Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 15750 del 28/07/2016


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Cassazione civile sez. VI, 28/07/2016, (ud. 27/06/2016, dep. 28/07/2016), n.15750

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE T

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –

Dott. CARACCIOLO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. NAPOLITANO Lucio – Consigliere –

Dott. FEDERICO Guido – Consigliere –

Dott. VELLA Paola – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 17511/2014 proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE (OMISSIS), in persona del Direttore pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12,

presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e

difende ope lcgis;

– ricorrente –

contro

MAGAZZINI ARREDAMENTI NAVIGLIO SRL IN LIQUIDAZIONE;

– intimata –

avverso la sentenza n. 26/07/2013 della COMMISSIONE TRIBUTARIA

REGIONALE di BARI del 21/02/2013, depositata il 20/05/2013;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

27/06/2016 dal Consigliere Relatore Dott. GIUSEPPE CARACCIOLO.

Fatto

FATTO E DIRITTO

La Corte, ritenuto che, ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c., è stata depositata in cancelleria la seguente relazione:

Il relatore cons. Giuseppe Caracciolo;

letti gli atti depositati;

osserva:

La CTR di Bari ha respinto l’appello dell’Agenzia – appello proposto contro la sentenza n. 25/24/2010 della CTP di Bari che aveva già accolto il ricorso di “Magazzini Arredamenti Naviglio srl” – ed ha così annullato l’avviso di accertamento relativo ad IVA – IRPEF – IRAP per l’anno 2005, avviso adottato sulla scorta delle risultanze del mod. TM28U – studio di settore, in considerazione del fatto che l’ammontare dei ricavi per l’anzidetto periodo era risultato inferiore a quello statistico, con uno scostamento pari ad Euro 26.212,00, salvo il fatto che l’accertamento era stato ridotto a maggiori ricavi pari ad Euro 16.500,00 per tenere conto della proposta fatta dall’Ufficio in sede di accertamento con adesione, per quanto detta proposta non avesse avuto esito definitorio.

La predetta CTR – dopo avere dato atto che il contribuente, in sede di contraddittorio, aveva fornito all’ufficio una serie di elementi utili a giustificare in concreto le ragioni dello scostamento – ha motivato la decisione evidenziando che dalla documentazione depositata emergeva che i minori ricavi conseguiti erano da attribuirsi alla crisi del settore, così come all’aumento dei costi principali, ragioni (già portate all’evidenza dell’ufficio ante causam) per le quali l’attività era stata poi cessata. D’altronde, non sussistevano le “gravi incongruenze” (non equiparabili a “meri scostamene rispetto alle risultanze di GERICO”) richieste per l’applicazione del metodo presuntivo ma, per contro, esistevano indizi utili a dimostrare l’inapplicabilità del metodo statistico, e cioè: la marginalità dell’impresa, l’inesistenza di dipendenti, la notoria crisi del settore nel periodo considerato, l’ordinata e regolare contabilità tenuta in azienda. In questa situazione, il recupero a tassazione di maggior imponibile tramite l’applicazione dello studio di settore non appariva avvalorato da altri elementi di prova.

L’Agenzia ha interposto ricorso per cassazione affidato a quattro motivi.

La parte contribuente non si è difesa.

Il ricorso – assegnato allo scrivente relatore, componente della sezione di cui all’art. 376 c.p.c. – può essere definito ai sensi dell’art. 375 c.p.c..

Infatti, con il quarto motivo di impugnazione (centrato sulla violazione degli artt. 112 e 132 c.p.c., nonchè D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 2 e 36, da anteporsi agli altri per ragioni di priorità logica) la parte ricorrente si duole sia del fatto che “non risulta chiaro il percorso logico seguito dal giudice”, sia del fatto che “le eccezioni sopra riportate dall’Ufficio …. non sono state oggetto di considerazione da parte del giudice di appello”.

Il motivo di impugnazione appare inammissibilmente formulato per la sua manifesta contradditorietà, siccome centrato su censure tra loro incompatibili (quella dell’omessa pronuncia e quella della insufficiente ed inadeguata ovvero ancora inesistente motivazione).

Con il terzo motivo poi (centrato sul vizio di omesso esame di un fatto decisivo) la parte ricorrente si duole della “assenza di congruenza logico-motivazionale della sentenza impugnata in relazione agli specifici elementi individuati dall’Ufficio e totalmente omessi nella considerazione del giudice”: cioè in relazione sia “alla valutazione in ordine alla sussistenza del presupposto impositivo” sia “alla valutazione operata dal giudice in ordine alla sussistenza dei presupposti di legittimità dell’atto impugnato”.

Anche detto motivo appare inammissibilmente formulato, come risulta dalla stessa trascrizione delle ragioni che lo sorreggono, che non tendono r all’individuazione dei “fatti” di cui il giudicante avrebbe del tutto omesso l’esame, ma alla critica alle ragioni giuridiche utilizzate per sorreggere la determinazione giudiziale.

D’altronde, nella sua chiusa, il motivo in argomento recupera la censura di un “vizio motivazionale” che costituisce un concentrato delle ragioni per le quali la parte dichiara di non condividere gli argomenti su cui si fonda la decisione impugnata, ciò che costituisce la migliore delle riprove della incoerenza tra archetipo valorizzato e fondamento della critica prospettata.

