Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 15644 del 23/06/2017


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Cassazione civile, sez. III, 23/06/2017, (ud. 20/01/2017, dep.23/06/2017),  n. 15644

 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –

Dott. OLIVIERI Stefano – Consigliere –

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –

Dott. D’ARRIGO Cosimo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 1253-2014 proposto da:

IRCOP SPA (OMISSIS) in persona del Presidente del Consiglio di

Amministrazione e legale rappresentante C.A.,

elettivamente domiciliata in ROMA, P.ZZA SS. APOSTOLI 81, presso lo

studio dell’avvocato MASSIMO FERMANELLI, rappresentata e difesa

dall’avvocato DANIELA GAMBARDELLA giusta procura speciale a margine

del ricorso;

– ricorrente –

contro

UNIPOL ASSICURAZIONI SPA in persona del suo procuratore Dott.ssa

G.G., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA CRATILO DI

ATENE 31, presso lo studio dell’avvocato DOMENICO VIZZONE, che la

rappresenta e difende giusta procura speciale a margine del

controricorso;

– controricorrente –

e contro

ROMA CAPITALE (OMISSIS);

– intimata –

avverso la sentenza n. 6124/2012 del TRIBUNALE di ROMA, depositata il

23/03/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

20/01/2017 dal Consigliere Dott. COSIMO D’ARRIGO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. DE

MASELLIS MARIELLA che ha concluso: opponendosi alla richiesta

d’integrazione del contraddittorio; e, nel merito inammissibilità,

in subordine rigetto;

udito l’Avvocato D. GAMBARDELLA.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Il Tribunale di Roma, con sentenza del 23 marzo 2012, ha accolto la domanda risarcitoria proposta da D.L. nei confronti del Comune di Roma (che successivamente ha assunto la denominazione di Roma Capitale) per il risarcimento dei danni riportati a seguito di un sinistro verificatosi a causa di una buca nel manto stradale di una via cittadina. Con la medesima sentenza la I.R.C.O.P. s.p.a. (già I.R.C.O.P. s.r.l., subentrata a seguito di fusione per incorporazione della Generalvie s.p.a.), appaltatrice dei lavori di rifacimento di quel tratto di strada, è stata condannata a tenere indenne il Comune di Roma da quanto dovuto alla D.. Infine, il Tribunale ha rigettato la domanda di manleva proposta dalla medesima I.R.C.O.P. s.p.a. nei confronti della Unipol Assicurazioni s.p.a. ritenendo che il fatto causativo dei danni patiti dalla D. fosse estraneo all’oggetto della polizza assicurativa stipulata dalla società appaltatrice.

La I.R.C.O.P. s.p.a. ha proposto appello solamente avverso quest’ultimo capo della sentenza, dichiarato inammissibile con ordinanza del 31 ottobre 2013.

La I.R.C.O.P. s.p.a. ha proposto ricorso per la cassazione sia della sentenza di primo grado che dell’ordinanza della Corte d’appello di Roma, allegando tre motivi, illustrati anche da successiva memoria ex art. 378 cod. proc. civ. La UnipolSai Assicurazioni s.p.a. (secondo la nuova denominazione sociale assunta a seguito della fusione per incorporazione di Unipol s.p.a. in Fondiaria Sai s.p.a.) ha resistito con controricorso, depositando altresì memorie difensive.

All’udienza pubblica la I.R.C.O.P. s.p.a. ha chiesto di essere autorizzata ad integrare il contraddittorio nei confronti della D. e di Roma Capitale.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Va esaminata preliminarmente l’istanza di autorizzazione all’integrazione del contraddittorio formulata dalla ricorrente in udienza.

E’ decisiva, in proposito, la circostanza che l’unico capo della decisione di primo grado appellata è quello concernente la domanda di manleva proposta dalla I.R.C.O.P. s.p.a. nei confronti della compagnia assicurativa. Gli altri capi della decisione sono quindi passati in giudicato.

La domanda di manleva, per la quale soltanto prosegue il giudizio, è scindibile (Sez. 3, Sentenza n. 5444 del 14/03/2006, Rv. 587877) e nè Roma Capitale, nè D.L. hanno alcun interesse a contraddire sul punto: gli stessi non sono, pertanto, litisconsorti necessari.

