Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 15736 del 23/07/2020

Cassazione civile sez. trib., 23/07/2020, (ud. 30/01/2020, dep. 23/07/2020), n.15736

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BISOGNI Giacinto – Presidente –

Dott. MANZON Enrico – Consigliere –

Dott. SUCCIO Roberto – Consigliere –

Dott. PUTATURO DONATI VISCIDO M.G. – Consigliere –

Dott. CORRADINI Grazia – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 25868-2013 proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

COLDGEST SPA, elettivamente domiciliato in ROMA, CORSO D’ITALIA 19,

presso lo studio dell’avvocato FRANCO PAPARELLA, che lo rappresenta

e difende unitamente all’avvocato ANDREA PARLATO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 118/2012 della COMM.TRIB.REG. di PALERMO,

depositata il 26/09/2012;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

30/01/2020 dal Consigliere Dott.ssa CORRADINI GRAZIA;

lette le conclusioni scritte del Pubblico Ministero in persona del

Sostituto Procuratore Generale Dott. VISONA’ STEFANO che ha chiesto

il rigetto del ricorso.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con avviso di accertamento – emesso sulla base di una verifica della Guardia di Finanza, a seguito della quale era stato notificato un processo verbale di constatazione per l’anno di imposta 2000 che aveva riscontrato la indebita deduzione di elementi negativi di costo e la sussistenza di componenti positivi non dichiarati e della consequenziale IVA – la Agenzia delle Entrate, Ufficio di Palermo 2 rettificò, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 41 bis, il reddito imponibile dichiarato dalla Spa COLDGEST, esercente la attività di gestione di magazzini per conto terzi, ai fini IRES ed in conseguenza il reddito ai fini IRAP e l’IVA indebitamente detratta nelle fatture relative a dette operazioni.

Il ricorso, proposto contro l’accertamento dalla Spa COLDGEST per motivi formali ma anche sostanziali, fu accolto dalla Commissione Tributaria Provinciale di Palermo con sentenza n. 40/5/2008, la quale ritenne la sussistenza del difetto di motivazione dell’accertamento e la illegittimità dei recuperi operati dall’Ufficio.

Proposero appello principale la Agenzia delle Entrate, la quale sostenne la correttezza della motivazione dell’accertamento e delle riprese eseguite alla luce del principio di inerenza richiamato dai verificatori e della inattendibilità delle scritture contabili riguardo alle operazioni transitate nel conto SOCI C/ANTICIPI e appello incidentale la contribuente che ripropose i motivi formali già respinti dal primo giudice e ribadì la erroneità delle riprese eseguite con l’accertamento, lamentando altresì la compensazione delle spese di primo grado.

La Commissione Tributaria Regionale della Sicilia, con sentenza n. 118/35/2012, rigettò l’appello incidentale della contribuente ed, in parziale accoglimento dell’appello principale della Agenzia delle Entrate, ritenne corretti il recupero relativo all’ammortamento per la cessione del marchio, eseguito in misura superiore ad 1/10 del costo di acquisizione, in violazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 68, comma 1, e dei fitti attivi ed in conseguenza rigettò il ricorso iniziale su tale punto, mentre invece ritenne: legittima la deduzione dei costi per lire 1.095.645.000, derivanti da fatture per servizi resi alla Coldgest Spa, che la Agenzia delle Entrate aveva escluso per genericità della descrizione nelle fatture delle prestazioni eseguite; illegittima la ripresa a tassazione di pretesi ricavi per lire 350.000.000 quali fittizi apporti di capitali registrati sul conto “soci c/ anticipi”, poichè era stato dimostrato che i soci erano in possesso di fonti di reddito adeguate a fare fronte alle esigenze di liquidità societaria ed i movimenti finanziari erano stati correttamente scritturati ed erano avvenuti in date prossime alle esigenze di cassa finalizzate anche al pagamento diretto dei fornitori e la successiva restituzione delle somme anticipate dai soci; legittima la deduzione della quota di ammortamento per lire 100.000.000 per costi di ricerca e di sviluppo ed in conseguenza confermò l’accoglimento del ricorso iniziale sotto tale profilo. In proposito, per quanto ancora interessa, la Commissione Tributaria Regionale rilevò che la pretesa genericità delle fatture non era adeguatamente supportata da un esame critico della documentazione giustificativa prodotta dalla contribuente, che aveva presentato i contratti relativi ai servizi con riguardo ai quali erano state emesse le fatture, contenenti specificamente le attività di servizio in outsouroing commissionate dalla Coldgest alla Tutor Ag Srl per consulenze ed analisi di gestione tecnica ed economica – finanziaria ed alla Srl Horigel per attività di studio sui consumi energetici presso gli stabilimenti Coldgest e che, pur non essendo stata dimostrata la congruità delle tariffe per le prestazioni rese dalle società di servizio, peraltro “doveva essere riconosciuta ammissibile la esistenza di un collegamento fattuale tra le fatture esaminate dai verbalizzanti e i contratti di servizi di cui sopra, con conseguente impossibilità, alla luce della documentazione in atti, di ritenere che la indeducibilità di detti costi esposta in avviso di accertamento sia supportata da validi elementi di certezza”. Ritenne inoltre che le pretese irregolarità contabili, consistenti nel conto mastro di cassa che, in tre date, aveva presentato un modesto saldo negativo, non autorizzava la convinzione della totale inattendibilità dell’intero impianto contabile poichè la società aveva provato che gli apporti finanziari dei soci non erano fittizi.

