Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 15741 del 07/06/2021

Cassazione civile sez. trib., 07/06/2021, (ud. 03/02/2021, dep. 07/06/2021), n.15741

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. STALLA Giacomo Maria – Presidente –

Dott. PAOLITTO Liberato – Consigliere –

Dott. RUSSO Rita – rel. Consigliere –

Dott. MONDINI Antonio – Consigliere –

Dott. PEPE Stefano – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 3371/2014 proposto da:

EQUITALIA SUD S.P.A. (c.f. (OMISSIS)) in persona del Direttore pro

tempore elettivamente domiciliata in Roma, via Costabella 26, presso

lo studio dell’avv. A. Fiorini rappresentata e difesa dall’avv.

Ivana Carso del foro di Bari;

– ricorrente –

contro

B.N., c.f. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in Roma,

via Alberico II n. 35 presso lo studio dell’avv. Giuseppe de Simone,

rappresentato e difeso dall’avv. Antonio Guantario del Foro di

Trani;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 54/08/13 della COMMISSIONE TRIBUTARIA

REGIONALE della PUGLIA depositata in data 11 giugno 2013;

visto il parere del PG che conclude per l’accoglimento;

adita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 03/02/2021 dal Consigliere Relatore Dott. RITA

RUSSO.

 

Fatto

RILEVATO

che:

1.- B.N. ha opposto la comunicazione di iscrizione ipotecaria P.I. (OMISSIS) per la somma di Euro 526.420,16, pari al doppio del carico tributario, deducendo, in particolare, che la ipoteca è stata iscritta su beni compresi nel fondo patrimoniale costituito con atto del 22.3.1995, ai rogiti del Notaio R.M.V.. Il ricorso è stato respinto in primo grado. Il contribuente ha proposto appello, che la CTR della Puglia, con sentenza depositata in data 11 giugno 2014, ha accolto, ritenendo che per i debiti tributari di cui si tratta, inerenti l’attività di impresa della SOC. AN. OLII, s.r.l. cui il contribuente partecipa quale mero socio di capitale, non si potesse procedere ad esecuzione forzata sui beni facenti parte del fondo patrimoniale, di cui il contribuente aveva provato la costituzione, trattandosi di obbligazioni estranee ai bisogni della famiglia.

2. Avverso la predetta sentenza ha proposto ricorso per cassazione Equitalia con atto notificato in data 27 gennaio 2014, affidandosi a due motivi. Il contribuente ha resistito con controricorso. Il PG ha concluso per l’accoglimento. Il controricorrente ha depositato memoria. La causa è stata trattata alla udienza camerale del 3 febbraio 2021.

Diritto

RILEVATO

che:

3.- Con il primo motivo del ricorso la parte ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 170 e 2697 c.c.. Secondo l’agente di riscossione la CTR è incorsa in errore, violando il principio dell’onere della prova che impone al contribuente di provare che i debiti sono stati contratti per esigenze estranee ai bisogni della famiglia, poichè ha affermato che i debiti tributari da partecipazioni in società di capitale sarebbero per definizione estranei alle esigenze di famiglia e, in quanto tali, la circostanza non poteva non essere conosciuta dall’agente di riscossione. Si tratta di una affermazione apodittica, mentre come da costante giurisprudenza della Corte di legittimità, è necessario che l’accertamento venga svolto in concreto dal giudice e non sulla base della natura del debito. Di contro, il richiedente non ha fornito prova della consapevolezza da parte dell’agente di riscossione dell’estraneità del debito ai bisogni della famiglia.

3.1- Il motivo è infondato.

La CTR ha fatto riferimento nella motivazione ad un principio di diritto affermato da questa Corte, secondo il quale, una volta costituito il fondo patrimoniale, il criterio identificativo dei crediti il cui soddisfacimento può essere realizzato in via esecutiva sui beni conferiti nel fondo va ricercato non già nella natura delle obbligazioni (legale o contrattuale), ma nella relazione esistente tra il fatto generatore di esse ed i bisogni della famiglia (Cass. n. 15862/2009).