L’istanza va quindi rigettata.

2. L’esame del ricorso deve essere preceduto da una premessa necessaria per la corretta comprensione dei motivi dedotti.

La Corte d’appello di Roma, nel dichiarare inammissibile ex art. 348-bis cod. proc. civ. l’appello proposto dalla I.R.C.O.P. s.p.a., ha provveduto a “correggere” la motivazione della sentenza di primo grado.

Infatti, il Tribunale capitolino aveva respinto la domanda di manleva svolta dall’impresa appaltatrice nei confronti dell’assicuratore sul presupposto che il sinistro non sarebbe avvenuto a causa o durante l’esecuzione del contratto di appalto. Il giudice di primo grado, valorizzando l’art. 9 della polizza assicurativa, ha rilevato che costituivano oggetto di assicurazione solamente i danni involontariamente cagionati a terzi “durante l’esecuzione dei lavori stessi, nel luogo di esecuzione delle opere”.

La Corte d’appello, invece, ha osservato che “l’art. 9 delle condizioni generali di assicurazione non prevede la responsabilità dell’assicuratore nel caso in cui l’assicurato (cioè I.R.C.O.P. s.p.a.) sia tenuto a mallevare terzi (nella specie il Comune di Roma) in virtù di una puntuale responsabilità contrattuale; bensì prevede la copertura assicurativa quando l’assicurato debba pagare quale civilmente responsabile “ai sensi di legge”, cioè in condizioni differenti da quelle che ci occupano, in cui I.R.C.O.P. s.p.a. è stata tenuta a mallevare 11 Comune in virtù del contratto di appalto richiamato nella sentenza impugnata”.

3. In considerazione di quanto sopra, la I.R.C.O.P. s.p.a. ha denunciato, con il primo motivo, la violazione degli artt. 348-bis e 348-ter cod. proc. civ., sostenendo la nullità dell’ordinanza d’inammissibilità pronunziata dalla Corte d’appello, in quanto fondata su una ratio decidendi diversa da quella adottata dal giudice di primo grado.

Con il secondo motivo ha impugnato la sentenza di primo grado, così come previsto dall’art. 348-ter c.p.c., comma 3, deducendo la violazione degli artt. 1362 e 1363 cod. civ., in relazione agli artt. 9 e 12 delle condizioni generali di contratto.

Con il terzo motivo ha impugnato il provvedimento della corte d’appello per violazione della L. n. 109 del 1994, art. 30, comma 34, del D.P.R. n. 554 del 1999 e del D.M. n. 123 del 2004, in combinato disposto con gli artt. 1362 e 1363 cod. civ.. Quindi il secondo e il terzo motivo sono subordinati rispetto al primo e alternativi fra di loro, a seconda che si ritenga impugnabile la sentenza del tribunale o l’ordinanza della corte d’appello.

4.1 Sul punto dell’autonoma impugnabilità dell’ordinanza d’inammissibilità pronunciata ai sensi dell’art. 348-ter cod. proc. civ. e dei relativi limiti sono recentemente intervenute le Sezioni Unite di questa Corte (Sez. U, Sentenza n. 1914 del 02/02/2016, Rv. 638368).

La questione dibattuta trae origine dalla circostanza che, l’art. 348-ter c.p.c., comma 3, prevede che, quando è pronunciata l’inammissibilità, contro il provvedimento di primo grado può essere proposto ricorso ordinario per cassazione. Non è invece previsto alcuno specifico mezzo di impugnazione dell’ordinanza che dichiara l’inammissibilità dell’appello.

Avverso quest’ultima potrebbe essere esperibile il ricorso straordinario per cassazione, ai sensi dell’art. 111 Cost., comma 7, ma per l’accesso a tale rimedio impugnatorio è necessario che il provvedimento da impugnare abbia carattere decisorio e definitivo. Sul primo aspetto non sorge alcun dubbio, mentre in ordine al requisito della definitività – suscettibile di diverse interpretazioni – potrebbe pervenirsi a conclusioni divergenti.