Contro la sentenza di appello, depositata in data 26.9.2012, non notificata, ha presentato ricorso per cassazione la Agenzia delle Entrate, con atto consegnato a poste italiane l’8 novembre 2013 e ricevuto il 14 novembre successivo, affidato a due motivi, limitatamente al recupero dei ricavi per prestazioni di servizio e dei costi per le attività di servizio.

La contribuente si è costituita con controricorso sostenendo la inammissibilità del ricorso per mancata indicazione della esposizione sommaria dei fatti di causa e comunque la infondatezza dello stesso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.Con il primo motivo la Agenzia ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, comma 2, del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39 e degli artt. 2423,2425,1697,1727 e 2729 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere la sentenza impugnata ritenuto erroneo il recupero di ricavi operato dai verificatori quali apporti fittizi di capitale registrati sul conto soci, così ignorando il principio per cui il conto cassa “in rosso” fa presumere la esistenza di ricavi non contabilizzati almeno pari al disavanzo ma pure di altri ricavi, anche in assenza di altri riscontri fattuali che non erano necessari, con conseguente violazione della regola dell’onere probatorio, mentre la circostanza che i soci disponessero di fonti reddituali non consentiva di discostarsi dalla regola generale.

2. Con il secondo motivo deduce in via subordinata omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per avere la sentenza impugnata, laddove aveva ritenuto “non dimostrata la congruità delle tariffe per le prestazioni rese dalle società di servizio”, violato la regola iuris per cui “è onere del contribuente dimostrare tutti i presupposti e requisiti dei componenti negativi affinchè possa concorrere a determinare il risultato finale del periodo di imposta” e per avere ingiustificatamente deciso in senso favorevole alla società omettendo di esaminare un elemento fondamentale in relazione al rilievo fiscale oggetto di contestazione fra le parti e cioè se vi fosse stata o meno la piena dimostrazione della congruità delle tariffe per le prestazioni rese dalle società di servizio; circostanza che, se considerata, sarebbe stata idonea di per sè a condurre ad una decisione diversa da quella effettivamente adottata.

3. Preliminarmente si rileva che è infondata la questione di inammissibilità del ricorso proposta dalla società contribuente sotto il profilo della mancata esposizione sommaria dei fatti di causa, ai sensi dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3, poichè, se è vero che nel ricorso per cassazione è essenziale il requisito, prescritto dall’art. 366 c.p.c., n. 3, dell’esposizione sommaria dei fatti sostanziali e processuali della vicenda, da effettuarsi necessariamente in modo sintetico, con la conseguenza che la relativa mancanza determina l’inammissibilità del ricorso, essendo la suddetta esposizione funzionale alla comprensione dei motivi nonchè alla verifica dell’ammissibilità, pertinenza e fondatezza delle censure proposte (v., per tutte, Cass. Sez. 2 -, Sentenza n. 10072 del 24/04/2018 Rv. 648165 – 01; Sez. 5 -, Sentenza n. 29093 del 13/11/2018 Rv. 651277 – 01), peraltro il ricorso, nel caso in esame, contiene tale esposizione con riguardo al contenuto dell’accertamento, del ricorso, degli atti difensivi successivi e delle sentenze di primo e di secondo grado, ovviamente in forma sintetica, come previsto dalla norma, mentre è infondata la pretesa della contribuente che il ricorso debba contenere dettagliatamente le numerose argomentazioni sollevate dalla contribuente nel giudizio di primo e di secondo grado e la trascrizione integrale di tutti i passaggi della sentenza impugnata. Il ricorso deve infatti contenere – oltretutto sommariamente – solo la ricostruzione dei fatti utili ai fini della decisione e cioè dei fatti contestati, evitando di riportare le questioni ormai non riproposte e soprattutto di ricopiare anche quanto non interessa, il che potrebbe determinare invece la sua inammissibilità, in assenza della valutazione critica del materiale acquisito nei giudizi di merito in relazione ai motivi di ricorso.