Il principio è stato nel tempo confermato e ulteriormente sviluppato da questa Corte, affermando che in tema di riscossione coattiva delle imposte, l’iscrizione ipotecaria di cui al D.P.R. n. 602 del 1973, art. 77, è ammissibile anche sui beni facenti parte di un fondo patrimoniale alle condizioni indicate dall’art. 170 c.c., anche per le obbligazioni tributarie, se strumentali ai bisogni della famiglia o se il titolare del credito non ne conosceva l’estraneità ai bisogni della famiglia (Cass. n. 23876/2015).

Ed ancora, si è affermato che il criterio identificativo dei debiti per i quali può avere luogo l’esecuzione sui beni del fondo patrimoniale va ricercato non già nella natura dell’obbligazione, ma nella relazione tra il fatto generatore di essa e i bisogni della famiglia, sicchè anche un debito di natura tributaria sorto per l’esercizio dell’attività imprenditoriale può ritenersi contratto per soddisfare tale finalità, fermo restando che essa non può dirsi sussistente per il solo fatto che il debito derivi dall’attività professionale o d’impresa del coniuge, dovendosi accertare se l’obbligazione sia sorta per il soddisfacimento dei bisogni familiari (nel cui ambito vanno incluse le esigenze volte al pieno mantenimento ed all’univoco sviluppo della famiglia) ovvero per il potenziamento della di lui capacità lavorativa, e non per esigenze di natura voluttuaria o caratterizzate da interessi meramente speculativi (Cass. n. 3738/2015; Cass. n. 23876/2015; Cass. n. 25443/2017).

Il fondo patrimoniale costituito ex art. 167 c.c., impone infatti un vincolo di destinazione su determinati beni, per far fronte ai bisogni della famiglia, con la conseguenza, in ragione di quanto dispone l’art. 170 c.c., che “la esecuzione sui beni del fondo e sui frutti di essi non può aver luogo per debiti che il creditore conosceva essere stati contratti per scopi estranei ai bisogni della famiglia”. Qualora sorga controversia sulla assoggettabilità dei beni ad esecuzione forzata deve, pertanto, accertarsi in fatto se il debito si possa dire contratto per soddisfare i bisogni della famiglia (o se il titolare del credito non ne conosceva l’estraneità a tali bisogni) e, in particolare, qualora si tratti di obbligazioni tributarie gravanti sui redditi, se il reddito in questione è destinato alla soddisfazione dei bisogni familiari, con la importante precisazione che, se è vero che tale finalità non si può dire sussistente per il solo fatto che il debito sia sorto nell’esercizio dell’impresa, è vero altresì che tale circostanza non è nemmeno idonea ad escludere, in via di principio, che il debito si possa dire contratto, appunto, per soddisfare tali bisogni (v. da ultimo Cass. n. 10166/2020).

