Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 15638 del 22/07/2020

Cassazione civile sez. lav., 22/07/2020, (ud. 17/12/2019, dep. 22/07/2020), n.15638

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BERRINO Umberto – Presidente –

Dott. RAIMONDI Guido – rel. Consigliere –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – Consigliere –

Dott. LEO Giuseppina – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 21779/2014 proposto da:

ISTITUTO NAZIONALE PREVIDENZA GIORNALISTI ITALIANI GIOVANNI AMENDOLA,

in persona del legale rappresentante pro tempore elettivamente

domiciliato in ROMA, PIAZZA COLA DI RIENZO 69, presso lo studio

dell’avvocato BRUNO DEL VECCHIO, che lo rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

RAI RADIOTELEVISIONE ITALIANA S.P.A., C.F. (OMISSIS), in persona del

legale rappresentante pro tempore elettivamente domiciliata in ROMA,

VIA PO 25-B, presso lo studio dell’avvocato ROBERTO PESSI, che la

rappresenta e difende unitamente all’avvocato MAURIZIO SANTORI;

– controricorrente –

e contro

I.N.P.S. – ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE, C.F.

(OMISSIS), in persona del legale rappresentante pro tempore, in

proprio e quale mandatario della S.C.C.I. S.P.A. – Società di

Cartolarizzazione dei Crediti I.N.P.S. C.F. (OMISSIS) elettivamente

domiciliato in ROMA, VIA CESARE BECCARIA 29, presso l’Avvocatura

Centrale dell’Istituto rappresentato e difeso dagli avvocati

ANTONINO SGROI, CARLA D’ALOISIO, LELIO MARITATO, ESTER ADA SCIPLINO,

GIUSEPPE MATANO, EMANUELE DE ROSE;

– resistente con mandato –

e contro

I.N.P.S. – GESTIONE EX ENPALS ENTE NAZIONALE PREVIDENZA ASSISTENZA

LAVORATORI SPETTACOLO;

– intimato –

avverso la sentenza n. 10924/2012 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 23/09/2013 R.G.N. 1327/2008.

Fatto

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza dell’8.2.2007 il Tribunale di Roma accoglieva l’opposizione proposta dalla RAI, Radio Televisione Italiana s.p.a., avverso il decreto ingiuntivo emesso in favore dell’Istituto Nazionale di Previdenza dei Giornalisti Italiani “Giovanni Amendola” (INPGI) per il pagamento della somma di Euro 1.595.403,00 a titolo di contributi assicurativi, oltre somme aggiuntive, per il rapporto di lavoro subordinato di natura giornalistica intercorso con 25 dipendenti RAI inquadrati come programmisti registi. Nel giudizio si costituivano l’Istituto Nazionale Previdenza Sociale (INPS) e l’Ente Nazionale di Previdenza e di Assistenza per i lavoratori dello Spettacolo (ENPALS). Il Tribunale respingeva la tesi dell’INPGI secondo la quale i detti lavoratori avessero svolto di fatto mansioni che presentavano le caratteristiche tipiche del rapporto di lavoro giornalistico, con la conseguenza che la contribuzione previdenziale riferita ai medesimi avrebbe dovuto essere versata non, come pacificamente avvenuto, all’ENPALS e all’INPS, ma all’INPG I.

2. La citata sentenza veniva impugnata dall’INPGI dinanzi alla Corte di appello di Roma. L’ENPALS si costituiva per resistere all’impugnazione, mentre l’INPS rimaneva contumace.

3. Con sentenza depositata il 23 settembre 2013 la Corte di appello di Roma respingeva l’appello, condannando l’INPGI al pagamento, in favore della RAI e dell’ENPALS, delle spese del grado.

4. La Corte territoriale rilevava che le mansioni disimpegnate dai lavoratori della cui posizione si discute, secondo quanto emergeva dagli atti processuali, corrispondevano a quelle che il contratto collettivo applicato al rapporto – il CCNL RAI – prevede come tipiche della peculiare figura professionale del programmista regista.