4. I motivi di ricorso sono però infondati.

5. Quanto al primo motivo – con cui la Agenzia ricorrente ha sostenuto, nella sostanza, la violazione dell’onere della prova, per non avere la sentenza impugnata considerato che, una volta riscontrata la inattendibilità della contabilità per essere stato il saldo cassa negativo in tre circostanze, doveva essere ritenuta la sussistenza di una prova presuntiva che autorizzava a recuperare i ricavi non registrati – in effetti è principio consolidato quello per cui “in tema di accertamento induttivo del reddito d’impresa ai fini IRPEG, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, la sussistenza di un saldo negativo di cassa, implicando che le voci di spesa sono di entità superiore a quella degli introiti registrati, oltre a costituire un’anomalia contabile, fa presumere l’esistenza di ricavi non contabilizzati in misura almeno pari al disavanzo (v., per tutte, Cass. Sez. 5, Sentenza n. 27585 del 20/11/2008 Rv. 605673 – 01; Sez. 5, Sentenza n. 11988 del 31/05/2011 Rv. 617300 – 01; Sez. 5, Sentenza n. 656 del 15/01/2014 Rv. 629326 – 01; Sez. 5 -, Ordinanza n. 25289 del 25/10/2017 Rv. 645982 – 01).

5.1. Nella sopra richiamate sentenze è stato evidenziato che “La dottrina ragionieristica e, con essa, la giurisprudenza di questa Corte hanno chiarito che, siccome la chiusura “in rosso” di un conto di cassa significa, senza possibilità di dubbio, che le voci di spesa sono di entità superiore a quella degli introiti registrati, non si può fare a meno di ravvisare, senza alcuna forzatura logica, l’esistenza di altri ricavi, non registrati, in misura almeno pari al disavanzo. Si deve conseguentemente ritenere che una chiusura di cassa con segno negativo oltre a rappresentare, sotto il profilo formale, un’anomalia contabile, denota sostanzialmente l’omessa contabilizzazione di un’attività (almeno) equivalente al disavanzo” (v. anche Cass. n. 27585/2008 e n. 24509/2009).

5.3. Sulla base di tale orientamento giurisprudenziale la Agenzia delle Entrate ricorrente assume l’errore di diritto commesso dalla sentenza impugnata, avendo ritenuto non provata la fittizietà degli apporti finanziari da parte dei soci e l’esistenza di entrate “in nero” che sarebbe desumibile sulla sola base del conto cassa “in rosso”, senza necessità di ulteriori prove, in contrasto col riparto degli oneri probatori regolato dal regime di presunzioni del D.P.R. n. 633, art. 54, comma 2, e del D.P.R. n. 600, art. 39, comma 2, in tal modo sollevando la società contribuente da qualsivoglia onere della prova al riguardo, benchè un “conto cassa” rientra sicuramente tra le scritture contabili, ancorchè non obbligatorie, astrattamente idonee ad essere utilizzate dall’ufficio ai fini dell’accertamento.