Le Sezioni Unite, però, hanno messo in evidenza che una lettura restrittiva, che conduca a escludere l’ordinanza di cui all’art. 348-ter cod. proc. civ. dall’ambito di esperibilità del ricorso straordinario ex art. 111 Cost., non si giustifica anzitutto in considerazione della garanzia costituzionale, rafforzativa dell’effettività della tutela giurisdizionale tutelata dal primo comma dell’art. 24 Cost., di cui il ricorso medesimo è espressione, quale “norma di chiusura” del sistema delle impugnazioni. Il ricorso straordinario, infatti, non rappresenta soltanto un momento di presidio della funzione nomofilattica della Corte di cassazione, ma costituisce anche un modello di tutela del singolo cittadino contro le violazioni della legge commesse dai giudici di merito. Introdurre uno sbarramento alla ricorribilità ex art. 111 Cost. dell’ordinanza di inammissibilità renderebbe incensurabile l’eventuale error in procedendo in cui sia incorso il giudice d’appello, che ovviamente non potrebbe essere dedotto nel ricorso per cassazione avverso la sentenza di primo grado. A ragionare diversamente si giungerebbe ad affermare l’insindacabilità della correttezza della decisione e dell’eventuale disparità di trattamento tra coloro che hanno potuto fruire dell’appello e coloro cui invece è stato negato l’accesso al giudizio di secondo grado.

Anche alla luce di tali considerazioni, le Sezioni Unite hanno quindi affermato l’impugnabilità ex art. 111 Cost. dell’ordinanza di inammissibilità prevista dall’art. 348-ter cod. proc. civ., per vizi propri consistenti in una violazione della normativa processuale.

4.2 Ma agli errores in procedendo si deve aggiungere l’ipotesi che l’ordinanza sia resa al di fuori della condizione sostanziale prevista dall’art. 348-bis cod. proc. civ., ossia che l’impugnazione non abbia una “ragionevole probabilità di essere accolta”. Infatti, il giudizio prognostico sfavorevole espresso dal giudice d’appello nell’ordinanza ex art. 348-ter cod. proc. civ. si deve sostanziare nella conferma di una sentenza ritenuta “giusta” per essere l’appello prima facie destituito di fondamento.

Tale condizione non ricorre nel caso di specie, ove la corte d’appello ha ritenuto di dover correggere la motivazione della sentenza del tribunale, in quanto inesatta. Se la sentenza è “errata” e la decisione, per resistere alle censure dell’impugnazione, ha bisogno di essere fondata su una diversa motivazione, non ricorrono le condizioni per dichiarare l’appello inammissibile ex art. 348-bis cod. proc. civ..

Il giudice d’appello non può, pronunziando con ordinanza e dichiarando inammissibile il ricorso, sostituire la motivazione del provvedimento impugnato con un diverso percorso argomentativo. Infatti, così operando, il giudice dell’impugnazione finisce con l’entrare nel merito del giudizio di appello, deragliando dai binari dell’art. 348-bis cod. proc. civ., che invece prevede una delibazione meramente sommaria.

Del resto, che la decisione pronunciata ai sensi degli artt. 348-bis e 348-ter cod. proc. civ. non possa sostituirsi a quella di primo grado si ricava con chiarezza anche dalla circostanza che solo quest’ultima può costituire oggetto di ricorso per cassazione in via ordinaria.

Da tale considerazione ne scaturisce un’altra: qualora il giudice d’appello provveda con ordinanza ex art. 348-ter cod. proc. civ., tuttavia sostituendo alle ragioni della decisione di primo grado un diverso percorso argomentativo, la parte soccombente che intenda proporre ricorso ordinario si troverebbe costretta a porsi in rapporto dialettico con una ratio decidendi, quella della sentenza di primo grado, sconfessata dalla stessa corte d’appello.

Alla luce di tale considerazioni va affermato che, nel caso in esame, la vera decisione di merito suscettibile di impugnazione è quella del giudice d’appello. Tale decisione, sebbene adottata nelle forme dell’ordinanza prevista dall’art. 348-ter cod. proc. civ., ha infatti il contenuto di una sentenza di merito a cognizione piena.

Va infatti ribadito il principio secondo cui, quando il giudice di appello – nel provvedere a norma dell’art. 348-bis cod. proc. civ. non si limiti a dichiarare l’appello inammissibile, perchè lo stesso non ha una ragionevole probabilità di essere accolto, ma compia anche uno scrutinio sul merito del gravame, assume una decisione che, sebbene rivesta forma di ordinanza, presenta natura di sentenza, sicchè è ricorribile per cassazione (Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 13923 del 06/07/2015, Rv. 636019).