Diviene allora importante precisare cosa si debba intendere per bisogni familiari e come si individuano le risorse economiche ad essi destinate, all’interno di un modello familiare che nel tempo si è evoluto e tende ad armonizzare e bilanciare gli interessi della famiglia con quelli individuali ed a valorizzare le scelte di libertà nonchè l’autonomia dei coniugi nel regolare la vita familiare, nella cornice data dai doveri definiti come inderogabili dall’art. 160 c.c.. Sotto un certo profilo è innegabile che ogni ricchezza individuale è potenzialmente idonea ad arrecare un vantaggio anche indiretto al nucleo familiare, ma ai fini che qui interessano la nozione di obbligazione contratta per i bisogni della famiglia deve necessariamente avere una portata più circoscritta, diversamente si vanificherebbe la riconosciuta possibilità per il debitore di dimostrare la sussistenza del requisito soggettivo, anche sulla base di presunzioni (Cass., n. 15886/2014; Cass. n. 4011/2013). Una parte della dottrina ha infatti osservato che se si fornisce un’interpretazione lata della locuzione “bisogni della famiglia”, facendovi rientrare ogni vincolo obbligatorio idoneo a determinare un arricchimento indiretto del nucleo familiare, la prova della consapevolezza in capo al creditore dell’estraneità del debito per cui si procede a quelli contratti per il soddisfacimento di tali bisogni risulta non solo estraneamente difficile, ma anche in ultima analisi inutile. Di questa criticità appare però consapevole quella giurisprudenza di legittimità, in progressivo consolidamento, che tende a richiedere la inerenza diretta ed immediata coro i bisogni della famiglia della obbligazione contratta (v. Cass. n. 16176/2018; Cass. n. 8201/2020). In quest’ottica, può dirsi che non sono estranei ai bisogni della famiglia i debiti tributari inerenti all’attività di lavoro dei coniugi (o altre attività produttive), seda tale attività la famiglia trae i mezzi di mantenimento. Ciò però implica la necessità di inquadrare la questione nella disciplina della contribuzione familiare, che è data da un regime primario e cioè l’obbligo di contribuzione di cui agli artt. 143 e 316-bis c.c., e un regime secondario, dato dal regime patrimoniale scelto dai coniugi, e qui non può disconoscersi che i coniugi che costituiscono un fondo patrimoniale per ciò stesso esprimono una scelta che tende, se non a circoscrivere, quantomeno a separare le risorse che si vuole destinare alla famiglia da altre.

In questo contesto, i bisogni familiari non possono intendersi come potenzialmente assorbenti tutti i redditi del soggetto obbligato. Deve considerarsi che non sussiste un dovere generalizzato dei coniugi di destinare tutti proventi della propria attività lavorativa (o i redditi da capitale) ai bisogni della famiglia. Infatti, ciascun coniuge percettore di reddito ha, rispetto ai proventi, un potere ò di godimento, amministrazione e disposizione pieno, salvo il limite di contribuire ai bisogni della famiglia (Cass. n. 2597/2006). Questa regola è stata enunciata dalla Corte di legittimità con riferimento ai coniugi in regime di comunione legale; a maggior ragione si dovrà ritenere libero (una volta assolto l’onere di contribuzione) di destinare ad altre finalità i propri beni e proventi il coniuge che ha provveduto a costituire un fondo patrimoniale, e cioè un insieme di beni che già di per sè sono destinati al soddisfacimento dei bisogni della famiglia. Deve inoltre tenersi conto dell’autonomia dei coniugi nel concordare l’indirizzo della vita familiare, ex art. 144 c.c., accordo che riguarda anche il tenore di vita, e che di conseguenza definisce l’area dei bisogni familiari ed individua le risorse da destinare ad essi, nonchè della complessità e pluralità degli attuali modelli familiari, il che rende possibile la concorrenza contemporanea di più obbligazioni di natura familiare nei confronti di soggetti diversi e che non fanno parte dello stesso gruppo (ad es: un ex coniuge e nuova famiglia fondata dopo il divorzio, ma anche la sussistenza, in concreto, di obbligazioni alimentari verso i soggetti indicati dall’art. 433 c.c.). I bisogni della famiglia devono allora intendersi non solo in senso oggettivo, nè come potenzialmente assorbenti l’intero reddito dei coniugi, ma anche come quei bisogni che sono ritenuti tali dai coniugi in ragione dell’indirizzo della vita familiare e del tenore prescelto, in conseguenza delle possibilità economiche familiari (v. in arg. Cass. n. 5017/2020).