5.4. In proposito è tuttavia doveroso ricordare come l’accertamento induttivo rappresenti comunque l’espressione di una presunzione semplice, che però, proprio a causa della relativa inversione dell’onere probatorio, non può non rivestire i caratteri della gravità, della precisione e della concordanza; oltrechè, in ogni caso, il rispetto del principio della ragionevolezza (v. Corte di Cassazione, Sezione Tributaria, sentenza 1 ottobre 2014, n. 20709). A ciò si aggiunga l’ulteriore circostanza secondo cui il disavanzo di cassa potrebbe – almeno in teoria – essere il frutto di banali errori formali o di semplici omissioni contabili. Si pensi, a solo titolo esemplificativo: all’imprenditore che provveda al pagamento di debiti societari mediante le proprie finanze personali evitando le opportune registrazioni; ad un’erronea imputazione di un pagamento al conto cassa anzichè a quello banca e viceversa; all’omessa registrazione del saldo di cassa di inizio anno e alla successiva annotazione delle uscite nei giorni seguenti. Ragion per cui, in conclusione, si può ragionevolmente affermare che il cosiddetto conto “in rosso” dimostri in realtà che l’impresa ha provveduto ad effettuare dei pagamenti attraverso delle operazioni non correttamente registrate nei libri contabili. Operazioni che, solamente in assenza di valide giustificazioni o di comprovati errori, possono rappresentare un occultamento di ricavi.

5.5. Ciò posto, non vi è stata nel caso in esame alcuna violazione di legge, che consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa (v., per tutte, Cass. Sez. 6 – 2, Ordinanza n. 24054 del 12/10/2017 Rv. 646811 – 01; Sez. L, Sentenza n. 16698 del 16/07/2010 Rv. 614588 – 01), mentre nella specie non si pone una questione di erronea ricognizione della fattispecie normativa astratta, e della interpretazione della regola che ne disciplina la prova, bensì della valutazione della prova operata dalla sentenza di merito, nell’ambito della fattispecie concreta che spetta esclusivamente al giudice di merito in relazione alla mediazione derivante dalla valutazione delle risultanze di causa.

5.6. In realtà, il vizio di violazione di legge può essere posto anche con riguardo alla violazione dell’art. 2697 c.c., che si configura nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella su cui esso avrebbe dovuto gravare secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni (v., da ultimo, Cass. Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 26769 del 23/10/2018 Rv. 650892 – 01; Sez. 3 -, Sentenza n. 13395 del 29/05/2018 Rv. 649038 – 01) e in proposito la regola iuris è quella richiamata dalla Agenzia per cui il conto cassa negativo costituisce una presunzione utilizzabile al fine di ritenere l’esistenza di entrate “in nero”, il che determina che l’onere della prova di dimostrare che le entrate “in nero” non vi sono state spetta al contribuente. Però la sentenza impugnata, al contrario di quanto sostenuto dalla Agenzia ricorrente, ha fatto corretto uso di tale regola iuris, in effetti applicabile nel caso nel esame, ritenendo che la regola iuris ammettesse la prova contraria e che la prova contraria fosse stata offerta dalla contribuente attraverso più elementi concordanti e convergenti, quali: la correttezza dell’intero impianto contabile al di fuori di un saldo negativo di cassa solo in tre specifiche date; la circostanza che i soci fossero in possesso di fonti di reddito adeguate a fare fronte della esigenze di liquidità della società, così da evitare il ricorso a linee di credito bancario contando sull’apporto personale dei soci a titolo di prestiti; il fatto che i movimenti finanziari fossero avvenuti in date prossime alle esigenze di cassa e che i rimborsi ai soci fossero avvenuti in condizioni di consistenza contabile della cassa; la finalizzazione delle anticipazioni di cassa al pagamento diretto dei fornitori e la successiva restituzione delle somme anticipate dai soci: tutti elementi che consentivano di superare la presunzione di fittizietà degli apporti finanziari.

5.7. Non vi è stata quindi la violazione di legge dedotta dalla Agenzia ricorrente con riguardo al primo motivo di ricorso.

6. Quanto al secondo motivo di ricorso dedotto “per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti” e che sarebbe consistito nell’omesso esame della piena dimostrazione della congruità delle tariffe e cioè di un fatto che, se esaminato, avrebbe potuto condurre ad una decisione diversa da quella adottata, occorre preliminarmente rilevare che esso presenta, in primo luogo, rilevanti profili di inammissibilità.

