Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 15725 del 23/07/2020

Cassazione civile sez. trib., 23/07/2020, (ud. 29/01/2020, dep. 23/07/2020), n.15725

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BISOGNI Giacinto – Presidente –

Dott. FUOCHI TINARELLI Giuseppe – Consigliere –

Dott. NONNO Giacomo Mar – Consigliere –

Dott. TRISCARI Giancarlo – Consigliere –

Dott. PUTATURO Donati Viscido di Nocera M.G. – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

Sul ricorso iscritto al n. 2741 del ruolo generale dell’anno 2013,

proposto da:

HT LAB s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore,

rappresentata e difesa, giusta procura speciale a margine del

ricorso, dall’avv.to Francesco Cannizzaro e dall’avv.to Michele

Pontecorvo, elettivamente domiciliata presso lo studio del secondo

difensore, in Roma, Via. A. Canto n. 5;

– ricorrente –

Contro

Agenzia delle entrate, in persona del Direttore pro tempore;

– resistente –

per la cassazione della sentenza della Commissione tributaria

regionale della Lombardia n. 45/05/2012, depositata in data 31

maggio 2012, non notificata.

Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

29 gennaio 2020 dal Relatore Cons. Maria Giulia Putaturo Donati

Viscido di Nocera.

 

Fatto

RILEVATO

Che:

– con sentenza n. 45/05/2012, depositata in data 31 maggio 2012, non notificata, la Commissione tributaria regionale della Lombardia, rigettava l’appello proposto da HT LAB s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, nei confronti dell’Agenzia delle entrate, in persona del Direttore pro tempore, avverso la sentenza n. 112/04/09 della Commissione tributaria provinciale di Como che aveva rigettato il ricorso proposto dalla suddetta società contribuente avverso gli avvisi di accertamento n. (OMISSIS) e n. (OMISSIS) con i quali l’Ufficio di Como, a seguito di una segnalazione della G.d.F. Nucleo di Polizia Tributaria di Genova, aveva contestato nei confronti di quest’ultima un maggiore reddito di impresa, ai fini Irpeg/Ires, Irap e Iva per gli anni 2003-2004, per indebita deduzione di costi e detrazione di Iva in relazione a fatture asseritamente fittizie emesse da una serie di società facenti capo alla famiglia B. al fine di percepire illecitamente contributi statali;

– la CTR, in punto di diritto, per quanto di interesse, ha osservato che: 1) la contribuente, in risposta al questionario inviato dall’Ufficio, non aveva fornito elementi sufficienti – non essendo tale la documentazione cartacea – a provare che le fatture rappresentassero costi effettivi essendo necessari elementi probanti di riscontro; 2) la motivazione della sentenza di primo grado non era carente, essendo stati presi in considerazione tutti gli elementi forniti ritenuti però non convincenti; 3) era da ritenersi non dimostrato il rapporto della società contribuente con il gruppo B., ma quest’ultima non aveva, neanche in appello, provato l’attendibilità delle fatture in contestazione;

– avverso la sentenza della CTR, la società contribuente propone ricorso per cassazione affidato a un motivo, cui resiste, con “atto di costituzione”, l’Agenzia delle entrate;

– l’Agenzia ha depositato memoria ex art. 380bis 1 c.p.c., chiedendo dichiararsi inammissibile o, comunque, infondato il ricorso;

– il ricorso è stato fissato in camera di consiglio, ai sensi dell’art. 375 c.p.c., comma 2 e dell’art. 380-bis 1 c.p.c., introdotti dal D.L. 31 agosto 2016, n. 168, art. 1-bis, convertito, con modificazioni, dalla L. 25 ottobre 2016, n. 197.

Diritto

CONSIDERATO

Che:

– preliminarmente va precisato che, pur non avendo l’Agenzia delle entrate depositato controricorso, tuttavia la successiva memoria depositata ai sensi dell’art. 380 bis 1 c.p.c. va ritenuta ammissibile. Al riguardo, come affermato da questa Corte “in tema di rito camerale di legittimità ex art. 380-bis 1 c.p.c., relativamente ai ricorsi già depositati alla data del 30 ottobre 2016 e per i quali venga successivamente fissata adunanza camerale, la parte intimata che non abbia provveduto a notificare e a depositare il controricorso nei termini di cui all’art. 370 c.p.c. ma che, in base alla pregressa normativa, avrebbe ancora la possibilità di partecipare alla discussione orale, per sopperire al venir meno di siffatta facoltà può presentare memoria, munita di procura speciale, nei medesimi termini entro i quali può farlo il contro ricorrente, trovando in tali casi applicazione l’art. 1 del Protocollo di intesa sulla trattazione dei ricorsi presso le Sezioni civili della Corte di cassazione, intervenuto in data 15 dicembre 2016 tra il Consiglio Nazionale Forense, l’Avvocatura generale dello Stato e la Corte di cassazione”(Cass. Sez. 2 -, Ord. n. 12803 del 14/05/2019);