La valorizzazione della regola dell’accordo anche in tema di esecuzione coattiva sui beni del fondo patrimoniale è stata di recente ribadita da questa Corte che, anche richiamando precedenti in tema, ha precisato che i bisogni della famiglia debbono essere “intesi in senso lato, non limitatamente cioè alle necessità c.d. essenziali o indispensabili della famiglia ma avendo più ampiamente riguardo a quanto necessario e funzionale allo svolgimento e allo sviluppo della vita familiare secondo il relativo indirizzo, concordato ed attuato dai coniugi” (Cass. n. 2904/2021). Con particolare riferimento ai debiti derivanti dall’attività professionale o d’impresa del coniuge, nella stessa sentenza si afferma che l’esecuzione sui beni del fondo o sui frutti di esso può avere luogo qualora la fonte e la ragione del rapporto obbligatorio abbiano “inerenza diretta ed immediata con i predetti bisogni” (v. anche Cass. n. 16176/2018).

E’ pertanto necessario l’accertamento da parte del giudice di merito della relazione sussistente tra il fatto generatore del debito e i bisogni della famiglia avuto riguardo alle specifiche circostanze del caso concreto, ed al riguardo si deve rimarcare che nel citato arresto giurisprudenziale del 2021 vi è, tra gli altri, un richiamo esplicito alla sentenza di questa Corte n. 12998/2006, la quale, nel chiarire i rapporti tra reddito di impresa e bisogni della famiglia, ha affermato la necessità di verificare se “l’obbligo, fonte del debito, sia stato ab origine contratto per soddisfare bisogni della famiglia… Diversamente opinando ogni esercizio di attività di impresa (e non solo) verrebbe per ciò stesso intrapresa e svolta per esigenze della famiglia e non potrebbero sussistere attività che non siano destinate a soddisfare i bisogni della famiglia stessa”, così rendendo “solo virtuale peraltro la possibilità della probatio diabolica della conoscenza da parte del creditore che il debito fosse contratto per scopi estranei ai bisogni della famiglia” (Cass. n. 12998/2006 cit.).

Il rischio di imporre al debitore una probatio diabolica si può in verità scongiurare ammettendo, così come la giurisprudenza di questa Corte ammette, che la prova della consapevolezza da parte del creditore della estraneità del debito ai bisogni della famiglia possa darsi per presunzioni semplici (sempre in Cass. n. 2904/2021), che sono da leggersi nel contesto normativo specifico, poichè le obbligazioni che si contraggano nell’interesse della famiglia non hanno una fonte puramente volontaria ma discendono da obblighi legali fondati sullo status, che ne definiscono miche i confini entro i quali si esercita l’autonomia privata, tramite l’accordo sull’indirizzo della vita familiare. Ancora deve osservarsi che, se il creditore è l’erario, che non ha rapporti personali con il debitore e non ne conosce la situazione familiare e personale se non per quanto emerge dagli atti fiscalmente rilevanti e dal regime legale della famiglia (primario e secondario), è giocoforza affidarsi a presunzioni semplici fondate sui fatti oggettivamente rilevanti, al loro inquadramento nella disciplina del regime patrimoniale della famiglia, ed alle conclusioni che se ne possono trarre secondo un processo logico deduttivo.

Sulla base di questi principi, deve ritenersi consentito al contribuente che abbia una pluralità di fonti di reddito e, in particolare, una pluralità di partecipazioni societarie, di provare, anche per presunzioni semplici, e al fine di contrastare l’esecuzione sui beni del fondo patrimoniale, la diversa natura di ciascuna partecipazione e la destinazione dei relativi proventi, così da accertare se l’obbligazione tributaria amava su un reddito destinato al mantenimento della famiglia, o se si tratti di interessi speculativi con finalità di lucro personale ovvero di spese personali anche voluttuarie, ovvero anche di proventi destinati alla soddisfazione di altri interessi e all’assolvimento di altri obblighi, tra essi compresi gli obblighi di natura familiare per soggetti che non fanno parte di quella “famiglia” per le cui esigenze è stato costituito il fondo patrimoniale.