6.1. Pur se trattasi di censura ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, correttamente dedotta nella formulazione posteriore alla riforma di cui al D.L. n. 83 del 2012 convertito in L. n. 134 del 2012, applicabile nella specie ratione temporis, l’attuale versione di detta norma, che è applicabile alle sentenze pubblicate dal trentesimo giorno successivo a quello di entrata in vigore dell’anzidetta legge di conversione, e dunque dall’11.9.2012 (mentre la sentenza impugnata è stata pubblicata successivamente e cioè il 26.9.2012), è stata interpretata dalla giurisprudenza di questa Corte nel senso che il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito non è denunciabile con il ricorso per cassazione, non essendo più inquadrabile nel paradigma 5 dell’art. 360 c.p.c., n. 5, nè in quello del precedente n. 4 (v. Cass. n. 11892 del 2016). Pertanto, il vizio previsto dalla vigente disposizione sussiste qualora il giudice di appello abbia esaminato la questione oggetto di doglianza, ma abbia totalmente pretermesso uno specifico fatto storico, oppure ricorrano una “mancanza assoluta dei motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, una “motivazione apparente”, un “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” o una “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, a nulla rilevando il semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (Cass. n. 21257 del 2014; da ultimo, v. Sez. 2 -, Ordinanza n. 20721 del 13/08/2018 Rv. 650018 – 02).

6.2. Nel caso in esame parte ricorrente contesta l’apprezzamento dei fatti operato dal giudice di appello per avere trascurato un fatto che avrebbe potuto – a suo dire – essere decisivo e cioè la dimostrazione di congruità o meno delle tariffe applicate in base al contratto di servizio; però occorre rilevare che non si tratta di un “fatto storico”, bensì di una valutazione del giudice di merito e non si tratta neppure della “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, della “motivazione apparente”, del “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” o della “motivazione perplessa e obiettivamente incomprensibile”, bensì eventualmente di un caso di un motivazione “insufficiente”, che, come tale, resta irrilevante poichè la censura si s’infrange ora anche contro il principio di diritto, applicabile ratione temporis, secondo il quale la riformulazione di questa norma dev’essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (Cass., sez. un., 7 aprile 2014, n. 8053 e 8054 nonchè, tra varie, ord. 9 giugno 2014, n. 12928 e sez. un. 19881 del 2014).

6.3. In ogni caso si deve escludere che la congruità delle tariffe abbia costituito una argomentazione oggetto di discussione fra le parti nel giudizio, poichè, come rilevato anche dal Procuratore Generale nelle sue conclusioni, dalla sentenza impugnata risulta che l’unica contestazione mossa dalla Agenzia nel giudizio di merito, a sostegno della indeducibilità dei costi, era stata quella della genericità delle fatture. Ed anche nel ricorso per cassazione non è indicato in alcuna parte che la congruità delle tariffe abbia costituto oggetto del dibattito processuale, cosicchè il suo richiamo deve intendersi come un obiter dictum da parte della sentenza di appello, avulso dal thema decidendum.

6.4. Il giudice di merito ha infatti rilevato che la prova delle spese emergeva dai contratti e solo incidentalmente ha aggiunto la espressione “ancorchè non sia stata dimostrata la congruità delle tariffe per le prestazioni rese dalla società di servizio”, che comunque non escludeva la certezza e la inerenza del costo sotto il corretto profilo del “collegamento fattuale” fra le fatture ed i contratti di servizio per prestazioni relative alla attività di impresa, costituendo al contrario una valutazione di puro fatto del giudice, non censurabile in sede di giudizio di legittimità, poichè costituente espressione della irrilevanza della prova della congruità delle tariffe indicate nelle fatture e nei contratti alla luce della inerenza dimostrata attraverso “il collegamento fattuale” fra fatture e servizi resi nell’interesse dell’impresa e per le sue specifiche finalità produttive.

7. Ferma restando la compensazione delle spese del giudizio di merito disposta dal giudice di appello con riguardo alla reciproca soccombenza in quella sede, le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza della ricorrente, mentre non sussistono i presupposti per l’applicazione della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1.17, con il quale è stato modificato il D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, mediante l’inserimento del comma 1-quater, poichè tale disposizione non può trovare applicazione nei confronti delle Amministrazioni dello Stato, che, mediante il meccanismo della prenotazione a debito, sono esentate dal pagamento delle imposte e tasse che gravano sul processo (v., per tutte, Cass. Sez. 6 – L, Ordinanza n. 1778 del 29/01/2016 (Rv. 638714 -01).

PQM

La Corte: Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alla rifusione delle spese del presente giudizio in favore della parte resistente, che liquida in Euro 10.000,00, oltre spese forfetarie, IVA e CPA.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 30 gennaio 2020.

Depositato in cancelleria il 23 luglio 2020

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