Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 15674 del 28/07/2016


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Cassazione civile sez. lav., 28/07/2016, (ud. 16/03/2016, dep. 28/07/2016), n.15674

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VENUTI Pietro – Presidente –

Dott. MANNA Antonio – Consigliere –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. BERRINO Umberto – rel. Consigliere –

Dott. PATTI Adriano P. – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 1663-2015 proposto da:

CA.GI. S.P.A., P.I. (OMISSIS), in persona del legale rappresentante

pro tempore, elettivamente domiciliata In ROMA, Via Alberto

Caroncini, 4, presso lo studio dell’avvocato SALVATORE MANGONE,

rappresentata e difesa dagli avvocati ALDO CASALINUOVO, RAFFAELE

SILIPO, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

R.R. C.F. (OMISSIS), domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR,

presso la CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE,

rappresentata e difesa dall’avvocato LIDIA VIAPIANA, giusta delega

in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1422/2014 della CORTE D’APPELLO di CATANZARO,

depositata il 21/10/2014 r.g.n. 1069/2014;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

16/03/2016 dal Consigliere Dott. BERRINO UMBERTO;

udito l’Avvocato SILIPO RAFFAELE;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

GIANFRANCO Servello, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Si controverte del licenziamento collettivo intimato il 2/12/2011 dalla società CA.GI s.p.a. a R.R., la cui legittimità era stata accertata dal Tribunale di Catanzaro. Con sentenza del 21/10/2014 la Corte d’appello di Catanzaro ha, invece, accolto il reclamo della R., dichiarando l’illegittimità del predetto licenziamento ed ordinando la reintegra della lavoratrice, con le conseguenze risarcitorie, dopo aver ritenuto che la società, nell’assegnare il punteggio ai lavoratori, aveva inserito un criterio ulteriore non concordato, cioè il criterio dell’anzianità intesa come prossimità alla pensione senza la specificazione dell’anzianità contributiva utile per l’individuazione della vicinanza alla pensione stessa. Inoltre, secondo la Corte di merito, era da ritenere fondata la censura relativa alla modalità di applicazione dei criteri di scelta con riferimento alla posizione del lavoratore P.L. che svolgeva le stesse mansioni di ausiliario della ricorrente e che, però, era rimasto escluso dalla graduatoria.

Per la cassazione della sentenza ricorre la società CA.GI s.p.a. con quattro motivi. Resiste con controricorso R.R..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Col primo motivo, dedotto per erronea e falsa applicazione dell’art. 434 c.p.c., comma 1, nn. 1 e 2, la ricorrente si duole del mancato accoglimento del motivo riflettente l’eccepita mancanza di specificità delle censure del reclamo.

Il motivo è infondato.

Invero, la Corte d’appello ha evidenziato, con adeguata motivazione immune da vizi di legittimità, che il ricorso in appello conteneva specifiche censure alla sentenza di primo grado e, quindi, motivi specifici di impugnazione con allegazione degli errori di diritto in cui era incorso il primo giudice, per cui dovevano ritenersi soddisfatti i requisiti di cui all’art. 434 c.p.c., atteso che risultavano individuate con chiarezza le statuizioni investite dall’impugnazione, anche attraverso le censure mosse in concreto alla motivazione della sentenza di primo grado, al fine di incrinarne il fondamento logico-giuridico. Al cospetto di tale coerente percorso logico, esente da vizi di natura giuridica, la ricorrente si limita semplicemente ad opporre la propria diversa interpretazione della norma richiamata, per cui la suddetta statuizione non risulta essere scalfita dalle attuali censure.

2. Col secondo motivo, proposto per violazione degli artt. 112, 115, 414 e 434 c.p.c., la ricorrente sostiene che la lavoratrice non aveva mai posto in discussione la previsione o meno del criterio della prossimità alla pensione, limitandosi alla contestazione della genericità dei criteri astrattamente indicati in sede di avvio della procedura di licenziamento collettivo, senza la necessaria comparazione tra lavoratori in organico ricoprenti funzioni fungibili, per cui sarebbe errata l’affermazione della Corte territoriale secondo cui nell’assegnazione del punteggio ai lavoratori la società aveva inserito un nuovo criterio, diverso ed ulteriore, non concordato, nè previsto dalla norma di cui alla L. n. 223 del 1991, art. 5, cioè il criterio dell’anzianità non intesa in senso assoluto, ma in senso inverso come prossimità alla pensione.

3. Col terzo motivo la ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti, nonchè la violazione e falsa applicazione della L. n. 223 del 1991, art. 4, commi 2-12, e art. 5 in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, ribadendo che il criterio della prossimità alla pensione, adottato in sede di esame congiunto della parte datoriale e dei sindacati ai fini della individuazione dei soggetti da poter licenziare, contenuto nella comunicazione finale L. n. 223 del 1991, ex art. 4, non era nuovo e diverso, come erroneamente ritenuto dalla Corte di merito.

