Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 15686 del 28/07/2016


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Cassazione civile sez. lav., 28/07/2016, (ud. 04/05/2016, dep. 28/07/2016), n.15686

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VENUTI Pietro – Presidente –

Dott. MANNA Antonio – Consigliere –

Dott. NEGRI DELLE TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 1728-2012 proposto da:

R.U., C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA L.

CARO n. 62, presso lo studio dell’avvocato SIMONE CICCOTTI, che lo

rappresenta e difende, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

RETE FERROVIARIA ITALIANA S.P.A., C.F. (OMISSIS);

– intimata –

Nonchè da:

RETE FERROVIARIA ITALIANA S.P.A., C. F. (OMISSIS) in persona del

legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in

ROMA, VIA L.G. FARAVELLI 4.01/ 22, presso lo studio dell’avvocato

ENZO MORRICO, che la rappresenta e difende, giusta delega in atti;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

contro

R.U., C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA L.

CARO 62, presso lo studio dell’avvocato SIMONE CICCOTTI, che lo

rappresenta e difende, giusta delega in atti;

– controricorrente al ricorso incidentale –

avverso la sentenza n. 8357/2010 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 13/01/2011 R.G.N. 10651/2006;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

04/05/2016 dal Consigliere Dott. LORITO MATILDE;

udito l’Avvocato GAETANO GIANNI’ per delega verbale Avvocato MORRICO

ENZO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FRESA Mario che ha concluso per il rigetto del ricorso principale e

dell’incidentale.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso al Tribunale di Roma R.U., premesso di essere dipendente dal 10 settembre 1982 di Ferrovie dello Stato s.p.a., inquadrato come dirigente dal 18 aprile 1991, lamentava di essere stato, con progressione, demansionato a partire dal settembre 1997, e poi privato di fatto di ogni mansione dal 30 dicembre 1998, allorquando era stato rimosso anche formalmente e collocato in una condizione di totale inattività.

Esponeva che, quale effetto di tale condotta aziendale, era stato penalizzato sotto il profilo retributivo, non essendo stato sottoposto alla valutazione periodica delle sue capacità personali e professionali ai fini della quantificazione del superminimo individuale e degli eventuali avanzamenti di carriera, con ulteriore pregiudizio legato alla perdita di chance anche sotto il profilo retributivo. Il ricorrente chiedeva, quindi di condannare la Rete Ferroviaria s.p.a. (denominazione che la società Ferrovie dello Stato aveva assunto dal 1/7/2001), al risarcimento del danno conseguente alla omessa verifica della posizione occupata e delle capacità personali e professionali, nonchè al pagamento dell’indennità a titolo di superminimo individuale nella misura di Euro 40.000,00 annui o di quella maggiore o minore ritenuta di giustizia, da determinare anche in via equitativa.

Si costituiva la Rete Ferroviaria Italiana S.p.A. che instava per il rigetto delle domande.

Con sentenza n. 22877 del 22 novembre 2005, il Tribunale respingeva il ricorso ritenendo, con riguardo alla lamentata forzata inattività, che non era stato chiarito a quale delle parti fosse stata ascrivibile e, comunque, che il ricorrente non aveva offerto elementi idonei a stabilire se all’esito della mancata valutazione, avrebbe plausibilmente conseguito un miglioramento di carriera o il superminimo rivendicato.

