Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 15631 del 22/07/2020

Cassazione civile sez. lav., 22/07/2020, (ud. 11/09/2019, dep. 22/07/2020), n.15631

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BRONZINI Giuseppe – Presidente –

Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –

Dott. DE GREGORIO Federico – rel. Consigliere –

Dott. PAGETTA Antonella – Consigliere –

Dott. LEO Giuseppina – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 14231/2017 proposto da:

TELECOM ITALIA S.P.A., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, L.G. FARAVELLI 22,

presso lo studio degli avvocati ENZO MORRICO, ARTURO MARESCA,

ROBERTO ROMEI, FRANCO RAIMONDO BOCCIA, che la rappresentano e

difendono;

– ricorrente –

contro

J.A., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA TIRSO 26,

presso lo studio dell’avvocato ROBERTO SCETTI, che lo rappresenta e

difende unitamente agli avvocati ANDREA BALLABIO, UMBERTO BALLABIO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1602/2016 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 13/12/2016 r.g.n. 1428/2014.

La Corte, esaminati gli atti e sentito il consigliere relatore.

Fatto

RILEVA

che:

TELECOM ITALIA S.p.A. appellava la sentenza n. 494/13 marzo – 11 aprile 2014, con la quale il Tribunale di Milano aveva riconosciuto il diritto del Dott. J.A., ex dirigente della medesima società, al pagamento dell’importo di Euro 139.950,43 a titolo di rimborso spese legali sostenute dallo stesso ex dipendente nell’ambito del procedimento penale cui era stato sottoposto;

la Corte d’Appello di Milano con sentenza n. 1602 in data 21 novembre – 13 dicembre 2016 rigettava l’interposto gravame, con la condanna altresì della società alla rifusione delle ulteriori spese di lite liquidate in complessivi 4800,00 Euro oltre accessori come per legge;

avverso tale pronuncia ha proposto ricorso per cassazione TELECOM ITALIA S.p.A. come da atto in data 9 giugno 2017, affidato ad un solo articolato motivo, cui ha resistito il dottor J. mediante controricorso del 18 luglio 2017.

Diritto

CONSIDERATO

Che:

TELECOM Italia ha denunciato, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 15 c.c.n.l. dirigenti di azienda nonchè degli artt. 1362 e 1363 c.c., assumendo che erroneamente la Corte distrettuale aveva ritenuto l’obbligo a carico della società del rimborso delle spese legali, sostenute dallo J., a prescindere dalla circostanza dell’esistenza o meno dei presupposti di cui al suddetto art. 15, assumendo che la motivazione posta a sostegno della impugnata sentenza si risolveva in una violazione dei criteri interpretativi dei contratti, tenuto conto che tra le parti in data 18 aprile 2007 era stato stipulato un accordo transattivo in sede sindacale per la risoluzione del rapporto di lavoro con TELECOM Italia a far data dal 18 marzo dello stesso anno, laddove si era previsto che il Gruppo Telecom Italia confermava il mantenimento delle tutele previste dall’art. 15 del vigente contratto collettivo, sicchè l’esplicito richiamo dell’anzidetta disposizione contrattuale collettiva stava incontestabilmente di indicare che le parti avevano voluto riconoscere le spese del giudizio soltanto ed esclusivamente in presenza dei presupposti di cui all’art. 15 menzionato, non avendo invece voluto estendere detta tutela anche nel caso, come quello in esame, in cui i comportamenti illeciti erano avvenuti con abuso della posizione aziendale ed in danno della società. Se, infatti, l’azienda avesse inteso effettivamente riconoscere i presupposti di applicabilità della suddetta norma, tanto valeva assumere un impegno diretto a farsi carico delle spese del giudizio penale a favore del dirigente, di modo che non vi sarebbe stata alcuna ragione per richiamare, come invece avvenuto, il succitato art. 15. Per contro, il rinvio formale recettizio ad una norma del contratto collettivo significava che la società avrebbe assunto la corrispondente obbligazione soltanto ed esclusivamente ricorrendo i presupposti di applicabilità di quella norma. L’interpretazione del contratto non poteva eseguirsi in palese contrasto con le parole utilizzate dai contraenti nell’accordo medesimo. In altri termini, non si poteva piegare l’interpretazione del testo del verbale di accordo sino a non riconoscere alcuna valenza alla disposizione di fonte contrattuale collettiva, esplicitamente richiamata nel testo della conciliazione. Nè, secondo la ricorrente, alcun indizio diverso poteva trarsi dal pagamento delle parcelle successivamente alla transazione, allorchè non erano ancora emersi chiari connotati del comportamento addebitato all'(ex) dipendente, nè i rilevantissimi danni arrecati all’immagine dell’azienda, nè tantomeno lo sviamento dalle funzioni proprie dell’ex dirigente. Pertanto, attesa la responsabilità dell’intimato nei fatti per i quali era stato incriminato ed atteso l’ambito nel quale operava l’anzidetto art. 15, le relative spese erano state allora sostenute dalla società convenuta, pur difettandone i presupposti ma costituendo, viceversa, un indebito che andava restituito. La sentenza impugnata risultava, inoltre, errata per aver mancato di verificare la sussistenza dei presupposti richiesti dalla succitata disposizione contrattuale, ritenendo assorbita ogni questione relativa all’interpretazione dell’art. 15 c.c.n.l. dei dirigenti di aziende industriali nell’ambito del verbale di conciliazione. Tale motivazione, infatti, si risolveva in una violazione dei criteri interpretativi, avuto riguardo al testo della clausola contrattuale di cui all’art. 15 in tema di responsabilità civile e/o penale connessa alla prestazione del dirigente, occorrendo la ricerca, anche al di là del significato proprio delle parole adoperate, della comune intenzione dei contraenti. Ed era, quindi, ovvio nello specifico che la garanzia del rimborso delle spese legali fosse da considerarsi esclusa non solo nei casi di sentenza passata in giudicato di accertamento del dolo o della colpa grave del dirigente, ma anche nell’ipotesi di fatti commessi sviando dall’esercizio delle funzioni attribuite, sicchè il nesso di connessione con il ruolo aziendale cessi, quanto meno sostanzialmente, di essere diretto, per divenire meramente indiretto ovvero occasionale. Inoltre, il diritto al rimborso era da considerarsi escluso anche nell’ipotesi di fatti commessi in