5. Dopo aver tratteggiato, richiamando la giurisprudenza di questa Corte, le caratteristiche del lavoro giornalistico, la Corte distrettuale, condividendo l’argomentazione del giudice di prime cure, riteneva l’inadeguatezza e conseguente inammissibilità della prova per testi articolata dall’INPGI, in quanto inidonea, per come formulata, a far emergere la natura giornalistica dell’attività in questione, giacchè essa non si riferiva agli elementi che connotano e qualificano l’attività giornalistica, ossia l’intellettualità dell’opera, la funzione non meramente compilativa, ma di elaborazione critica della notizia e dell’argomento, la mediazione intellettuale tra notizia e prodotto finito. Inoltre, la Corte territoriale osservava che non poteva risultare decisiva la valorizzazione della natura giornalistica, piuttosto che di intrattenimento o di confine tra i due generi, attribuibile alle trasmissioni alle quali partecipavano i lavoratori oggetto degli accertamenti ispettivi, essendo la circostanza inidonea a qualificare nel senso corrispondente l’attività del personale che a vario titolo veniva impiegato nel programma.

6. Avverso la detta decisione della Corte di appello di Roma l’INPGI propone ricorso per cassazione affidato a tre motivi illustrati da memoria, intimando la RAI e l’INPS – Gestione ex ENPALS. La RAI resiste con controricorso illustrato da memoria. L’INPS ha depositato procura speciale.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Con il primo motivo l’INPG I si duole di un “vizio di motivazione e violazione ex art. 111 Cost.; violazione dell’art. 132 c.p.c., n. 4”. Secondo il ricorrente la sentenza impugnata si baserebbe su di un percorso argomentativo del tutto incomprensibile, il che si tradurrebbe in un’ipotesi di mancanza di motivazione, o comunque di motivazione incoerente, in violazione dell’art. 132 c.p.c., n. 4, giacchè sarebbe in realtà assente la “concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione”.

2. Con il secondo motivo l’Istituto ricorrente lamenta la violazione dell’art. 115 c.p.c., comma 1 e art. 116 c.p.c., comma 1, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. In particolare, il giudice di appello avrebbe trascurato di considerare adeguatamente il valore probatorio dei verbali ispettivi redatti dai funzionari dell’Istituto. L’INPG I deduce che tutti i 25 lavoratori per cui è causa, oltre ad essere giornalisti riconosciuti tali dal rispettivo Ordine di appartenenza, hanno effettivamente svolto mansioni di natura giornalistica. Erroneamente la Corte distrettuale avrebbe ritenuto l’inidoneità della prova orale articolata dall’Istituto, i cui capitoli vengono riprodotti nel ricorso, a dimostrare la sussistenza di tale natura giornalistica.

3. Con il terzo motivo l’INPGI deduce un vizio di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, facendo valere che quanto esposto nei precedenti motivi di ricorso si configura come omesso esame di un fatto decisivo del giudizio, oggetto di discussione tra le parti. In particolare, il vizio risiederebbe nella mancata considerazione di quanto raccolto dagli Ispettori verbalizzanti.

4. Il ricorso è infondato e deve essere rigettato.

5. I tre motivi di doglianza possono essere esaminati congiuntamente per la loro intrinseca connessione, in quanto tutti attengono alla motivazione della sentenza impugnata che ha escluso la natura giornalistica delle prestazioni litigiose.

6. La doglianza con la quale si deduce la nullità della decisione della Corte distrettuale per essere essa basata su una motivazione inesistente o apparente, cioè al di sotto del “minimo costituzionale”, nel senso indicato in particolare dalla sentenza delle Sezioni Unite di questa Corte n. 8053 del 2014, s’incentra sul passaggio della decisione di appello concernente i verbali ispettivi redatti dai funzionari dell’INPGI e il loro valore probatorio (pag. 2), allorchè la sentenza impugnata, dopo aver richiamato la sentenza di questa Corte n. 13075 del 2009 sul valore fino a prova contraria dei verbali ispettivi quando essi “siano in grado di esprimere ogni elemento da cui traggono origine, ed in particolare siano allegati i verbali che costituiscono la fonte della conoscenza riferita dall’ispettore nel rapporto”, affermerebbe che “detta situazione ricorre nel caso di specie”, senza però che la Corte ne tragga alcuna conseguenza.