4.3 Deve quindi affermarsi il seguente principio di diritto:

“il provvedimento con il quale il giudice di appello, pur dichiarando l’inammissibilità dell’impugnazione ai sensi degli artt. 348-bis e 348-ter cod. proc. civ., rilevi l’inesattezza della motivazione della decisione di primo grado e sostituisca ad essa una diversa argomentazione in punto di fatto o di diritto, pur avendo la veste formale di ordinanza, ha contenuto sostanziale di sentenza di merito, con la conseguenza che non può trovare applicazione il citato art. 348-ter cod. proc. civ., comma 3 a mente del quale il ricorso per cassazione deve essere proposto contro il provvedimento di primo grado. In tali circostanze, pertanto, il provvedimento adottato dal giudice d’appello è direttamente ricorribile per cassazione, ai sensi dell’art. 360 cod. proc. civ.”.

4.4 Dall’applicazione di tale principio di diritto derivano due conseguenze.

La prima è che il primo motivo di ricorso, pur contenendo una corretta censura della decisione d’appello nella parte in cui essa si pone al di là del perimetro segnato dall’art. 348-bis cod. proc. civ., tuttavia non può essere accolto sub specie di annullamento del provvedimento impugnato. Lo “sconfinamento”, infatti, trova la propria sanzione processuale non nella nullità del provvedimento, bensì nell’assoggettamento dello stesso al regime ordinario di ricorribilità per cassazione. Il primo motivo va dunque dichiarato assorbito dall’esame del terzo motivo.

La seconda conseguenza è che non possono essere esaminate le censure proposte avverso la decisione di primo grado, cui si è oramai sostituita – anche nel merito – quella d’appello. Anche il secondo motivo di ricorso è dunque assorbito.

5.1 Si apre così la strada all’esame del terzo motivo di ricorso, con il quale si censura la decisione del giudice d’appello per violazione della L. n. 109 del 1994, art. 30, comma 34, del D.P.R. n. 554 del 1999 e del D.M. n. 123 del 2004, in combinato disposto con gli artt. 1362 e 1363 cod. civ..

Il motivo è fondato.

5.2 La Corte d’appello, in sede di interpretazione del contratto di assicurazione, ha circoscritto il rischio assicurato al solo caso in cui l’I.R.C.O.P. s.p.a. fosse tenuta a manlevare il Comune di Roma “ai sensi si legge” (citando testualmente un punto della polizza), con esclusione delle ipotesi in cui, invece, l’obbligo di manleva fosse derivante “in virtù di una puntuale responsabilità contrattuale”. Ha basato tale affermazione sulle esclusioni contenute nell’art. 12 delle condizioni di polizza e sulla considerazione che, ove la citata disposizione contrattuale fosse diversamente interpretata, la copertura assicurativa sarebbe stata estesa “in tutti i casi di inadempimento contrattuale dell’appaltatore-assicurato nei confronti dell’appaltante, il che non invece in alcun modo desumibile dall’ampio e specifico articolato contrattuale circa le ipotesi di copertura ed esclusione della garanzia assicurativa”.

In sostanza, la Corte d’appello ha quindi ritenuto di poter distinguere due ipotesi di manleva: l’una troverebbe fonte nella legge, l’altra nel contratto; la prima rientrerebbe nel rischio assicurativo, la seconda invece no. Ciò in quanto, in estrema sintesi, la polizza non avrebbe assicurato l’inadempimento contrattuale, bensì danni involontariamente cagionati a terzi per morte, lesioni personali e danneggiamenti.

5.3 L’impostazione della Corte d’appello è errata già solo con riferimento alla possibilità di distinguere fra una manleva “legale” e una “contrattuale”.

Infatti, è di tutta evidenza che l’unico titolo per il quale la I.R.C.O.P. s.p.a. sarebbe potuta essere chiamata a manlevare il Comune di Roma era certamente di natura contrattuale e trovava il proprio fondamento nel contratto di appalto. In mancanza di tale vincolo contrattuale, non si vede a che titolo il Comune di Roma avrebbe potuto rivalersi nei confronti di una società commerciale per danni derivati a terzi da cose in custodia (nella specie, il fondo stradale e il cantiere dei lavori).