danno dell’azienda. Al contrario, l’interpretazione operata dalla Corte d’Appello, che aveva escluso in radice ogni questione circa il significato da attribuire alla disposizione di fonte contrattuale collettiva, comportava una palese violazione dei canoni di interpretazione del verbale di conciliazione, generando risultati paradossali e illogici. Ad avviso della società ricorrente, affinchè potesse riconoscersi il beneficio di cui all’art. 15, erano necessarie le seguenti condizioni, tra loro concorrenti e che si aggiungevano all’assenza di una sentenza passata in giudicato con accertamento di dolo e colpa grave: diretto collegamento tra i fatti e la funzione aziendale ricoperta, senza sviamento della stessa; perseguimento di un interesse aziendale giuridicamente tutelabile dall’ordinamento; utilizzo di mezzi che non espongano il datore di lavoro ad un danno. Diversamente opinando, un’altra interpretazione, oltre ad essere sfornita di ogni senso logico, genererebbe anche una violazione dell’art. 1346 c.c., poichè l’oggetto della prestazione di uno dei contraenti, nella specie il dirigente, risulterebbe illecito e quindi causa di nullità del vincolo obbligatorio. Nel richiamare la menzionata giurisprudenza, ad avviso di parte ricorrente si imponeva anzitutto la verifica dell’esistenza di un nesso causale tra le mansioni ed il fatto di cui veniva imputato il dirigente, verifica da condussi alla luce di un criterio oggettivo basato sull’esistenza di un nesso di congruità tra il fatto e le mansioni affidate. Doveva, quindi, escludersi in primo luogo ogni forma di responsabilità dell’azienda in caso di condotta dirigenziale recante un danno al datore di lavoro. Una siffatta conclusione era, altresì, conforme al canone di buon senso e di ragionevolezza, dal momento che sarebbe risultato palesemente insensato prevedere una responsabilità aziendale in caso di un procedimento penale per fatti concernenti reati commessi in danno di parte datoriale, per i quali la stessa azienda potrebbe costituirsi parte civile. D’altro canto, interpretato ai sensi dell’art. 1363 c.c., cit. art. 15, comma 4, con riferimento al comma 1 della medesima clausola, la responsabilità ivi contemplata non poteva che essere quella verso terzi, donde l’ulteriore corollario in forza del quale il comportamento direttamente connesso l’esercizio delle funzioni assegnate al dirigente non può mai integrare una condotta recante danno al datore di lavoro. L’espressione fatti direttamente connessi all’esercizio delle funzioni attribuite andava quindi intesa nel senso di escludere ogni responsabilità a carico della società: per comportamenti contrari ai doveri tipici del dirigente; comportamenti dannosi per l’azienda o posti in essere dal dirigente al fine di conseguire un proprio vantaggio personale; condotte attuate dal dirigente in esecuzione di ordini illeciti dei propri superiori. Era quindi necessario, affinchè potesse affermarsi l’esistenza di una responsabilità aziendale, che le condotte poste in essere fossero assistite da un rapporto di connessione necessaria ed oggettiva con le funzioni contrattualmente assegnate al dirigente o con i doveri connotanti la sua posizione apicale, in modo tale da potersi ritener esistente una connessione stretta ed oggettiva, imposta dall’avverbio “direttamente”, tra il fatto compiuto e le funzioni svolte. Tutto ciò stava a significare, secondo la società ricorrente, che dell’art. 15, comma 7, introduceva un limite ulteriore rispetto a quelli già desumibili dal comma 4 dello stesso articolo, con l’effetto di limitare l’obbligo di rimborso da parte aziendale ai soli casi di colpa lieve. In altri termini, ad avviso di TELECOM ITALIA, il comma 4, agiva come limite operante ex ante, mentre il limite di cui al comma 7, agiva ex post, proprio in quei casi in cui la condotta del dirigente apparisse direttamente connessa con l’esercizio delle funzioni attribuite, ma ove la sussistenza del dolo della colpa grave fosse stata accertata alla fine del processo. Al contrarlo nessuno degli elementi descritti, agevolmente desumibili dalla corretta interpretazione dell’art. 15, secondo i canoni di ermeneutica più ragionevoli e rispondente alla comune intenzione dei contraenti, era contenuto nella sentenza impugnata;