7. Emerge dalla lettura della sentenza impugnata che il brano sul quale s’incentrano le critiche dell’Istituto ricorrente è incluso nell’esposizione dei motivi di appello proposti dall’INPGI, e non ha niente a che vedere con la ratio decidendi della sentenza della Corte territoriale. Per il resto, la motivazione, che effettivamente non valorizza i verbali ispettivi, è del tutto piana e coerente (v. sintesi nella parte in fatto) e permette di ricostruire senza ambiguità l’iter logico-giuridico seguito dalla decisione qui impugnata. Ciò senza dire che nel ricorso non solo non sono trascritti i verbali ispettivi di cui si parla, ma nemmeno se ne indica la collocazione negli atti, in violazione del principio dell’autosufficienza del ricorso in cassazione (art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6) e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4). Ne discende, per più d’un verso, l’inammissibilità di questa doglianza.

8. In particolare con il secondo e il terzo motivo l’INPGI si duole della mancata considerazione dei verbali ispettivi, dei quali ancora una volta manca la trascrizione e la collocazione negli atti, e del mancato accoglimento delle istanze istruttorie (i cui capitoli di prova vengono invece trascritti).

9. In realtà l’Istituto ricorrente invita questa Corte a una inammissibile riconsiderazione delle circostanze di fatto accertate dalla Corte di appello.

10. Relativamente alla mancata ammissione delle istanze istruttorie, la Corte territoriale, dopo aver ricostruito la figura del lavoro giornalistico secondo i principi elaborati dalla giurisprudenza di questa Corte – e non vi è censura di violazione di legge nei confronti di questa ricostruzione in diritto – sulla base delle norme che regolano l’assoggettamento del lavoro giornalistico a contribuzione INPGI, spiega le ragioni per le quali le circostanze che l’INPG I chiedeva di provare fossero inconferenti, cioè, come si è detto, inidonee, per come erano stati formulati i capitoli di prova, a far emergere la natura giornalistica dell’attività in questione, giacchè le circostanze in questione non si riferivano agli elementi che connotano e qualificano l’attività giornalistica, ossia l’intellettualità dell’opera, la funzione non meramente compilativa, ma di elaborazione critica della notizia e dell’argomento, la mediazione intellettuale tra notizia e prodotto finito. La doglianza non individua vizi della motivazione rilevanti ai sensi del n. 4 o del n. 5 dell’art. 360 c.p.c., comma 1.

11. Infatti, secondo la costante giurisprudenza di legittimità, la doglianza che lamenta la mancata ammissione di mezzi istruttori è sussumibile nell’ambito del vizio di motivazione, di cui deve avere forma e sostanza (Cass. n. 16997 del 2002; Cass. n. 15633 del 2003) e può essere denunciato per cassazione solo nel caso in cui essa abbia determinato l’omissione su di un fatto decisivo della controversia e, quindi, ove la prova non ammessa ovvero non esaminata in concreto sia idonea a dimostrare circostanze tali da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l’efficacia delle altre risultanze istruttorie che hanno determinato il convincimento del giudice di merito, di modo che la ratio decidendi venga a trovarsi priva di fondamento (Cass. n. 11457 del 2007; Cass. n. 4369 del 2009; Cass. n. 5377 del 2011). Nel ricorso, invece, vengono riprodotti i capitoli di prova relativi a ciascuna posizione litigiosa e si sottolinea il possesso da parte di tutti gli interessati dello status di giornalista riconosciuto dal competente Ordine professionale, ma non viene criticamente esaminata, in dettaglio, la motivazione della sentenza impugnata per eventualmente farne risaltare la contraddizione con taluno degli elementi che si era chiesto di provare. In definitiva le censure in esame, trascurando tali principi e mancando di enucleare il fatto controverso e decisivo, prospettano una diversa ricostruzione della vicenda storica in ordine alla inquadrabilità delle fattispecie litigiose nella figura del lavoro giornalistico, così scivolando “sul piano dell’apprezzamento di merito, che presupporrebbe un accesso diretto agli atti e una loro delibazione, in punto di fatto, incompatibili con il giudizio innanzi a questa Corte Suprema” (in termini: Cass. n. 16346 del 2016).

12. In quanto questo motivo deduce una questione di violazione o di falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, cui il Collegio intende dare continuità, questa doglianza: non può porsi per una erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito, ma, rispettivamente, solo allorchè si alleghi che quest’ultimo abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte d’ufficio al di fuori dei limiti legali, o abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione (v. da ultimo Cass. n. 3323 del 2018 e n. 27000 del 2016). La doglianza non individua alcuna di queste ipotesi.