– con l’unico motivo, la ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, la motivazione insufficiente e illogica della sentenza impugnata su un fatto controverso e decisivo per il giudizio, per avere la CTR, con affermazioni apodittiche e senza esplicitare il percorso logico-giuridico seguito, ritenuto che la contribuente non avesse dimostrato la effettività dei costi e, dunque, l’attendibilità delle fatture in questione, ancorchè quest’ultima avesse dedotto e documentato in appello la regolarità delle fatture, la mancata produzione, per alcune di esse, di voci di costo deducibili, i mancati rapporti con il gruppo B., la verifica da parte della Commissione ministeriale, in sede di collaudo dei materiali forniti e allocati presso lo stabilimento di Alghero, dell’avvenuto pagamento a saldo di un nutrito numero di fatture tra quelle contestate, la regolarità delle operazioni compiute in forza della disposta archiviazione da parte dell’Ufficio di Roma a seguito di invito al contraddittorio dell’8.6.09 notificato l’11.6.09;

– il motivo è inammissibile per le ragioni di seguito indicate;

– va premesso che “ai fini della identificazione del soggetto onerato della prova, nella ipotesi di contestazione formulata dall’Ufficio in ordine alla inesistenza, o parziale inesistenza, delle operazioni commerciali fatturate, la giurisprudenza di legittimità ha reiteratamente affermato in tema di iva (ma i principi valgono per tutte le imposte accertabili mediante la contestazione della veridicità delle fatturazioni) che qualora l’Amministrazione finanziaria contesti al contribuente l’indebita detrazione di fatture, in quanto relative ad operazioni inesistenti, spetta all’Ufficio fornire la prova che l’operazione commerciale, oggetto della fattura, non è mai stata posta in essere, indicando gli elementi anche indiziari sui quali si fonda la contestazione, mentre è onere del contribuente dimostrare la fonte legittima della detrazione o del costo altrimenti indeducibile, non essendo sufficiente, a tal fine, la regolarità formale delle scritture o le evidenze contabili dei pagamenti, in quanto si tratta di dati e circostanze facilmente falsificabili (Cass., sent. 19352 del 2018; n. 29002 del 2017; n. 428 del 2015; n. 17977 del 2013); in particolare, questa Corte, nelle ipotesi, come quella di specie, di operazioni oggettivamente inesistenti, ha affermato che “ove la fattura costituisce in tutto o in parte mera espressione cartolare di operazioni commerciali mai poste in essere da alcuno, l’amministrazione ha l’onere di fornire elementi probatori, anche in forma indiziaria e presuntiva (Cass. nn. 21953/07, 9784/10, 9108/12, 15741/12, 23560/12; 27718/13, 20059/2014, 26486/14, 9363/15; nello stesso senso C. Giust. 6 luglio 2006, C-439/04; 21 febbraio 2006, C-255/02; 21 giugno 2012, C-80/11; 6 dicembre 2012, C-285/11; 31 novembre 2013, C-642/11), del fatto che l’operazione fatturata non è stata effettuata, dopo di che spetta al contribuente l’onere di dimostrare l’effettiva esistenza delle operazioni contestate; tale prova, tuttavia, non può consistere nella esibizione della fattura o nella dimostrazione della regolarità formale delle scritture contabili o dei mezzi di pagamento, poichè questi sono facilmente falsificabili e vengono normalmente utilizzati proprio allo scopo di far apparire reale un’operazione fittizia (Cass. nn. 28572 del 2017; 5406 del 2016, 28683 del 2015, 428 del 2015, 12802 del 2011, 15228 del 2001); e comunque, una volta accertata l’assenza dell’operazione, è escluso che possa configurarsi la buona fede del cessionario o committente (rilevante invece nella diversa ipotesi di operazioni soggettivamente inesistenti), il quale ovviamente sa bene se ed in quale misura ha effettivamente ricevuto il bene o la prestazione per la quale ha versato il prezzo o corrispettivo” (Cass. n. 18118 del 2016, in motivazione; Cass. n. 16473 del 2018); quanto alla prova di cui è onerata l’Amministrazione, e che già dal principio appena riportato si desume possa avere anche solo natura indiziaria, la Corte ha affermato che ai fini dell’accertamento tributario relativo sia all’imposizione diretta che all’IVA, la legge – rispettivamente del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, (richiamato dal successivo art. 40 per quanto riguarda la rettifica delle dichiarazioni di soggetti diversi dalle persone fisiche) e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54 – dispone che l’inesistenza di passività dichiarate, nel primo caso, o le false indicazioni, nel secondo, possono essere desunte anche sulla base di presunzioni semplici, purchè gravi, precise e concordanti, senza necessità che l’Ufficio fornisca prove “certe”. Pertanto, il giudice tributario di merito, investito della controversia sulla legittimità e fondatezza dell’atto impositivo, è tenuto a valutare, singolarmente e complessivamente, gli elementi presuntivi forniti dall’Amministrazione, dando atto in motivazione dei risultati del proprio giudizio (impugnabile in cassazione non per il merito, ma esclusivamente per inadeguatezza o incongruità logica dei motivi che lo sorreggono) e solo in un secondo momento, ove ritenga tali elementi dotati dei caratteri di gravità, precisione e concordanza, deve dare ingresso alla valutazione della prova contraria offerta dal contribuente, che ne è onerato ai sensi dell’art. 2727 c.c. e ss. e dell’art. 2697 c.c., comma 2, (Cass., ord. n. 14237 del 2017);