in via preliminare, parte ricorrente ha omesso di riprodurre per intero il testo della conciliazione stipulata in sede sindacale il 18 aprile 2007, nonchè i motivi di appello a sostegno del gravame di cui al ricorso (motivi riportati soltanto per estrema sintesi). Nemmeno sono stati riprodotti i capi di imputazione per i reati in relazione ai quali la ricorrente TELECOM ritiene inoperante nella specie l’art. 15 del c.c.n.l. (difetta comunque prova di giudicato penale di condanna al riguardo), non bastando, evidentemente, le vaghe notizie fornite in proposito specialmente sub punti da 1 a 9 del ricorso per cassazione (pagine 3 e 4 del ricorso);

non possono, dunque, neanche dirsi accertati con apposite pronunce giudiziali di merito il dolo o la colpa grave, che impedirebbero il rimborso ex art. 15 del contratto collettivo;

nel caso qui in esame con l’impugnata sentenza n. 1602/16, pubblicata il 13 dicembre 2006, la Corte di merito ha ribadito, pure ex art. 118 disp. att. c.p.c., le proprie argomentazioni svolte su analoghe vicende come da richiamate pronunce nn. 154 e 1002 del 2014 e 586 del 2016 (giudicando decisivo ed assorbente il rilievo che delle spese in questione la società si era fatta carico in sede di conciliazione sindacale del 18 aprile 2007, laddove si leggeva delle dimissioni del dipendente, riaffermandosi al punto 9 la piena vigenza dell’art. 15 del contratto collettivo nazionale di lavoro dirigenti del settore. Ad avviso della Corte distrettuale, l’intesa tra le parti era intervenuta quando la società, diversamente da quanto sostenuto con l’appello, aveva piena contezza del procedimento penale a carico dell’appellato, sia perchè l’esistenza dello stesso le era stata comunicata prontamente mediante posta elettronica dal medesimo dirigente fin dal 1 marzo 2007, sia perchè l’indagine penale aveva avuto vastissima eco nei mezzi d’informazione, sia perchè il datore di lavoro aveva saldato le prime due fatture delle spese legali, una delle quali risalente al 30 novembre 2007, e cioè ad epoca successiva in cui, nell’ottobre dello stesso anno, contro l’attore era stata già emessa ordinanza di misura cautelare coercitiva -arresti domiciliari – nonchè di sequestro. Era allora evidente, secondo la Corte territoriale, che riaffermando al momento delle dimissioni del dipendente la vigenza dell’art. 15 citato, le parti avessero inteso, quale elemento dell’accordo, che da parte sua lo J. si fosse dimesso e che la società gli avrebbe pagato le spese del giudizio penale – o dei giudizi penali – a suo carico. In altri termini, l’accordo di cui al verbale di conciliazione in esame rappresentava in sostanza – più che semplici dimissioni del dipendente – una pattuizione complessa nella quale il dirigente e il datore di lavoro si erano accordati per una risoluzione consensuale a fronte di un corrispettivo, che includeva anche la presa in carico delle spese penali. Nè la circostanza che ciò fosse stato previsto attraverso il richiamo all’art. 15 significava che l’accollo delle spese legali fosse condizionato ai presupposti di cui alla disposizione della contrattazione collettiva in esame. Invero, una simile formulazione tecnica della clausola – che avrebbe potuto essere più semplicemente stilata affermando che la società si assumeva l’obbligo del pagamento delle spese del processo penale pendente – si giustificava con il rilievo che permetteva di ricomprendere nell’obbligo di rimborso delle spese legali anche eventuali procedimenti penali successivi alla sottoscrizione della conciliazione. Tale opzione interpretativa, con conseguente fondatezza della domanda di parte attrice, risultava confermata poi dal comportamento successivo osservato dalle parti, in particolare dal consapevole pagamento delle due menzionate fatture, che il tribunale aveva correttamente utilizzato quale canone interpretativo dell’accordo ai sensi dell’art. 1363 c.c.. Ogni altra questione circa il significato da attribuire alla norma collettiva doveva, quindi, intendersi assorbita. E parimenti infondata era la riproposizione della censura in ordine alle parcelle, già respinta dal primo giudicante sul rilievo dell’allegazione del tariffario forense e della produzione della documentazione attestante l’attività difensiva svolta in sede penale, rilevo neppure contestato in sede d’appello);

analogo ricorso di TELECOM ITALIA, avverso la surriferita pronuncia, n. 586/2016, della Corte milanese contro lo stesso J.A. è già stata respinto da questa Corte, sez. VI – L, come da ordinanza n. 1855 in data 11 ottobre 2018 – 23 gennaio 2019, cui pure integralmente si rimanda;

pertanto, la Corte di merito nella specie ha, congruamente e con adeguato percorso argomentativo, senza pretermettere nemmeno alcuna circostanza di fatto e decisiva rilevante, accertato la comune intenzione dei contraenti, nei sensi anzidetti, mediante il complessivo accordo raggiunto con il verbale di conciliazione in data 18-04-2007 (di cui la società ricorrente ha trascritto però un solo passo – v. pg. 5 del ricorso: “Il Gruppo Telecom Italia conferma nei confronti del sig. J.A. il mantenimento delle tutele previste dall’art. 15 del vigente Contratto Collettivo di Lavoro dei Dirigenti di Aziende Produttrici di beni e servizi”, sicchè anche sul piano letterale il rinvio, per relationem, sembrerebbe limitato alla conferma del mantenimento delle tutele di cui al menzionato art. 15, poichè in caso contrario sarebbe stata necessaria anche una maggiore precisione, nel senso di richiamare integralmente la disciplina ivi prevista), enunciando quindi anche le ragioni per cui tale ricostruzione assorbiva ogni altra questione, in quanto superflua ed irrilevante, inerente al significato da riconoscere alla menzionata norma collettiva;