Avverso tale pronuncia il lavoratore interponeva gravame che veniva respinto dalla Corte d’Appello di Roma, con sentenza resa pubblica il 13/1/11. Nel pervenire a tale decisione il giudice dell’impugnazione, per quanto in questa sede rileva, osservava che la società non aveva assolto all’onere probatorio che le incombeva, ai sensi dell’art. 2103 c.c., di dimostrare l’esatto adempimento dell’obbligo posto a suo carico, o attraverso la prova di qualsiasi demansionamento o dequalificazione, ovvero che l’uno o l’altra fossero stati giustificati dal legittimo esercizio dei poteri imprenditoriali o, ancora, da causa a lui non imputabile. Ciò nondimeno, e nonostante la mancata valutazione delle prestazioni lavorative del ricorrente costituissero ulteriore inadempimento della parte datoriale, riteneva infondata la pretesa risarcitoria azionata dal lavoratore, non avendo egli dimostrato, neanche in via presuntiva, il danno da perdita di chance, sotto il profilo comparativo della propria posizione rispetto a quella degli altri dirigenti che detti miglioramenti avevano conseguito.

Per la cassazione di tale pronuncia ricorre il R. con cinque motivi. Resiste Rete Ferroviaria Italiana S.p.A. con controricorso, proponendo a propria volta ricorso incidentale affidato rispettivamente a due motivi, contestati dalla controparte con controricorso. La società ha, infine, depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo del ricorso principale si deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 1218, 1225 e 1226 c.c., nonchè dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3.

Si lamenta che la Corte distrettuale, pur ritenendo comprovato l’inadempimento della società alle obbligazioni sottese al rapporto di lavoro, scaturito dal progressivo svuotamento delle funzioni conferite al dirigente e culminato nel collocamento in posizione di forzata inattività, non abbia dato ingresso alla domanda risarcitoria sul presupposto della carenza probatoria che la connotava.

Si duole il ricorrente che in relazione al danno da perdita di chance oggetto del diritto azionato, la Corte non abbia fatto ricorso alla valutazione di tipo equitativo, imposta dall’art. 1226 c.c., in tutti i casi in cui il danno non possa essere provato nel suo preciso ammontare, limitandosi, con operazione contra legem, a rigettare tout – court la domanda.

2. Con il secondo mezzo di impugnazione, si denuncia violazione degli artt. 112 e 342 c.p.c., ex art. 360 c.p.c., n. 4.

Si critica l’omessa valutazione da parte del giudice dell’impugnazione, del terzo motivo di appello attinente alla carenza probatoria relativa al pregiudizio da perdita di chance, accertata dal giudice di prima istanza pur in assenza della disamina e conseguente ammissione dei capitolati di prova per testi articolati sul punto.

3. Con il terzo motivo è dedotta violazione e falsa applicazione degli artt. 421, 432 e 437 c.p.c.. Si prospetta la violazione delle disposizioni del codice di rito che conferiscono al giudice d’appello, laddove reputi insufficienti le prove già acquisite, di provvedere d’ufficio agli atti istruttori sollecitati da tale materiale probatorio ed idonei a superare l’incertezza sui fatti costitutivi dei diritti in contestazione.

4. I motivi possono essere congiuntamente trattati, per presupporre la soluzione di questioni giuridiche connesse, attinenti al corretto governo della attività istruttoria da parte del giudice del gravame.

Essi sono infondati per plurime concorrenti ragioni.

5. Occorre muovere, per un ordinato iter motivazionale, dal richiamo ai principi enucleati in tema di risarcimento del danno da perdita di chance, che nella ricostruzione offerta dalla costante giurisprudenza di legittimità, postulano la sussistenza di un danno attuale e risarcibile che sia dimostrato secondo un calcolo di probabilità oltre che per presunzioni (cfr. Cass. lav., 24 gennaio 1992 n. 781).

E’ stato ritenuto in materia, nel caso in cui i criteri di promovibilità comprendano anche valutazioni discrezionali di determinati requisiti, che la violazione dei criteri di correttezza e buona fede non può di per sè far presumere che il candidato escluso dalla promozione sarebbe stato promosso ove quei criteri fossero stati rispettati.

