Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 1562 del 26/01/2010

Cassazione civile sez. II, 26/01/2010, (ud. 18/12/2009, dep. 26/01/2010), n.1562

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRIOLA Roberto Michele – Presidente –

Dott. MALZONE Ennio – Consigliere –

Dott. MAZZIOTTI DI CELSO Lucio – rel. Consigliere –

Dott. PICCIALLI Luigi – Consigliere –

Dott. ATRIPALDI Umberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 25535-2004 proposto da:

C.R. (OMISSIS), C.G.

(OMISSIS), elettivamente domiciliati in ROMA, VIA GIULIO

CESARE 71, presso lo studio dell’avvocato NANNA VITO, rappresentati e

difesi dall’avvocato VIOLANTE ANDREA;

– ricorrenti –

contro

D.R.E. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in

ROMA, VIA SARDEGNA 38, presso lo studio dell’avvocato GIORGI VALERIO,

rappresentato e difeso dagli avvocati SISTO ONOFRIO, SISTO EUSTACHIO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 688/2004 della CORTE D’APPELLO di BARI,

depositata il 20/07/2004;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

18/12/2009 dal Consigliere Dott. LUCIO MAZZIOTTI DI CELSO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MARINELLI VINCENZO che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

D.R.E. conveniva in giudizio C.R. e C.G. esponendo: che, con scrittura privata del 13/4/1999, i convenuti si erano obbligati a vendere ad esso attore, che si era obbligato ad acquistare, un locale in (OMISSIS) al prezzo di L. 970.000.000 con atto da stipularsi entro il 20/7/1999; che i promettenti venditori si erano obbligati a cancellare l’ipoteca accesa sul locale, nonchè ad esibire contestualmente alla stipula dell’atto definitivo la documentazione relativa alla pratica di condono; che alla data del 20/7/999 non si era proceduto alla stipula del definitivo in quanto i C. non avevano consegnato al notaio la documentazione necessaria; che, con telegramma del 24/7/1999 esso D.R. aveva comunicato ai promettenti venditori la sua volontà di risolvere il preliminare per la grave inadempienza dei C. i quali avevano riscontrato la comunicazione respingendo ogni addebito di responsabilità e contestando ad esso attore presunte inadempienze; che in seguito le parti avevano convenuto di evitare inutili contenziosi decidendo di procedere alla stipula dell’atto pubblico; che, malgrado ciò, i C., convocati innanzi al notaio per la stipula, avevano comunicato con telegramma del 2/9/1999 che nessuna intesa era mai intercorsa dopo il 24/7/1999 essendo già intervenuta la risoluzione;

che era chiara l’intenzione dei promittenti venditori di non adempiere. L’attore chiedeva quindi: emettere sentenza costitutiva ex art. 2932 c.c. dando atto della disponibilità di esso D.R. a versare il residuo prezzo di L. 920.000.000, con condanna dei promettenti venditori al risarcimento dei danni; in via subordinata pronunciare la risoluzione del preliminare per inadempimento dei convenuti.

I C. si costituivano ed eccepivano in via preliminare l’inammissibilità della domanda di esecuzione in forma specifica avendo le parti, con le reciproche comunicazioni del 24/7/99 e 29/7/99, risolto il preliminare per mutuo consenso. I convenuti contestavano poi ogni loro addebito di responsabilità e, deducendo che l’attore non aveva adempiuto all’obbligo di pagamento della somma di L. 720.000.000 entro il termine del 20/7/99, spiegavano domanda riconvenzionale di risoluzione per grave inadempimento del D. R. con condanna del medesimo al pagamento della convenuta penale.

Con memoria autorizzata ex art. 183 c.p.c. l’attore, deducendo che i convenuti nelle more del giudizio avevano locato a terzi l’immobile in contestazione, chiedeva la riduzione del prezzo.

Con sentenza 12/2/2003 l’adito tribunale di Bari accoglieva la domanda dell’attore di esecuzione specifica e quella di riduzione del prezzo disponendo, previo versamento del saldo di Euro 380.112,28, il trasferimento della proprietà dell’immobile dai C. al D. R. e condannando i convenuti al risarcimento dei danni nella misura di Euro 51.645,69 oltre accessori.

Avverso la detta sentenza i C. proponevano appello al quale resisteva il D.R..