non si ravvisano, pertanto, nella specie, alla stregua peraltro anche delle carenti allegazioni e produzioni (artt. 366 e 369 c.p.c.), concreti e fondati elementi di cognizione, da cui poter desumere l’asserita violazione delle norme di legge rubricate nelle anzidette due censure, norme che, per contro, risultano esser state debitamente osservate dalla Corte milanese, avuto riguardo al loro combinato disposto, per cui, ex art. 1362 c.c. (intenzione dei contraenti), nell’interpretare il contratto si deve indagare quale sia stata la comune intenzione delle parti e non limitarsi al senso letterale delle parole, aggiungendosi inoltre che per determinare la comune intenzione delle parti, si deve valutare il loro comportamento complessivo anche posteriore alla conclusione del contratto, mentre ai sensi, poi, dell’art. 1363 c.c. (interpretazione complessiva delle clausole, nella specie peraltro ostacolata dalle già rilevate lacune del ricorso) le clausole del contratto si interpretano le une per mezzo delle altre, attribuendo a ciascuna il senso che risulta dal complesso dell’atto (cfr. tra le altre Cass. lav. n. 3772 del 25/02/2004, secondo cui in tema di ermeneutica contrattuale, l’accertamento della volontà delle parti in relazione al contenuto del negozio si traduce in una indagine di fatto, affidata al giudice di merito e censurabile in sede di legittimità nella sola ipotesi di motivazione inadeguata – peraltro nel caso qui in esame opera ratione temporis la nuova formulazione, attualmente vigente, dell’art. 360 c.p.c., n. 5 – ovvero di violazione di canoni legali di interpretazione contrattuale di cui agli artt. 1362 c.c. e segg.. Nella ipotesi in cui il ricorrente lamenti espressamente tale violazione, egli ha l’onere di indicare, in modo specifico, i criteri in concreto non osservati dal giudice di merito e, soprattutto, il modo in cui questi si sia da essi discostato, non essendo, all’uopo, sufficiente una semplice critica della decisione sfavorevole, formulata attraverso la mera prospettazione di una diversa – e più favorevole – interpretazione rispetto a quella adottata dal giudicante. Conformi Cass. I civ. n. 13643 del 22/07/2004, nonchè II civ. n. 18134 del 09/09/2004. V. parimenti Cass. II civ. n. 11342 del 17/06/2004: in tema di interpretazione del contratto ed al fine di riscontrare l’esistenza dei denunciati errori di diritto o dei vizi di ragionamento, non è sufficiente l’astratto riferimento alle regole degli artt. 1362 c.c. e segg., ma è necessaria invece la specificazione dei canoni in concreto violati e del punto e del modo in cui il giudice del merito si sia da quei canoni discostato. Ne consegue che la mera critica della ricostruzione della volontà contrattuale, operata dal giudice, e la proposta di una diversa interpretazione costituiscono una censura inammissibile in sede di legittimità. Conformi Cass. n. 16099 del 2003, nonchè Cass. I civ. n. 10420 del 18/05/2005);

invero, poi, in sede di ricorso per cassazione per quanto concerne l’interpretazione dei contratti le censure non possono risolversi nella mera contrapposizione tra l’interpretazione propugnata dal ricorrente e quella accolta nella sentenza impugnata, poichè quest’ultima non deve essere l’unica astrattamente possibile, ma solo una delle plausibili interpretazioni, sicchè, quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni, non è consentito, alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito, dolersi in sede di legittimità del fatto che fosse stata privilegiata l’altra (Cass. III civ. n. 28319 del 28/11/2017. Conforme, Cass. I civ. n. 16987 del 27/06/2018. In senso analogo Cass. III civ. n. 24539 del 20/11/2009, n. 16254 del 25/09/2012, I civ. n. 6125 del 17/03/2014. V. parimenti Cass. I civ. n. 27136 del 15/11/2017, id. n. 15471 del 22/06/2017. Similmente, cfr. ancora Cass. I civ. n. 10131 del 02/05/2006 ed in senso pressochè conforme v. anche Cass. III civ. n. 11193 del 17/07/2003);