Essa può essere rilevante ai fini della risarcibilità del danno per la perdita della possibilità di promozione, qualora sia dimostrata la ragionevole certezza del danno e cioè l’esistenza di una possibilità non trascurabile in esito favorevole delle operazioni selettive, e rilevando la misura di tale possibilità sotto il diverso profilo della entità del danno, da quantificare avendo come parametro le retribuzioni percipiende e non percepite, ma con un coefficiente di riduzione che tenga conto della possibilità di conseguirle, ovvero, ove questo o altro criterio risultasse di difficile o incerta applicazione, ricorrendo alla liquidazione equitativa. E sempre che sussista una possibilità, non marginale e trascurabile, di esito favorevole delle suddette procedure selettive (cfr. in argomento tra le altre, Cass. 16 marzo 1996 n. 2167 e più di recente, Cass. 25 settembre 2012 n. 16233).

6. Tanto sul presupposto che in tema di risarcimento del danno per perdita di “chance” di promozione incombe sul singolo dipendente l’onere di provare, pur se solo in modo presuntivo, il nesso di causalità tra l’inadempimento datoriale e il danno, ossia la concreta sussistenza della probabilità di ottenere la qualifica superiore (vedi Cass. S.U. 23 settembre 2013, n. 21678 in relazione ad un danno prospettato come conseguenza, dell’inadempimento da parte del datore di lavoro pubblico dell’obbligo, contrattualmente previsto, di organizzare procedure selettive per progressioni verticali).

7. Orbene, la Corte distrettuale ha mostrato di conoscere e condividere siffatti principi laddove ha ritenuto, con condivisibile argomentazione, del tutto insufficienti gli elementi probatori addotti dal ricorrente il quale, disattendendo gli oneri sullo stesso gravanti, non ha allegato elementi decisivi in tal senso (confronta al riguardo anche i capitoli di prova riprodotti con il secondo motivo di ricorso), ritenendosi inadeguata la descrizione del meccanismo di comparazione della propria posizione rispetto a quella degli altri dirigenti. Di conseguenza, non poteva riconoscersi una corretta prospettazione della perdita della possibilità di conseguire un vantaggio economico secondo una valutazione ex ante, svolta al momento in cui l’illecito si era verificato (cfr. Cass. 17 aprile 2008, n. 10111).

8. Nè può ritenersi dimostrata la ricorrenza dei presupposti per l’attivazione dei poteri istruttori d’ufficio in tema di liquidazione equitativa del danno da parte del giudice della impugnazione, ove si faccia richiamo ai principi affermati da questa Corte, che vanno qui ribaditi, secondo cui nel rito del lavoro, i poteri istruttori officiosi di cui all’art. 421 c.p.c., non possono sopperire alle carenze probatorie delle parti così da porre il giudice in funzione sostitutiva degli oneri delle parti medesime e da tradurre i poteri officiosi anzidetti in poteri d’indagine e di acquisizione del tipo di quelli propri del procedimento penale (vedi ex plurimis, Cass. 21 maggio 2009, n. 11847). Nello specifico, la Corte di merito, con statuizione congrua sul piano logico, e corretta sul versante giuridico, muovendosi nell’alveo dei principi innanzi enunciati, è bene ribadire, ha dato atto della insufficienza delle allegazione di parte ricorrente in ordine al profilo risarcitorio della pretesa azionata, che non apparivano idonee a dimostrare, sia pur in modo presuntivo o secondo un calcolo di probabilità, il nesso causale fra inadempimento ed evento dannoso in guisa tale da far ritenere che l’avvenuta valutazione delle prestazioni lavorative del ricorrente avrebbe comportato una concreta, effettiva e non ipotetica probabilità di conseguimento di incrementi retributivi e di carriera.

Detti motivi, sotto tutti i profili considerati, vanno, pertanto, disattesi.

9. Con la quarta censura si deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 37 c.c.n.l. dirigenti F.S. 1990 – 93 e 1994 – 97, degli accordi contrattuali 9/6/92, 30/10/98, 23/5/00 in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3.

