Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 15665 del 04/06/2021

Cassazione civile sez. I, 04/06/2021, (ud. 29/04/2021, dep. 04/06/2021), n.15665

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GENOVESE Francesco A. – Presidente –

Dott. PARISE Clotilde – Consigliere –

Dott. BELLE’ Roberto – rel. Consigliere –

Dott. CAPRIOLI Maura – Consigliere –

Dott. CARADONNA Lunella – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 12219/2020 proposto da:

E.M., elettivamente domiciliato in Padova, Via Monte

Grappa 2 presso lo studio dell’avv. Elena Zaggia, che lo rappresenta

e difende per procura in calce al ricorso per cassazione;

– ricorrente –

contro

Comm Territoriale Riconoscimento Protezione Internaz Verona Sez

Padova, Ministero Dell’interno, (OMISSIS);

– intimato –

avverso la sentenza n. 5180/2019 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA,

depositata il 19/11/2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

29/04/2021 dal Dott. Roberto Bellè.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

La Corte d’Appello di Venezia, confermando la sentenza del Tribunale della stessa città, ha respinto la domanda di protezione internazionale proposta da E.M., proveniente dalla (OMISSIS);

La Corte territoriale ha ritenuto non credibile il racconto della ricorrente con particolare riferimento al fatto:

– che in (OMISSIS) vi sia una setta dedita a sacrifici umani mensili non contrastata dall’Autorità;

– che la ricorrente abbia conosciuto il Cristianesimo in sogno;

– che nonostante fosse stata promessa sposa a persona della setta fin da bambina, ancora a 33 anni non si fosse sposata;

– che ella si sia ammalata per la “fattura” posta in essere nei suoi confronti dalla predetta setta;

– che il viaggio le sia stato pagato da un’estranea, cui non dovette restituire alcunchè;

l’inattendibilità del racconto rendeva consequenzialmente privo di fondamento, secondo la Corte di merito, il timore di persecuzioni a causa religiosa, così come da escludere era il rischio di violenze indiscriminate, in quanto le fonti esaminate, aggiornate al 2019, ne attestavano la sussistenza solo in alcune zone della (OMISSIS), ma non in quella di provenienza della ricorrente;

infine, quanto alla protezione “umanitaria”, la Corte d’Appello ha ritenuto che essa fosse da escludere, data la non credibilità della storia personale esposta, mentre le sfavorevoli condizioni di salute non erano sufficientemente documentate, sussistendo solo la menzione di una biopsia dell’endometrio, con esiti ignoti, così come l’esistenza di un lavoro in Italia non era da ritenere presupposto sufficiente a giustificare la concessione del permesso richiesto, finendo per sovrapporre la posizione con chi sia un mero migrante economico e per alterare il regime proprio dei regolari flussi di ingresso per ragioni lavorative;

E.M. ha proposto ricorso per cassazione con tre motivi; il Ministero dell’Interno ha depositato atto di costituzione in giudizio per l’eventuale partecipazione alla discussione orale.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

con il primo motivo di ricorso è dedotta, richiamando l’art. 360 c.p.c., nn. 3, 4 e 5, la violazione delle norme in tema di protezione internazionale, argomentandosi nel senso che già con l’atto di appello si erano censurate le erronee valutazioni del Tribunale e sottolineandosi come fosse fatto notorio l’esistenza in (OMISSIS) di numerose sette e culti animisti che impongono il loro dominio sulle comunità locali con utilizzo strumentale e con costrizioni fisiche e psicologiche a riti, sacrifici, magia nera;

il motivo è inammissibile;

nella prima parte esso consta di un richiamo a quanto sostenuto nell’atto di appello che, nella parte trascritta, contiene il rinvio al contenuto del ricorso di primo grado, cui si aggiungono alcune considerazioni sul motivo dell’espatrio dopo l’asserita fuga dalla setta;

è evidente tuttavia che quest’ultimo aspetto è sviluppato come una mera proposizione di una diversa valutazione di merito dell’accaduto, impropria rispetto al giudizio di legittimità (Cass., S.U., 27 dicembre 2019, n. 34476; Cass., S.U., 25 ottobre 2013, n. 24148), mentre del tutto irrituale è la costruzione del ricorso per cassazione, che è impugnazione a critica vincolata, attraverso rimandi al contenuto di atti di merito (il ricorso di appello e, attraverso esso, il ricorso di primo grado), per giunta senza neppure riportare fatti e rilievi con essi concretamente esplicitati;

assolutamente generico è poi il richiamo al fatto notorio in relazione ai riti, sette e culti animisti, a fronte di una sentenza di appello che fa cenno a profili di non credibilità di alcune caratteristiche di essi contenute nel racconto della ricorrente (quale il ricorso incontrastato a sacrifici umani), nel contesto più ampio di altri rilievi di contraddittorietà, sopra riferiti nello storico di lite;

