Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 15638 del 04/06/2021

Cassazione civile sez. I, 04/06/2021, (ud. 04/03/2021, dep. 04/06/2021), n.15638

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE CHIARA Carlo – Presidente –

Dott. SCOTTI Umberto Luigi Cesare Giuseppe – Consigliere –

Dott. IOFRIDA Giulia – rel. Consigliere –

Dott. CAIAZZO Rosario – Consigliere –

Dott. RUSSO Rita – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 14246/2020 proposto da:

A.E., elettivamente domiciliato presso la CORTE DI

CASSAZIONE, PIAZZA CAVOUR, ROMA, e rappresentato e difeso

dall’avvocato LUIGI NATALE;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, (OMISSIS), in persona del Ministro pro

tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12,

presso AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e

difende, ope legis;

– resistente –

avverso la sentenza n. 1271/2020 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI,

depositata il 10/04/2020;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

04/03/2021 da Dott. IOFRIDA GIULIA.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

La Corte d’appello di Napoli, con sentenza n. 1271/2020, depositata il 10/04/2020, ha respinto l’appello di A.E., cittadino del Ghana, avverso la decisione di primo grado che, all’esito di diniego della Commissione territoriale, aveva respinto la richiesta di protezione internazionale in relazione al riconoscimento sia dello status di rifugiato, sia della protezione sussidiaria ed umanitaria.

In particolare, la Corte d’appello ha rilevato che il racconto del richiedente (essere scappato dal Paese di origine perchè, rimasto orfano di entrambi i genitori, il “clan di appartenenza”, devoto a divinità tribale, essendo egli afflitto da ernia inguinale, lo voleva sottoporre ad un trattamento sacrificale) risultava generico e poco credibile e comunque, ai fini della chiesta protezione sussidiaria, l’area geografica del Ghana di provenienza del richiedente non risultava caratterizzata da violenza indiscriminata sui civili (secondo “gli ultimi rapporti di Amnesty International”), essendovi registrate solo residue criticità, non aventi immediata attinenza con la specifica posizione del richiedente; neppure sussistevano i presupposti per il riconoscimento della protezione umanitaria, non avendo il ricorrente dedotto una personale situazione di vulnerabilità soggettiva nè dimostrato uno stabile radicamento in Italia, familiare o lavorativo.

Avverso la suddetta pronuncia, comunicata il 10/4/2020, A.E. propone ricorso per cassazione, notificato il 26/5/2020, affidato a due motivi, nei confronti del Ministero dell’Interno (che dichiara di costituirsi al solo fine di partecipare all’udienza pubblica di discussione).

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il ricorrente lamenta: a) con il primo motivo, sia la violazione e/o falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 3, lett. a) e art. 14, D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, sia la motivazione apparente e perplessa, in relazione al diniego della protezione sussidiaria, sul rilievo che in Ghana non sussiste una situazione di violenza indiscriminata; b) con il secondo motivo, sia la violazione e falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 3, lett. a), D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, sia la motivazione apparente e perplessa, in relazione al diniego della protezione umanitaria.

2. La prima censura è inammissibile.

La giurisprudenza di questa Corte ha affermato che “del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, nel prevedere che “ciascuna domanda è esaminata alla luce di informazioni precise e aggiornate circa la situazione generale esistente nel Paese di origine dei richiedenti asilo e, ove occorra, dei Paesi in cui questi sono transitati” deve essere interpretato nel senso che l’obbligo di acquisizione di tali informazioni da parte delle Commissioni territoriali e del giudice deve essere osservato in diretto riferimento ai fatti esposti ed ai motivi svolti in seno alla richiesta di protezione internazionale” (Cass. ord. n. 30105 del 2018).

Tuttavia, con specifico riguardo al giudizio di appello, relativamente alla protezione sussidiaria, questa Corte (Cass. 13403/2019) ha chiarito che “in tema di protezione internazionale sussidiaria, di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), ove il richiedente invochi l’esistenza di uno stato di diffusa e indiscriminata violenza nel Paese d’origine tale da attingerlo qualora debba farvi rientro, e quindi senza necessità di deduzione di un rischio individualizzato, l’attenuazione del principio dispositivo, cui si correla l’attivazione dei poteri officiosi integrativi del giudice del merito, opera esclusivamente sul versante della prova, non su quello dell’allegazione; ne consegue che il ricorso per cassazione deve allegare il motivo che, coltivato in appello secondo il canone della specificità della critica difensiva ex art. 342 c.p.c., sia stato in tesi erroneamente disatteso, restando altrimenti precluso l’esercizio del controllo demandato alla S.C. anche in ordine alla mancata attivazione dei detti poteri istruttori officiosi” (nella specie, il ricorrente si era limitato, per sostenere l’esistenza nell’intero Paese d’origine di una situazione di violenza generalizzata, a richiamare le norme nazionali e convenzionali, i principi affermati nella materia dalla S.C. ed una pluralità di fonti informative, senza specificare la zona di provenienza nè segnalare i contenuti delle allegazioni svolte in primo grado).

Nella specie, la Corte d’appello ha considerato le asserite condizioni del ricorrente, attinenti alla sua sicurezza in caso di rientro nel Paese d’origine, ed ha ritenuto che esse non giustificassero l’accoglimento della domanda spiegata. Invero, sulla base di fonti informative ufficiali, specificamente individuate (i report ultimi di Amnesty International), la Corte territoriale ha ritenuto che nel Paese d’origine, nella regione di provenienza, non ricorresse una situazione di violenza generalizzata o di assoluta insicurezza dei civili.