Si lamenta che la Corte territoriale non abbia tenuto conto, così violando la norma del c.c.n.l. di settore, che le valutazioni previste dagli Accordi Contrattuali per i dirigenti F.S., alle quali era connessa la domanda di risarcimento del danno retributivo per il periodo 19/2/00 – 11/11/04, non si riferivano solo alle prestazioni professionali, ma anche alla posizione occupata prima del demansionamento e alle capacità personali. Si deduce, in particolare che in forza dell’art. 37 c.c.n.l. dirigenti, veniva attribuita una indennità di funzione variabile in relazione alla posizione occupata, nonchè un superminimo in relazione alla valutazione delle capacità professionali e personali, la cui erogazione nella corretta misura sarebbe stata pregiudicata dal comportamento omissivo assunto da parte aziendale in ordine allo scrutinio.

10. Deve rilevarsi al riguardo come dalle argomentazioni formulate dal medesimo ricorrente a pag. 3 del presente ricorso, si deduca che egli aveva comunque percepito il superminimo individuale, sia pure nella misura prevista per le posizioni di peso minimo. Dette allegazioni non sono ulteriormente sostenute da alcuna affermazione in ordine alle ragioni che militano in favore del diritto a percepire una indennità in misura superiore a quella già ricevuta, sicchè il motivo non può trovare accoglimento.

11. Con il quinto motivo si denunzia motivazione insufficiente, illogica e contraddittoria ex art. 360 c.p.c., n. 5. Si lamenta che i giudici della impugnazione abbiano ritenuto insufficienti gli elementi di prova attinenti al danno da perdita di chance, considerando solo le deduzioni richiamate a pag. 13 del ricorso ed attinenti alla percentuale di dirigenti che avevano ricevuto promozioni nel periodo di rilievo, tralasciando di considerare le ulteriori specifiche considerazioni espresse alle pagine 8 e 14 del ricorso introduttivo ed attinenti alla progressione in carriera di colleghi che erano Stati a lui sottoposti anteriormente al 30/12/98.

12. Il motivo è privo di pregio.

Al di là della pur assorbente considerazione della carenza di autosufficienza del motivo, laddove fa richiamo alla documentazione allegata al fascicolo di primo grado che si assume trascurata dal giudice dell’impugnazione, senza riprodurne lo specifico tenore, va rimarcato come la motivazione omessa o insufficiente sia configurabile soltanto qualora dal ragionamento del giudice di merito, come risultante dalla sentenza impugnata, emerga la totale obliterazione di elementi che potrebbero condurre ad una diversa decisione, ovvero quando sia evincibile l’obiettiva carenza, nel complesso della medesima sentenza, del procedimento logico che lo ha indotto, sulla base degli elementi acquisiti, al suo convincimento, ma non già quando, invece, vi sia difformità rispetto alle attese ed alle deduzioni della parte ricorrente sul valore e sul significato dal primo attribuiti agli elementi delibati, risolvendosi, altrimenti, il motivo di ricorso in un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e del convincimento di quest’ultimo tesa all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, certamente estranea alla natura ed ai fini del giudizio di cassazione (in termini, fra le altre, Cass. 4 aprile 2014 n. 8008).

Invero il motivo di ricorso ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, non conferisce alla Corte di cassazione il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, ma solo quello di controllare, sul piano della coerenza logico – formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice del merito, al quale soltanto spetta di individuare le fonti del proprio convincimento, controllarne l’attendibilità e la concludenza nonchè scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti in discussione, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge. In ogni caso, per considerare la motivazione adottata dal giudice di merito adeguata e sufficiente, non è necessario che nella stessa vengano prese in esame (al fine di confutarle o condividerle) tutte le argomentazioni svolte dalle parti, ma è sufficiente che il giudice indichi le ragioni del proprio convincimento, dovendosi in tal caso ritenere implicitamente disattese tutte le argomentazioni logicamente incompatibili con esse (tra le tante: Cass. n. 2 febbraio 2007 n. 2272, Cass. 14 novembre 2013 n. 25608).