4. Col quarto motivo la ricorrente deduce l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti, la contraddittorietà della motivazione, nonchè la violazione e falsa applicazione delle norme di cui della L. n. 223 del 1991, art. 4, commi 2 – 12, e L. n. 223 del 1991, art. 5, con riferimento alla posizione del lavoratore P.L.. Ritiene la ricorrente che la denunziata contraddittorietà sia da ravvisare nel fatto che la Corte di merito ha, da una parte, giudicato come nuovo e diverso il criterio della prossimità alla pensione e, dall’altra, ha affermato che per la posizione del lavoratore P.L. si era in presenza di un’errata modalità di applicazione dei criteri concordati. In realtà, aggiunge la ricorrente, anche il criterio dei carichi di famiglia, adottato per il P., rientrava tra quelli comunicati dall’azienda in sede di avvio del procedimento. Inoltre, fin dal primo atto la propria difesa aveva eccepito la carenza di interesse della R. la quale non aveva mai allegato e provato che l’eventuale inclusione del P. tra i lavoratori da licenziare avrebbe inciso favorevolmente sulla sua posizione.

Osserva la Corte che per ragioni di connessione il secondo, il terzo ed il quarto motivo possono essere esaminati congiuntamente.

Tali motivi sono infondati.

Invero, la Corte d’appello ha puntualmente osservato che dal verbale di esame congiunto delle parti, vale a dire della datrice di lavoro e delle organizzazioni sindacali del 14/11/2011, risultava concordata l’applicazione, per la individuazione dei lavoratori da licenziare, dei criteri di cui della L. n. 223 del 1991, art. 5, in concorso tra loro. Successivamente, però, nel provvedimento datoriale contenente la comunicazione dell’elenco dei lavoratori licenziati, la società, nell’assegnare il punteggio ai lavoratori per ciascuno di tali criteri, inseriva un nuovo ulteriore e diverso criterio, nè concordato, nè previsto dal suddetto art. 5, cioè il criterio dell’anzianità intesa non in senso assoluto, ma in senso inverso come prossimità alla pensione. La diversità e novità del criterio emergeva, secondo la Corte territoriale, dal fatto che nel caso dell’anzianità intesa in senso assoluto veniva attribuito al singolo lavoratore un punteggio positivo, che lo allontanava dal rischio di essere incluso nell’elenco dei soggetti da licenziare, mentre nell’ipotesi opposta di anzianità intesa come prossimità alla pensione seguiva un punteggio negativo che, all’inverso, aumentava il rischio dell’esodo. Quest’ultimo criterio, che non era stato concordato, si poneva in palese contrasto con quello adottato inizialmente dalle parti contraenti, senza neanche le necessarie specificazioni, dal momento che non era dato nemmeno sapere da quale anzianità doveva iniziare ad essere applicato il punteggio in negativo.

Orbene, già dalla lettura di tale motivazione si evince che è infondata la censura per asserita violazione dell’art. 112 c.p.c., atteso che, contrariamente a quanto supposto dalla ricorrente, la Corte d’appello ha mostrato di attenersi esattamente al tema di indagine concernente la verifica della legittimità del licenziamento nei termini in cui era stato attuato, così come risultanti dai documenti prodotti in atti.

Ma le censure non colgono nel segno nemmeno in merito alla correttezza dell’analisi giuridica compiuta dalla Corte di merito che ha dimostrato di essersi attenuta ai principi che questa Corte di legittimità ha indicato in tema di osservanza delle regole della procedura dei licenziamenti collettivi.

Si è, infatti, affermato (Cass. sez. lav. n. 3603 del 16/2/2010) che” nella materia dei licenziamenti regolati, la comunicazione di cui, alla L. 23 luglio 1991, n. 223, art 4, comma 9, che fa obbligo di indicare “puntualmente” le modalità con le quali sono stati applicati i criteri di scelta dei lavoratori da licenziare, è finalizzata a consentire ai lavoratori interessati, alle organizzazioni sindacali e agli organi amministrativi di controllare la correttezza dell’operazione e la rispondenza agli accordi raggiunti. A tal fine non è sufficiente la trasmissione dell’elenco dei lavoratori licenziati e la comunicazione dei criteri di scelta concordati con le organizzazioni sindacali, nè la predisposizione di un meccanismo di applicazione in via successiva dei vari criteri, poichè vi è necessità di controllare se tutti i dipendenti in possesso dei requisiti previsti siano stati inseriti nella categoria da scrutinare e, in secondo luogo, nel caso in cui i dipendenti siano in numero superiore ai previsti licenziamenti, se siano stati correttamente applicati i criteri di valutazione comparativa per l’individuazione dei dipendenti da licenziare.”.