Venendo al primo motivo di impugnazione (centrato sulla violazione della L. n. 212 del 2000, art. 7; D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42; D.L. n. 331 del 1993, artt. 62 bis e 62 sexies, nonchè art. 2697 c.c.) con esso la parte ricorrente (dopo avere posto in evidenza che nell’avviso di accertamento si era tenuto conto, in senso favorevole al contribuente, dello stato congiunturale degli ultimi anni e del tipo merceologico commercializzato, nonchè, in senso sfavorevole per il contribuente, dell’ubicazione dell’esercizio commerciale e della presenza di dipendenti), si duole dell’erroneità della sentenza impugnata nella parte in cui “ha ritenuto che la notoria crisi di settore e l’ordinata e regolare contabilità” siano condizioni di esclusione dell’applicabilità degli studi di settore, per quanto il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, consenta di desumere l’esistenza di attività non dichiarate (anche in contrasto con le risultanze delle scritture contabili regolarmente tenute) da presunzioni semplici tra le quali le gravi incongruenze tra i ricavi dichiarati e quelli appunto risultanti dall’applicazione degli studi di settore.

Il motivo appare infondato e da disattendersi.

Benchè sia sicuramente ammissibile e metodologicamente corretta la modalità accertativa prescelta dall’ufficio e benchè sia stato debitamente espletato il necessario contraddittorio amministrativo per confronto degli esiti di detta metodologia con le giustificazioni fornite dalla parte contribuente, gli esiti di detta modalità accertativa finiscono comunque per consistere in mere presunzioni semplici, a fronte delle quali non è pregiudicata la facoltà della parte contribuente di offrire e dedurre (con ogni mezzo e contenuto) prova contraria a riguardo della sussistenza di condizioni che giustificano l’esclusione dell’impresa dall’area dei soggetti cui si addicono gli standards, prova contraria che il giudice tributario può liberamente valutare nell’esercizio del potere (a lui riservato) di selezionare e scegliere le fonti del proprio convincimento (in termini si veda proprio Cass. sez. 5, Sentenza n. 11633 del 15.5.2013 che è stata opportunamente menzionata dalla stessa parte ricorrente).

A questa stregua si è appunto risoluto il giudice di appello nella pronuncia qui impugnata, pronuncia nella quale il giudicante ha correttamente enumerato le ragioni (coerenti e non censurabili nel merito) per le quali ha ritenuto che non integrassero il presupposto delle “gravi incongruenze” quelle desunte dal raffronto tra redditi dichiarati e redditi determinati statisticamente (la cui differenza originaria risulta appunto pari a ciò che il giudicante ha computato – Euro 17.212,00 – e non a ciò che la parte ricorrente assume, Euro 26.212,00), emergendo dalla documentazione di parte contribuente convincenti indizi dell’inapplicabilità del metodo statistico alla specie di causa.

Le censure di violazione di legge proposte dalla parte pubblica non valgono perciò a consentire di ritenere censurabile l’accertamento “sul fatto” operato dal giudice di appello.

Con il secondo motivo di impugnazione (centrato sulla violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 2, e degli artt. 277 e 112 c.p.c.) la parte ricorrente si duole infine, della violazione delle disposizioni concernenti l’esatto ambito della giurisdizione tributaria, siccome estesa al merito della pretesa tributaria e non limitata agli effetti caducatori dell’atto impositivo, tanto da non avere il giudicante proceduto alla “determinazione dell’imposta dovuta”.

Il motivo appare infondato e da disattendersi.

La parte ricorrente non si è affatto avveduta che il giudice di appello ha in realtà provveduto sul “merito della pretesa tributaria” (ritenendola radicalmente infondato) senza essersi affatto limitato “alla determinazione degli effetti caducatori dell’atto impositivo”. Quest’ultimo è stato infatti dichiarato nullo per ragione degli esiti non convincenti ai quali il metodo deduttivo applicato dagli accertatori ha condotto e nulla affatto per ragioni formali legati all’atto provvedimentale medesimo.

Il giudicante ha invero ritenuto “inapplicabile” alla realtà aziendale in esame il metodo statistico in sè considerato, ciò che elide ab imis la validità degli esiti dell’applicazione di detto metodo, all’utilizzo del quale il giudicante non avrebbe certo potuto sostituire una radicale riqualificazione della tipologia di accertamento, pena lo sconfinamento in settori che non gli competono e cioè quelli dell’amministrazione attiva.

Si conclude nel senso che le doglianze di parte ricorrente non consentono di ritenere che la decisione impugnata, sotto tutti i profili riguardata, sia meritevole di cassazione.

Pertanto, si ritiene che il ricorso possa essere deciso in camera di consiglio per manifesta infondatezza ed inammissibilità;

Roma, 29 febbraio 2016;

ritenuto inoltre:

che la relazione è stata notificata agli avvocati delle parti;

che non sono state depositate conclusioni scritte, nè memorie;

che il Collegio, a seguito della discussione in camera di consiglio, condivide i motivi in fatto e in diritto esposti nella relazione e, pertanto, il ricorso va rigettato;

che le spese di lite non necessitano di regolazione, atteso che la parte vittoriosa non si è costituita.

PQM

La Corte rigetta il ricorso. Nulla sulle spese.

Così deciso in Roma, il 27 giugno 2016.

Depositato in Cancelleria il 28 luglio 2016

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