Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 15692 del 02/07/2010

Cassazione civile sez. III, 02/07/2010, (ud. 09/03/2010, dep. 02/07/2010), n.15692

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRIFONE Francesco – Presidente –

Dott. UCCELLA Fulvio – Consigliere –

Dott. URBAN Giancarlo – Consigliere –

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – rel. Consigliere –

Dott. LANZILLO Raffaella – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 1185/2006 proposto da:

CESARINI SRL (OMISSIS), in persona del legale rappresentante p.t.

Sig. P.E., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA UMBERTO

SABA 54 C SC. B, presso lo studio dell’avvocato DELL’ANNO Paolo, che

la rappresenta e difende unitamente agli avvocati RECCHIONI STEFANO,

DELL’ANNO MARIA GIULIANA giusta delega a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

ARTIGIANA DEL VELLUTO DI MORONI GIOVANNI DITTA, (OMISSIS),

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA FEDERICO CONFALONIERI 5,

presso lo studio dell’avvocato MANZI LUIGI, che la rappresenta e

difende unitamente all’avvocato COLOMBO ROBERTO giusta delega in

calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 31/3/2004 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

Sezione Prima Civile, emessa il 26/10/2004, depositala il 03/12/2004;

R.G.N. 1785/2003.

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del

09/03/2010 dal Consigliere Dott. GIACOMO TRAVAGLINO;

udito l’Avvocato Emanuele COGLITORE per delega avv. Luigi MANZI;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CARESTIA Antonietta, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

 

Fatto

IN FATTO

La srl Cesarini propose opposizione al decreto ingiuntivo con il quale il tribunale di Busto Arsizio le aveva intimato il pagamento della somma di oltre L. 76 milioni in favore di M.G., titolare della ditta “Artigiana del velluto” per prestazioni d’opera consistenti in lavorazioni di tessuti, sostenendo di non aver mai stipulato un contratto d’opera con il M. e di essersi limitata a consegnare la merce per conto di un proprio cliente.

Il giudice di primo grado accolse l’opposizione, ritenendo che le fatture commerciali allegate nel procedimento monitorio non costituissero, in seno al giudizio di merito, prova del contratto posto a fondamento – sul piano sostanziale – del credito azionato.

L’impugnazione proposta dal M. fu accolta dalla corte di appello di Milano che, rigettata l’opposizione, confermò il decreto ingiuntivo opposto.

La sentenza è stata impugnata dalla C. con ricorso per cassazione sorretto da 4 motivi.

Resiste con controricorso l’intimata.

Diritto

IN DIRITTO

Il ricorso è infondato.

Con il primo motivo, si denuncia il vizio di nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 c.p.c., nonchè violazione dell’art. 2909 c.c. e art. 324 c.p.c..

Lamenta la ricorrente un vizio di ultrapetizione della sentenza impugnata per non avere l’odierna resistente riproposto, in sede di appello, la domanda monitoria, limitandosi a chiedere il rigetto dell’opposizione e la conferma del decreto ingiuntivo.

Il motivo è privo di pregio, atteso che la richiesta di conferma del decreto ingiuntivo opposto, formulata dal creditore-convenuto nel giudizio di merito al momento della costituzione così come nel corso del giudizio (sia esso di primo grado o di appello) ricomprende in sè, ipso facto, la richiesta di condanna della controparte al pagamento della somma ingiunta, condanna che può, pertanto, essere pronunciata dal giudice procedente anche in difetto di esplicita richiesta in tal senso, senza per questo incorrere nel vizio di ultrapetizione.

Con il secondo motivo, si denuncia un ulteriore vizio di nullità della sentenza per omessa pronuncia (art. 112 c.p.c.) nonchè per violazione dell’art. 81 c.p.c..

Il motivo è in parte inammissibile, in parte infondato.

Inammissibile nella parte in cui lamenta una omessa pronuncia del giudice di merito in ordine alla eccezione di difetto di legittimazione passiva se, con essa, si ha riguardo al profilo della legitimatio ad causam dell’odierno ricorrente, poichè l’eccezione sollevata al riguardo attiene al diverso profilo della titolarità del rapporto sostanziale dedotto in giudizio, e nessuna pronuncia era dovuta in tal senso.

Infondata, nella parte in cui, lamentando una diversa titolarità di tale rapporto, muove alla sentenza impugnata censure di fatto del tutto inammissibili in questa sede, avendo la corte territoriale compiutamente e analiticamente valutato tutte le risultanze probatorie (ff. 2-3 della sentenza impugnata), ivi comprese testimonianze (teste T.) e documenti (lettera della società ricorrente del 22.5.1999 ricognitiva della circostanza della spedizione in conto lavorazione della merce), per concludere, del tutto correttamente in punto di diritto, che la vicenda negoziale per la quale è processo integrava gli estremi del mandato.

Con il terzo motivo, erroneamente rubricato come quarto, si denuncia violazione di legge e contraddittoria motivazione sotto altro aspetto.

Il motivo – ai limiti dell’inammissibilità per omessa indicazione delle norme di legge che sia assumono violate -non ha giuridico fondamento.

La corte di appello, dìfatti, non ha in alcun modo operato la pretesa interversio oneris probandi lamentata dalla ricorrente, avendo di converso ritenuto ampiamente provato il contratto di mandato, e avendo poi specificato, ad abundantiam, che, a fronte dell’univoco coacervo probatorio che deponeva in tal senso, sarebbe stato eventualmente onere dell’appellata dimostrare di non essere la mandataria della Artigiana del velluto, adducendo idonei fatti contrari all’assunto già oggetto di incontestabile e motivato convincimento del giudice di merito.

Con il quarto motivo, indicato erroneamente come quinto, si denuncia, infine, una ulteriore violazione di legge ex art. 102 c.p.c..

La doglianza è del tutto destituita di giuridico fondamento, non essendo in alcun modo configurabile una fattispecie di litisconsorzio necessario nei rapporti tra mandante, mandatario e terzo contraente.

Il ricorso è pertanto rigettato.

La disciplina delle spese segue, giusta il principio della soccombenza, come da dispositivo.

PQM

La corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, che si liquidano in complessivi Euro 2500,00 di cui Euro 200,00 per spese generali.

Così deciso in Roma, il 9 marzo 2010.

Depositato in Cancelleria il 2 luglio 2010

 

 

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