimoniali; il D.P.R. n. 917 del 1986, art. 90, nella sola ipotesi di beni patrimoniali, prevede che “i redditi degli immobili che non costituiscono beni strumentali per l’esercizio dell’impresa, nè beni alla cui produzione o al cui scambio è diretta l’attività di impresa concorrono a formare il reddito nell’ammontare determinato secondo le disposizioni del capo II del titolo I per gli immobili situati nel territorio dello Stato ed a norma dell’art. 70 per quelli situati all’estero…”, stabilendo altresì l’indeducibilità delle spese e degli altri componenti negativi relativi a tali beni immobili.

Come è stato chiarito da questa Corte (Cass., sez. 5, n. 2153 del 25/1/2019; Cass., sez. 5, n. 19815 del 23/7/2019, in motivazione), il discrimine tra i beni strumentali o beni destinati allo scambio, da un lato, e beni patrimoniali, dall’altro, non deve essere rinvenuta nel fatto che gli stessi siano stati o meno locati a terzi, quanto piuttosto nella loro destinazione, ossia se destinati ad una mera gestione del patrimonio sociale, oppure compresi tra i cd. beni-merce, cioè volti all’attività di produzione o di scambio, oggetto dell’attività d’impresa.

L’Amministrazione finanziaria ha ritenuto di collocare i cespiti nella categoria disciplinata dall’art. 90 t.u.i.r., sottolineando che essi risultavano locati a terzi con destinazione abitativa e che pertanto l’attività svolta dalla società si risolveva in una mera gestione del patrimonio immobiliare.

Risultando, tuttavia, pacifico, come rilevato dalla C.T.R., che la società contribuente opera nel campo immobiliare ed ha come oggetto sociale l’acquisto, la vendita e la gestione sotto ogni profilo di immobili, è evidente che l’attività di locazione a terzi degli immobili rientra pienamente nell’oggetto dell’attività di impresa. Ciò impone di escludere l’applicabilità dell’art. 90 t.u.i.r. e di ritenere deducibili le quote di ammortamento.

6. In conclusione, vanno rigettati il ricorso principale ed il ricorso incidentale.

La reciproca soccombenza delle parti giustifica l’integrale compensazione delle spese del giudizio di legittimità.

PQM

La Corte rigetta il ricorso principale; rigetta il ricorso incidentale; compensa interamente tra le parti le spese del giudizio di legittimità.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte dei ricorrenti principali dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 28 febbraio 2020.

Depositato in cancelleria il 23 luglio 2020

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