La censura, senza, peraltro, alcuna precisazione sul contenuto dell’appello, tende a rimettere in discussione siffatto giudizio di merito.

3. La seconda doglianza è infondata.

Questa Corte ha già avuto modo di affermare che tra i motivi per i quali è possibile accordare la protezione umanitaria non rientrano, di per sè, l’integrazione sociale e lavorativa in Italia (Cass. n. 25075/2017), nè il versare in condizioni di indigenza o con problemi di salute, “necessitando, invece, che tale condizione sia l’effetto della grave violazione dei diritti umani subita dal richiedente nel Paese di provenienza, in conformità al disposto degli artt. 2, 3 e 4 della CEDU” (Cass. n. 28015/2017; Cass. n. 2664/12016).

In tale prospettiva, è stato ulteriormente chiarito che il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari di cui del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, al cittadino straniero che abbia realizzato un grado adeguato di integrazione sociale in Italia, deve fondarsi su una effettiva valutazione comparativa della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al Paese d’origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, in correlazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese d’accoglienza (Cass. 23 febbraio 2018, n. 4455).

Il diritto alla protezione umanitaria è, in ogni caso, collegato alla sussistenza di “seri motivi”, non tipizzati o predeterminati, neppure in via esemplificativa, dal legislatore (prima della Novella di cui al D.L. n. 113 del 2018, convertito in L. n. 132 del 2018), cosicchè essi costituiscono un catalogo aperto, tutti accomunati dal fine di tutelare situazioni di vulnerabilità individuale attuali o pronosticate in dipendenza del rimpatrio; non può essere in nessun caso elusa la verifica della sussistenza di una condizione personale di vulnerabilità, occorrendo dunque una valutazione individuale, caso per caso, della vita privata e familiare del richiedente in Italia, comparata alla situazione personale che egli ha vissuto prima della partenza e alla quale si troverebbe esposto in conseguenza del rimpatrio: i seri motivi di carattere umanitario possono allora positivamente riscontrarsi nel caso in cui, all’esito di tale giudizio comparativo, risulti non soltanto un’effettiva ed incolmabile sproporzione tra i due contesti di vita nel godimento dei diritti fondamentali che costituiscono presupposto indispensabile di una vita dignitosa, ma siano individuabili specifiche correlazioni tra tale sproporzione e la vicenda personale del richiedente, “perchè altrimenti si finirebbe per prendere in considerazione non già la situazione particolare del singolo soggetto, ma piuttosto quella del suo Paese d’origine in termini del tutto generali ed astratti in contrasto col parametro normativo di cui al cit. D.Lgs. n. 286, art. 5, comma 6” (Cass. 23 febbraio 2018, n. 4455).

In conclusione, la sproporzione tra i due contesti di vita non possiede di per sè alcun rilievo, salvo emerga che essa ha determinato specifiche ricadute individuali, distinte da quelle destinate a prodursi sulla generalità delle persone provenienti dal medesimo ambito territoriale. Giova aggiungere che le Sezioni Unite di questa Corte, nella recenti sentenze nn. 29459 e 29460/2019, hanno ribadito, in motivazione, l’orientamento di questo giudice di legittimità in ordine al “rilievo centrale alla valutazione comparativa tra il grado d’integrazione effettiva nel nostro paese e la situazione soggettiva e oggettiva del richiedente nel paese di origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile e costitutivo della dignità personale”, rilevando che “non può, peraltro, essere riconosciuto al cittadino straniero il diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari considerando, isolatamente e astrattamente, il suo livello di integrazione in Italia, nè il diritto può essere affermato in considerazione del contesto di generale e non specifica compromissione dei diritti umani accertato in relazione al paese di provenienza (Cass. 28 giugno 2018, n. 17072)”, in quanto, così facendo, “si prenderebbe altrimenti in considerazione non già la situazione particolare del singolo soggetto, ma piuttosto quella del suo paese di origine, in termini del tutto generali ed astratti, di per sè inidonea al riconoscimento della protezione umanitaria”.

La Corte di merito ha ritenuto che le generiche condizioni allegate non rientrano nel numero delle circostanze che giustificano la protezione umanitaria, in assenza delle condizioni di vulnerabilità e di stabile radicamento in Italia, nel caso di specie neppure specificamente dedotte. La sentenza risulta del tutto in linea con i principi di diritto affermati da questa Corte.

Nel ricorso, ci si limita a dedurre che i presupposti della protezione umanitaria dovrebbero evincersi dalle condizioni personali del ricorrente, del tutto genericamente descritte (giovane età, orfano di padre, buona integrazione in Italia, pericolo di essere sottoposto a trattamenti inumani e/o degradati e/o a minaccia individuale derivate dalla violenza indiscriminata in caso di rimpatrio).

4. I vizi di motivazione apparente dedotti nelle due censure sono del tutto infondati.

Va ribadito (Cass. SU. 8053/2014; Cass. S.U. 22232/2016) che la motivazione è solo apparente, e la sentenza è nulla perchè affetta da “error in procedendo”, quando, benchè graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perchè recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture.

Nella specie, le ragioni del diniego di protezione sono state spiegate in modo ampio ed argomentato.

5. Per tutto quanto sopra esposto, va respinto il ricorso. Non v’è luogo a provvedere sulle spese processuali non avendo l’intimato svolto attività difensiva.

PQM

La Corte respinge il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della ricorrenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, ove dovuto, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 4 marzo 2021.

Depositato in Cancelleria il 4 giugno 2021

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