Alla stregua dei consolidati e condivisi principi esposti i motivi di doglianza devono essere respinti, giacchè il ricorrente sì è limitato ad esporre un’interpretazione della documentazione acquisita a sè favorevole al solo fine di indurre il convincimento del giudice di legittimità che l’adeguata valutazione di tali fonti probatorie avrebbe giustificato l’accoglimento della domanda, proponendo un preteso migliore e più appagante coordinamento dei dati acquisiti, inammissibile nella presente sede perchè estranea alla i natura ed alla finalità del giudizio di legittimità.

In definitiva, le superiori argomentazioni inducono alla reiezione del ricorso principale.

13. Ciò posto – e al di là di ogni questione attinente, alla legittimità della procura rilasciata all’avv. Enzo Morrico dall’institore avv. Antonino Russo, la cui legittimità è stata oggetto di contestazione da parte del R. con allegazioni prive del requisito della specificità ed autosufficienza – va rilevato che con il primo motivo del ricorso incidentale si denuncia violazione o falsa applicazione degli artt. 1223, 1460, 1227 in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, nonchè omessa o insufficiente motivazione circa un fatto decisivo e controverso per il giudizio ex art. 360 c.p.c., n. 5.

Si lamenta che il giudici del gravame abbiano omesso di considerare le deduzioni, anche istruttorie, formulate dalla società con riferimento all’atteggiamento tenuto dal dipendente che sin dai primi mesi del 1997 aveva drasticamente limitato la propria presenza in ufficio, riducendola a poche ore al giorno, rendendo alla direzione impossibile procedere al conferimento di incarichi. In tal senso si richiama la giurisprudenza di questa Corte secondo cui non è legittimo il rifiuto del lavoratore di eseguire la prestazione lavorativa a causa di una ritenuta dequalificazione essendo giustificato il rifiuto di adempiere alla propria prestazione ex art. 1460 c.c., solo se l’altra parte sia totalmente inadempiente.

Con il secondo motivo si deduce violazione o falsa applicazione degli artt. 2103 e 2697 c.c., nonchè dell’art. 414 c.p.c., nn. 4 e 5 e art. 416 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3.

Si osserva che, diversamente da quanto argomentato da parte dei giudici del gravame, l’onere di dimostrare il fatto costitutivo della sua pretesa ex art. 2697 c.c., comma 2, sotto il profilo della sua dequalificazione e marginalizzazione in campo lavorativo, gravava sul lavoratore, non potendo ritenersi tout court incontestate le relative circostanza da parte datoriale, alla stregua della dinamica processuale svoltasi nel corso del giudizio di primo grado.

14. Sulle questioni oggetto di impugnazione da parte controricorrente, va richiamato il principio affermato da questa Corte, e che va qui ribadito, alla cui stregua è inammissibile, per difetto di interesse, il ricorso incidentale proposto dalla parte totalmente vittoriosa in appello e diretto solo ad incidere sulla motivazione della sentenza impugnata potendo tale correzione essere ottenuta mediante la semplice riproposizione delle difese nel controricorso o attraverso l’esercizio del potere correttivo attribuito alla Corte di Cassazione dall’art. 384 c.p.c., (cfr. Cass. 24 marzo 2010 n. 7057 cui adde, Cass. 16 gennaio 2015 n. 658).

In definitiva, il ricorso principale deve essere respinto, e quello incidentale dichiarato inammissibile. La situazione di reciproca soccombenza giustifica, infine, la compensazione fra le parti, delle spese inerenti al presente giudizio di legittimità.

PQM

La Corte rigetta il ricorso principale e dichiara inammissibile il ricorso incidentale. Compensa fra le spese del presente giudizio.

Così deciso in Roma, il 4 maggio 2016.

Depositato in Cancelleria il 28 luglio 2016

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