pertanto, il ricorso va rigettato con conseguente condanna della parte soccombente al rimborso delle relative spese, non ravvisando tuttavia nella specie il collegio gli estremi di cui all’art. 96 c.p.c., comma 3 (“In ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell’art. 91, il giudice, anche d’ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata”), dovendosi perciò disattendere l’istanza a tal riguardo avanzata dal controricorrente, non potendosi ritenere in proposito dirimenti e determinanti di per sè le sentenze di merito, in sede civile e penale, con esito favorevole per Dott. J., menzionate nelle pagine 10 e ss. del controricorso, dalla cui enunciazione non si evincono elementi di intenzionale attività processuale a scopo meramente dannoso da parte di TELECOM Italia in pregiudizio dello stesso J. (v. del resto Cass. sez. un. civ. n. 22405 del 13/09/2018, secondo cui la condanna ex art. 96 c.p.c., comma 3, è volta a salvaguardare finalità pubblicistiche, correlate all’esigenza di una sollecita ed efficace definizione dei giudizi, nonchè interessi della parte vittoriosa ed a sanzionare la violazione dei doveri di lealtà e probità sanciti dall’art. 88 c.p.c., realizzata attraverso un vero e proprio abuso della “potestas agendi” con un’utilizzazione del potere di promuovere la lite, di per sè legittimo, per fini diversi da quelli ai quali esso è preordinato, con conseguente produzione di effetti pregiudizievoli per la controparte. Ne deriva che la condanna, al pagamento della somma equitativamente determinata, non richiede nè la domanda di parte nè la prova del danno, essendo tuttavia necessario l’accertamento, in capo alla parte soccombente, della mala fede -consapevolezza dell’infondatezza della domanda – o della colpa grave – per carenza dell’ordinaria diligenza volta all’acquisizione di detta consapevolezza -, venendo in considerazione, a titolo esemplificativo, la pretestuosità dell’iniziativa giudiziaria per contrarietà al diritto vivente ed alla giurisprudenza consolidata, la manifesta inconsistenza giuridica delle censure in sede di gravame ovvero la palese e strumentale infondatezza dei motivi di impugnazione. Cfr. altresì Cass. sez. un. civ. n. 9912 del 20/04/2018: la responsabilità aggravata ai sensi dell’art. 96 c.p.c., comma 3, a differenza di quella di cui ai primi due commi della medesima norma, non richiede la domanda di parte nè la prova del danno, ma esige pur sempre, sul piano soggettivo, la mala fede o la colpa grave della parte soccombente, sussistente nell’ipotesi di violazione del grado minimo di diligenza che consente di avvertire facilmente l’infondatezza o l’inammissibilità della propria domanda, non essendo sufficiente la mera infondatezza, anche manifesta, delle tesi prospettate; peraltro, sia la mala fede che la colpa grave devono coinvolgere l’esercizio dell’azione processuale nel suo complesso, cosicchè possa considerarsi meritevole di sanzione l’abuso dello strumento processuale in sè, anche a prescindere dal danno procurato alla controparte e da una sua richiesta, come nel caso di pretestuosità dell’azione per contrarietà al diritto vivente ed alla giurisprudenza consolidata, ovvero per la manifesta inconsistenza giuridica o la palese e strumentale infondatezza dei motivi di impugnazione);

atteso, infine, l’esito interamente negativo dell’impugnazione qui proposta, sussistono i presupposti di legge per il versamento dell’ulteriore contributo unificato.

P.Q.M.

la Corte RIGETTA il ricorso. Condanna la società ricorrente al pagamento delle relative spese, che liquida a favore del controricorrente in complessivi Euro 5000,00, per compensi professionali ed in Euro 200,00, per esborsi, oltre spese generali al 15%, i.v.a. e c.p.a. come per legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 11 settembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 22 luglio 2020

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