La necessità della puntuale indicazione dei criteri di scelta dei lavoratori licenziati o posti in mobilità, come tale sufficiente a porre in grado il singolo dipendente di percepire perchè lui e non altri sia stato destinatario del collocamento in mobilità o del licenziamento collettivo, con possibilità di contestare eventualmente l’illegittimità della misura espulsiva, è stata poi ribadita con le sentenze n. 12196/2011 e n. 19576/2013 di questa Corte.

Pertanto, correttamente la Corte territoriale ha posto bene in evidenza che il criterio della prossimità a pensione era stato adottato senza le necessarie specificazioni poichè non risultava affatto indicata con quale anzianità contributiva il lavoratore doveva essere considerato come prossimo alla pensione, con l’ulteriore conseguenza che non era dato sapere a partire da quale anzianità gli doveva essere applicato il suddetto punteggio negativo.

Infatti, nella comunicazione della L. n. 223 del 1991, ex art. 4, comma 2, del 24.10.2011, il cui contenuto è stato trascritto dall’odierna ricorrente, si fa riferimento all’applicazione dei criteri di cui della L. n. 223 del 1991, art. 5, commi 1 e 2, con specifico riferimento ai soggetti più prossimi al pensionamento, alle esigenze tecnico-organizzative e produttive connesse al programma di mobilità, ma nulla è detto circa le concrete e specifiche modalità di applicazione pratica di tale criterio nel confronto tra le anzianità contributive dei vari lavoratori. Invece, solo nella successiva comunicazione della L. n. 223 del 1991, art. 4, comma 9, del 25.11.2011, anch’essa trascritta, compaiono per la prima volta nell’elenco dei criteri il punteggio positivo di 0,5 per ogni anno di servizio e frazione e quello negativo di – 3 per l’anzianità in prossimità del pensionamento, senza ulteriore specificazione sulla relativa decorrenza. Quindi, la summenzionata differenza tra le due comunicazioni in ordine ai criterio adottato (prossimità al pensionamento, senza ulteriori specificazioni, nella prima comunicazione ed anzianità di servizio ed anzianità in prossimità del pensionamento, senza indicazione della decorrenza, nella seconda comunicazione) e le relative mancanze di specificazione dei metodi attuativi non consentono, secondo il condiviso ragionamento della Corte territoriale, di ravvisare un sistema sufficiente a porre in grado il singolo dipendente di percepire perchè lui e non altri sia stato destinatario del licenziamento collettivo.

Quanto al vizio di motivazione denunziato col quarto motivo in relazione alla posizione del dipendente P. non può non evidenziarsi un evidente profilo di inammissibilità della relativa censura.

Invero, con la sentenza n. 8053 del 7/4/2014 delle Sezioni Unite di questa Corte, si è precisato che l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, riformulato del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni degli art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie.

Quindi, nel sistema l’intervento di modifica dell’art. 360 c.p.c., n. 5, comporta un’ulteriore sensibile restrizione dell’ambito di controllo, in sede di legittimità, del controllo sulla motivazione di fatto. Invero, si è affermato (Cass. Sez. Un., 7 aprile 2014, n. 8053) essersi avuta, con la riforma dell’art. 360 c.p.c., n. 5, la riduzione al minimo costituzionale del sindacato sulla motivazione in sede di giudizio di legittimità, per cui l’anomalia motivazionale denunciabile in questa sede è solo quella che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante e attiene all’esistenza della motivazione in sè, come risulta dal testo della sentenza e prescindendo dal confronto con le risultanze processuali, e si esaurisce, con esclusione di alcuna rilevanza del difetto di sufficienza, nella mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico, nella motivazione apparente, nel contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili, nella motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile.

Ma è evidente che nella specie la valutazione comparativa della posizione del lavoratore P. non è affetta da alcuna di queste ultime anomalie, avendo il giudice d’appello espresso in modo chiaro e comprensibile i motivi a sostegno del suo convincimento sulla fondatezza delle censure riflettenti le modalità di applicazione dei criteri riferite a quest’ultimo il quale, pur svolgendo mansioni di ausiliario come la R., veniva escluso dalla graduatoria in quanto capofamiglia, pur non essendo stato tale criterio concordato in maniera specifica con le organizzazioni sindacali.

Pertanto, il ricorso va rigettato.

Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza della ricorrente e vanno poste a suo carico come da dispositivo, unitamente al contributo unificato di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, tenuto conto della mancata partecipazione del difensore della controricorrente all’udienza di discussione.

PQM

La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio nella misura di Euro 3000,00 per compensi professionali e di Euro 100,00 per esborsi, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 16 marzo 2016.

Depositato in Cancelleria il 28 luglio 2016

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