Rese queste premesse in termini generali, in virtù delle quali deve escludersi che i carichi tributari sui redditi da partecipazione siano di per sè riconducibili ad obbligazioni contratte nell’interesse della famiglia, deve osservarsi che la CTR – come si evince dalla intera ricostruzione della sentenza e nonostante qualche passaggio motivazionale non del tutto perspicuo – non ha enunciato una regola di carattere generale in termini inversi, e cioè che la percezione di tali redditi comporta di per sè che il relativo carico tributario sia estraneo alle esigenze della famiglia; l’ha piuttosto enunciata come regola valevole per il caso concreto, accertando che il contribuente era socio anche di altra società (una s.a.s. denominata Super Car) diversa da quella cui ineriscono i debiti tributari e ha concluso nel senso che da questa seconda società egli traeva il sostentamento per sè e per la propria famiglia; desumendo la consapevolezza, da parte dell’agente di riscossione, della estraneità dei debiti tributari della Soc. An Olii alle esigenze della famiglia dalla circostanza che in essa il contribuente era mero socio di capitali, svolgendo invece attività lavorativa nell’altra società. Si tratta di un giudizio di fatto, e sulla medesima vicenda già questa Corte si è espressa nel giudizio n. 2724/21114 con sentenza n. 5369/2020, citata nella memoria di parte controricorrente, rigettando il ricorso dell’Agenzia in quanto “si tratta di un giudizio di fatto non censurabile in questa sede, posto che il principio di cui all’art. 2697 c.c., è stato correttamente applicato e spetta al giudice del merito in via esclusiva ( e salvo che si tratti di prova a valutazione legale) il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllarne l’attendibilità e la concludenza (Cass. n. 16497/2019)”.

Vero è che il precedente giudizio è intervenuto tra l’Agenzia e la socia dell’odierno ricorrente, ma riguarda pur sempre una iscrizione ipotecaria sui beni del fondo patrimoniale costituito in data 22.3.1995 e le medesime società, di cui solo una (la Soc. An. Olii) interessata dai debiti tributari per i quali è stata effettuata l’iscrizione. Il fatto dunque è il medesimo ed in entrambi i casi la CTR ha espresso la medesima valutazione di merito, e cioè che gli elementi addotti da parte contribuente fossero sufficienti a dimostrare non solo l’esistenza e l’opponibilità del fondo, ma anche che i redditi destinati al mantenimento della famiglia erano quelli del lavoro svolto nella s.a.s. e non quelli derivanti dalla Soc. An. Olii, gravata dei debiti tributari di cui oggi si discute, oltre alla consapevolezza di ciò da parte dell’agente di riscossione.

4.- Con il secondo motivo del ricorso si lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 116 c.p.c., ed omessa ed insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. Parte ricorrente deduce che ha errato la C.TR nel ritenere che i certificati camerali attestanti la qualità di socio accomandatario della ditta Super Car provassero di per sè che il contribuente vi svolgesse attività lavorativa e ha quindi reso una motivazione insufficiente ed un macroscopico errore di valutazione del contenuto probatorio di questi documenti.

Il motivo è inammissibile atteso che alla controversia, poichè la sentenza di secondo grado è stata pubblicata in data 11 giugno 2013, si applica l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come riformato dal D.L. n. 83 del 2012, convertito in L. n. 134 del 2012, in virtù della disciplina transitoria prevista dall’art. 54, in ragione del quale non è più consentito censurare la insufficienza della motivazione, ma solo l’omesso esame di fatto decisivo per la controversia; quanto al resto, possono richiamarsi le sopra esposte considerazioni sul giudizio di fatto.

Ne consegue il rigetto del ricorso.

Le spese del giudizio di cassazione seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo, con distrazione in favore del procuratore antistatario che ne ha fatto richiesta nella memoria ex art. 378 c.p.c. (Cass. n. 12111/2014).

PQM

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 5.200,00, oltre Euro 200,00 per esborsi oltre rimborso spese forfetarie ed accessori di legge, spese distratte in favore dell’avvocato antistatario Antonio Guantario.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13 comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio da remoto, il 3 febbraio 2021.

Depositato in Cancelleria il 7 giugno 2021

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