13. Quanto al vizio di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, particolarmente dedotto con ie terzo motivo, facendo valere che quanto esposto nei precedenti motivi di ricorso si configura come omesso esame di un fatto decisivo del giudizio, oggetto di discussione tra le parti, cioè quanto raccolto dagli Ispettori verbalizzanti, si deve osservare che, di nuovo, i verbali ispettivi non vengono trascritti, nè se ne indica la collocazione.

14. A parte questo, manca la decisività di questo elemento di prova, che in olmi caso, per quanto non avvenuto sotto la diretta percezione del verbalizzante, resta soggetto alla libera valutazione del giudice.

15. In effetti, quanto ai verbali ispettivi redatti da pubblici ufficiali, la consolidata giurisprudenza di questa Corte, cui il Collegio intende dare continuità, è nel senso che tali verbali fanno fede fino a querela di falso unicamente con riguardo ai fatti attestati dal pubblico ufficiale nella relazione ispettiva come avvenuti in sua presenza o da lui compiuti o conosciuti senza alcun margine di apprezzamento, nonchè con riguardo alla provenienza del documento dallo stesso pubblico ufficiale ed alle dichiarazioni delle parti; la fede privilegiata di detti accertamenti non è, per converso, estesa agli apprezzamenti in essi contenuti, nè ai fatti di cui i pubblici ufficiali hanno notizia da altre persone o a quelli che si assumono veri in virtù di presunzioni o di personali considerazioni logiche. Ne consegue che le valutazioni conclusive rese nelle relazioni ispettive costituiscono elementi di convincimento con i quali il giudice deve criticamente confrontarsi, non potendoli recepire aprioristicamente (tra molte, Cass. n. 13679 del 2018; n. 22862 del 2010). Quindi, mentre i documenti in questione sono assistiti da fede privilegiata nei limiti suindicati, per le altre circostanze di fatto che i verbalizzanti segnalino di avere accertato (ad esempio, per le dichiarazioni provenienti da terzi, quali i lavoratori, rese agli ispettori) il materiale probatorio è liberamente valutabile e apprezzabile dal giudice, unitamente alle altre risultanze istruttorie raccolte o richieste dalle parti (tra molte, Cass. n. 9251 del 2010).

16. Si tratta dunque di documenti liberamente valutabili dal giudice di merito. Non è conferente la giurisprudenza invocata dall’INPGI, secondo la quale i verbali ispettivi possono essere considerati prova sufficiente qualora il loro specifico contenuto probatorio o il concorso di altri elementi renda superfluo l’espletamento di ulteriori mezzi istruttori (es. Cass. n. 20711 del 2015), per cui il verbale ispettivo quando esprime ogni suo elemento – come nella fattispecie – sarebbe attendibile fino a prova contraria.

17. In realtà dalla giurisprudenza invocata non può trarsi il principio secondo cui i verbali ispettivi stabilirebbero una presunzione semplice della veridicità delle loro conclusioni. Essa esprime solamente il principio che il giudice (ovviamente quello di merito) può ben raggiungere la conclusione che l’onere della prova della pretesa dell’ente di volta in volta interessato sia stato assolto in base ai soli elementi contenuti nel verbale, sempre che questi siano sufficienti.

18. Nel caso di specie gli elementi contenuti nei verbali non sono stati ritenuti sufficienti dalla Corte di merito, con valutazione non censurabile in questa sede se sorretta da motivazione immune da vizi logici, nel senso precisato dalla sentenza delle Sezioni Unite di questa Corte n. 8053 del 2014. Tali eventuali vizi non vengono individuati dal ricorso.

19. Alla luce delle considerazioni che precedono, il ricorso è quindi complessivamente da rigettare.

20. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

21. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, deve darsi atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dell’Istituto ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna l’Istituto ricorrente al pagamento, in favore della R.A.I. s.p.a., delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 200,00 per esborsi, Euro 7.000,00 per compensi, oltre spese generali al 15/0 ed accessori di legge. Nulla per le spese nei confronti dell’INPS.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 17 dicembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 22 luglio 2020

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