Invero, l’errore logico-giuridico che affligge la decisione impugnata è di confondere la natura contrattuale o extracontrattuale del fatto illecito del quale un terzo chieda il risarcimento al Comune, con la natura contrattuale o extracontrattuale dell’obbligo di manleva dell’appaltatore nei confronti dell’appaltante. Il danno subito dalla D. in esito al sinistro verificatosi a causa di una buca nel manto stradale di una via cittadina, ha indubbia natura extracontrattuale; del resto, tutta la tematica della responsabilità da cose in custodia, ai sensi dell’art. 2051 cod. civ., afferisce all’area della responsabilità aquiliana. L’obbligo di manleva della I.R.C.O.P. s.p.a., invece, era certamente di natura contrattuale.

Inoltre, è errato in punto di diritto l’affermazione secondo cui l’inclusione dell’obbligo di manleva nell’ambito del rischio assicurativo equivarrebbe a considerare assicurato qualsiasi ipotesi di inadempimento contrattuale. Infatti, ove l’I.R.C.O.P. s.p.a. si fosse resa inadempiente nei confronti del Comune di Roma delle obbligazioni nascenti dal contratto di appalto, la responsabilità (contrattuale) della società nei confronti dell’ente sarebbe stata diretta e non per manleva. Ricorre quest’ultima ipotesi, difatti, quanto taluno è tenuto a tenere altri dagli obblighi che questi – a vario titolo (nella specie, per responsabilità extracontrattuale) – assume nei confronti di terzi. Si tratta, quindi, di uno schema necessariamente trilaterale, che non ricorre nell’ipotesi dell’inadempimento contrattuale dell’appaltatore nei confronti dell’appaltante.

5.4 Così correttamente riformulati, in punto di diritto, i termini della questione, resta da esaminare se davvero la polizza escludesse dal rischio assicurato la manleva dell’ente appaltante da quanto eventualmente dovuto per danni a terzi.

La conclusione cui perviene il giudice d’appello è smentita dal tenore testuale della polizza, peraltro predisposta conformemente a quanto previsto dal D.M. n. 123 del 2004. La stessa prevedeva, infatti, che l’assicuratore dovesse tenere indenne l’assicurato “di quanto questi sia tenuto a pagare, quale civilmente responsabile ai sensi di legge, a titolo di risarcimento (capitale, interessi e spese) di danni involontariamente cagionati a terzi per morte, lesioni personali e danneggiamenti a cose in relazione ai lavori assicurati”.

L’espressione “ai sensi di legge” va riferita alla L. n. 109 del 1994, art. 30, comma 3, all’epoca vigente. La disposizione prevedeva che l’esecutore dei lavori fosse obbligato “a stipulare una polizza assicurativa che tenga indenni le amministrazioni aggiudicatrici e gli altri enti aggiudicatori realizzatori da tutti i rischi di esecuzione da qualsiasi causa determinati”.

In definitiva, deve ritenersi che nel rischio assicurato rientrasse anche quanto l’I.R.C.O.P. s.p.a. poteva essere tenuta a pagare al Comune di Roma per tenerlo indenne da responsabilità nei confronti di terzi per fatti illeciti “da qualsiasi causa determinati” nell’ambito dell’esecuzione dei lavori appaltati. D’altro canto, la ratio della norma che imponeva la stipulazione della polizza assicurativa era appunto di tenere indenni le amministrazioni per ogni eventualità, compresa quella in cui la parte committente debba rispondere verso i terzi a causa dell’appaltatore.

6. In conclusione, il terzo motivo di ricorso deve essere accolto, con assorbimento degli altri, e il provvedimento impugnato va cassato con rinvio, anche per quanto concerne le spese del giudizio di legittimità.

PQM

 

accoglie il terzo motivo di ricorso; dichiara assorbiti gli altri; cassa l’ordinanza impugnata in relazione al motivo accolto; rinvia alla Corte di appello di Roma in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 20 gennaio 2017.

Depositato in Cancelleria il 23 giugno 2017

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