vale poi il principio per cui, il non implausibile apprezzamento in ordine alla inattendibilità “intrinseca” del racconto, per la sussistenza di incoerenze o contraddizioni valorizzate a tal fine dal giudice del merito, è in sè sufficiente ad escludere ulteriori approfondimenti anche sotto il profilo della cooperazione istruttoria, che resterebbero privi di sostegno rispetto a forme di protezione, come quella per i rifugiati, che trovano il fondamento in condizioni o vicende personali dell’interessato, evidentemente condizionate dalla veridicità o meno del racconto dal fornito dal medesimo (Cass. 4 novembre 2020, n. 24506);

tale principio è infatti del tutto coerente con la previsione di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, lett. c) secondo cui, se taluni elementi o aspetti delle dichiarazioni del richiedente la protezione internazionale non siano suffragati da prove, essi sono considerati veritieri, ma a condizione, tra l’altro, che “le dichiarazioni del richiedente” siano “ritenute coerenti e plausibili” (lett. c);

il secondo motivo è dedotto come inerente alla violazione dell’art. 111 Cost., comma 6, dell’art. 132c.p.c., comma 2, n. 4 e art. 118 disp. att. c.p.c., oltre che sotto il profilo dell’omessa valutazione di un fatto decisivo per la decisione e della motivazione inesistente, apparente, contraddittoria/incomprensibile, in relazione al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, comma 1, lett. a) e b);

la ricorrente sostiene che sarebbe priva di logica ed autosufficienza l’esclusione, operata dalla Corte territoriale, del rischio di condanna a morte o di esecuzione di pena capitale, come anche l’esclusione del rischio di torture e comportamenti umani degradanti;

il motivo è inammissibile;

infatti, la ricorrente non lo correda nè dall’indicazione di quale fatto storico decisivo sarebbe stata omessa la valutazione, nè di quali profili esplicitamente dedotti necessitassero di motivazione, a fronte di minacce provenienti dalla setta che erano state ritenute non credibili, il che esclude anche il conseguente rischio che i trattamenti temuti potessero provenire da essa, non risultando peraltro una qualche concreta deduzione rispetto a rischi di applicazione delle misure di cui all’art. 14, lett. a) e b) da parte dello stesso Stato di provenienza;

il terzo motivo indica la violazione di varie norme in tema di protezione umanitaria;

gli argomenti in esso sviluppati fanno riferimento a tale forma di salvaguardia adducendo l’esistenza, nel Paese di provenienza, di pericoli di terrorismo ed attentati, come anche il verificarsi di soprusi delle forze di polizia, uniti ad una povertà diffusa, sicchè il rientro in Patria comporterebbe il peggioramento delle prospettive di vita o la sottoposizione a rischio dei “diritti fondamentali come sanciti dalla carta costituzionale italiana”;

i rischi rispetto a diritti fondamentali sono però dedotti del tutto genericamente, mentre è necessario che il richiedente indichi i fatti costitutivi del diritto azionato e cioè fornisca elementi idonei a far desumere che il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani al di sotto del nucleo ineliminabile, costitutivo dello statuto della dignità personale (Cass. 2 luglio 2020, n. 13573);

neppure sono stati addotti specifici elementi che qualifichino la condizione del ricorrente con caratteri differenziati rispetto a quella diffusa in un Paese, come quello di provenienza, caratterizzato da un livello di sviluppo inferiore, non essendo ipotizzabile un obbligo dello Stato italiano di garantire ai cittadini stranieri determinati parametri di benessere o di impedire, in caso di rimpatrio, il possibile l’insorgere di difficoltà economiche e sociali (Cass. 6 novembre 2020, n. 24904) ed essendo pertanto necessario, per il riconoscimento della tutela residuale umanitaria, l’individuazione di una condizione personale e specifica di vulnerabilità, che consenta di ritenere integrati i “seri motivi” cui il D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, ratione temporis, riconnette la protezione richiesta;

a tale fine non valendo il mero riferimento al fatto che il ricorrente “lavora e si mantiene in Italia”, in sè espressione soltanto di un possibile miglioramento delle condizioni personali rispetto a quelle prospettabili nel Paese di origine, che però non integra, in assenza dei profili qualificatori sopra detti, i presupposti richiesti, da ravvisare nel concreto rischio che sia messo a repentaglio il nucleo inalienabile dei diritti fondamentali dell’individuo e della sua dignità (Cass. 16 marzo 2021, n. 7396; Cass. 10 settembre 2020, n. 18805; Cass. 23 febbraio 2018, n. 4455);

la genericità del motivo lo rende dunque inidoneo ad incidere sulla ratio decidendi e come tale inammissibile in quanto anch’esso sostanzialmente finalizzato ad ottenere, su presupposti inconsistenti, una diversa conclusione di merito;

nulla sulle spese, in quanto il Ministero si è limitato al deposito di “atto di costituzione in giudizio”, senza svolgere attività difensiva.

P.Q.M.

dichiara inammissibile il ricorso;

ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale, il 29 aprile 2021.

Depositato in Cancelleria il 4 giugno 2021

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