-la motivazione omessa o insufficiente è configurabile soltanto qualora dal ragionamento del giudice di merito, come risultante dalla sentenza impugnata, emerga la totale obliterazione di elementi che potrebbero condurre ad una diversa decisione, oppure quando sia evincibile l’obiettiva carenza, nel complesso della medesima sentenza, del procedimento logico che lo ha indotto, sulla base degli elementi acquisiti, al suo convincimento (Cass., sez. un., 25 ottobre 2013, n. 24148; Cass. n. 10211 del 2018); ne consegue che il preteso vizio di motivazione, sotto il profilo della omissione, insufficienza, contraddittorietà della medesima, può legittimamente dirsi sussistente solo quando, nel ragionamento del giudice di merito, sia rinvenibile traccia evidente del mancato (o insufficiente) esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili di ufficio, ovvero quando esista insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico – giuridico posto a base della decisione (Cass. 30822 del 2017; Cass. n. 19547 del 2017);

– nella specie – posto che il denunciato vizio motivazionale concerne solo il ritenuto mancato assolvimento da parte della società contribuente della prova contraria circa la effettività delle operazioni fatturate (“la Commissione tributaria regionale non ha dato alcuna motivazione logica ed esplicativa che l’ha portata a ritenere indimostrata l’attendibilità delle fatture in contestazione” pag. 17 del ricorso) e non già il presupposto ritenuto assolvimento da parte dell’Amministrazione dell’onere di provare, anche attraverso elementi indiziari o presuntivi, l’inesistenza delle operazioni medesime (nella specie, ravvisati dalla CTR, nel confermare la sentenza di primo grado, nelle risultanze dei controlli della Polizia tributaria di Genova che, in un rapporto all’Autorità giudiziaria, avevano evidenziato l’emissione da parte di una serie di società, facenti capo alla famiglia B., di “fatture fittizie” per percepire illecitamente contributi statali) – la ricorrente, da un lato, in difetto dei principi di autosufficienza e specificità, ha riportato in ricorso meri stralci dell’atto di appello insufficienti a permettere a questa Corte di verificare gli esatti termini della questione al fine di valutare la fondatezza della doglianza medesima; invero, il principio di autosufficienza del ricorso impone che esso contenga tutti gli elementi necessari a porre il giudice di legittimità in grado di avere la completa cognizione della controversia e del suo oggetto, di cogliere il significato e la portata delle censure rivolte alle specifiche argomentazioni della sentenza impugnata, senza la necessità di accedere ad altre fonti ed atti del processo, ivi compresa la sentenza stessa (ex multis, Cass. n. 7825 e n. 12688 del 2006; Cass. n. 14784 del 2015), dall’altro, la ricorrente tende ad una inammissibile rivisitazione di una valutazione di merito effettuata dal giudice di appello in ordine alla mancata produzione di idonea prova contraria circa l’effettività dei costi e, dunque, l’attendibilità delle fatture in contestazione (“non è sufficiente fornire documentazione cartacea ma occorrono elementi di riscontro probanti per dissipare” (…) e “rimane sussistente la mancata dimostrazione, anche in appello, della attendibilità delle fatture in contestazione” pagg. 2-3- della sentenza impugnata); ciò in conformità al costante orientamento di questa Corte secondo cui anche nel vigore dell’art. 360 c.p.c., vecchio testo del n. 5, (nella formulazione risultante dalle modifiche introdotte dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40) è inammissibile la revisione del ragionamento decisorio del giudice, non potendo mai la Corte di cassazione procedere ad un’autonoma valutazione delle risultanze degli atti di causa (Cass. n. 91/2014; Cass. S.U., n. 24148/2013; Cass. n. 5024/2012) e non potendo il vizio consistere in un apprezzamento dei fatti e delle prove in senso difforme da quello preteso dalla parte, spettando soltanto al giudice di merito di individuare le fonti del proprio convincimento, controllare l’attendibilità e la concludenza delle prove, scegliere tra le risultanze probatorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione dando liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova (Cass. n. 11511/2014; Cass. n. 25608/2013; Cass. n. 6288/2011; Cass. n. 6694/2009; Cass. n. 15489/2007; Cass. n. 4766/2006). Pertanto, con riguardo alle prove, mai può essere censurata la valutazione in sè degli elementi probatori secondo il prudente apprezzamento del giudice (Cass. n. 1414/2015; Cass. n. 13960/2014; Cass. n. 24155 del 2017);

– in conclusione, il ricorso va rigettato;

– le spese di giudizio seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo.

PQM

la Corte:

– rigetta il ricorso; condanna la società ricorrente al pagamento in favore dell’Agenzia delle entrate, in persona del Direttore pro tempore, delle spese del giudizio di legittimità che si liquidano in Euro 5000,00 per compensi, oltre spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, il 29 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 23 luglio 2020

 

 

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