Con sentenza 20/7/2004 la corte di appello di Bari rigettava il gravame osservando: che era infondata la tesi degli appellanti relativa alla avvenuta risoluzione del contratto in questione per mutuo consenso; che non era possibile ravvisare, nello scambio tra le parti di due telegrammi, una risoluzione per mutuo consenso posto che i C. nel loro telegramma non avevano manifestato la loro volontà di risolvere il contratto essendosi limitati a prendere atto della volontà del D.R. di risolvere il preliminare; che pertanto mancava nella specie il dato caratteristico dello scioglimento del contratto per mutuo consenso costituito dal pieno e totale accordo delle parti su tutti gli elementi del regolamento negoziale; che, del resto, i C., nonostante la prospettata risoluzione per mutuo consenso, avevano contraddittoriamente proposto domanda riconvenzionale di risoluzione per inadempimento del D. R.; che i contraenti, dopo le reciproche contestazioni di inadempienze, con comportamenti inequivoci e concludenti (nel dettaglio indicati e relativi, in particolare, alla procedura per la cancellazione ipotecaria, alla certificazione sul condono edilizio, ai rapporti con l’agenzia immobiliare Vitulli), avevano deciso di portare in esecuzione il preliminare in quanto vicendevolmente interessati alla conclusione della vendita; che non sussistevano dubbi sulla volontà delle parti di revocare le precedenti comunicazioni di risoluzione per inadempimento, revoca desumibile, tra l’altro, dal concordato rimando della data di stipula del definitivo ai primi di settembre; che la volontà delle parti di rinunciare al diritto di domandare la risoluzione risultava provata documentalmente da atti inequivoci compiuti dai contraenti in virtù delle intese raggiunte tramite l’agenzia immobiliare Vitelli; che le parti, con le intese raggiunte dopo le contestazioni reciproche di inadempienza, avevano convenuto di dare esecuzione al preliminare fissando per la stipula del definitivo la nuova data del 6/9/99; che alla detta data i C. non si erano presentati innanzi al notaio rifiutando definitivamente di stipulare l’atto di trasferimento; che, in riferimento a questo ingiustificato rifiuto di stipulare il contratto definitivo, era stata pronunciata dal tribunale la sentenza di accoglimento della domanda del D.R. e di rigetto della domanda riconvenzionale attese l’inadempienza dei C. e l’insussistenza di qualsiasi inadempienza del D. R.; che il versamento del prezzo e la stipula del definitivo, secondo le clausole del preliminare, dovevano avvenire contestualmente con il verificarsi di tutte le condizioni previste in contratto; che la domanda di riduzione del prezzo non poteva essere definita nuova in quanto ritualmente avanzata dal D.R. con la memoria autorizzata ex art. 183 c.p.c.; che con tale richiesta era stata solo modificato l’ammontare del prezzo senza alcun mutamento sostanziale dell’azione e dei termini della controversia; che la detta domanda era ammissibile e fondata sussistendo i requisiti dell’azione quanti minoris posto che il contratto di locazione stipulato dai C. non poteva essere considerato un onere apparente nè conosciuto dal D.R. in quanto posto in essere dopo la conclusione del preliminare e nel corso del giudizio all’insaputa e senza il consenso del D.R.; che la locazione rivestiva il carattere di onere o peso gravante sull’immobile comportando una limitazione per il futuro proprietario del libero godimento e della libera circolazione del bene; che correttamente il tribunale aveva operato una decurtazio ne del 25% sul prezzo pattuito affermando che costituiva “un dato di comune esperienza, facilmente rilevabile da una mera indagine di mercato, che il valore degli immobili, per effetto del vincolo locativo, subisce una decurtazione del 25%”; che tale motivazione non era arbitraria ben potendo il giudice, a norma dell’art. 115 c.p.c., porre a fondamento della decisione le nozioni di fatto rientranti nella comune esperienza; che del resto la decisione del tribunale sul punto aveva trovato conferma nelle acquisite dichiarazioni di due importanti e note agenzie immobiliari; che il tribunale aveva accolto la domanda di risarcimento danni condannando i C. al versamento dell’importo di Euro 51.654,69 determinato in via equitativa per il mancato godimento dell’immobile e per oneri e spese da sopportarsi dall’attore per riacquistare la disponibilità del bene; che era in re ipsa la prova dei danni subiti dal D.R. il quale solo con la sentenza del 12/2/2003, ossia dopo oltre tre anni dalla data concordata con il preliminare, aveva ottenuto il trasferimento dell’immobile; che, in ordine al quantum, legittimamente il tribunale aveva fatto riferimento alla valutazione equitativa ex art. 1226 c.c. quantificando il pregiudizio in Euro 51.654,69 in relazione a tre anni e mezzo di indisponibilità dell’immobile, somma che poteva dirsi riduttiva tenuto conto della notevole perdita di guadagno subito in detto periodo dal D.R. impedito a rivendere o a locare l’immobile; che, secondo gli appellanti, il tribunale avrebbe dovuto riconoscere ad essi C. gli interessi sul prezzo corrispettivo; che tale tesi, oltre che inammissibile per genericità, era infondata dato che il pagamento del saldo era stato previsto contestualmente alla stipula del definitivo.

La cassazione della sentenza della corte di appello di Bari è stata chiesta da R. e C.G. con ricorso affidato a sette motivi. D.R.E. ha resistito con controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo di ricorso i C. denunciano violazione degli artt. 1372, 1322 e 1362 c.c., nonchè vizi di motivazione, deducendo che il principio affermato nella sentenza impugnata – secondo cui l’esistenza del patto risolutivo per mutuo consenso è subordinata al pieno e totale accordo su tutti gli elementi del regolamento negoziale – si traduce in una errata interpretazione dell’art. 1372 c.c. E’ infatti pacifico che la corretta interpretazione di detto art. è nel senso che il negozio risolutivo per mutuo consenso non ha sempre e comunque effetto liberatorio ben potendo lasciare impregiudicata l’azione per danni connessi all’inadempimento del negozio estinto. Ne consegue che, al contrario di quanto affermato dalla corte di appello, è ammissibile la risoluzione consensuale anche in presenza di reciproche contestazioni per inadempimenti. La volontà di risolvere un contratto per mutuo consenso non è incompatibile con l’intenzione di non rinunciare all’azione per danni da inadempimento. Ciò rappresenta esplicazione del potere di autonomia contrattuale ex art. 1322 c.c. La corte di appello al riguardo ha omesso di considerare: a) che il patto risolutivo si era perfezionato con l’invio da parte di essi C. del telegramma 29/7/1999 con il quale era stata prestata adesione alla volontà del D.R. di risolvere il preliminare;

b) che con le due separate dichiarazioni di volontà le parti erano addivenute alla risoluzione del preliminare per mutuo consenso; c) che il patto risolutivo era stato perfezionato per iscritto; d) che ciascuna parte aveva escluso il proprio inadempimento. La comune volontà delle parti di risolvere il preliminare emerge poi: 1) dalla volontà di essi C. – manifestata nel telegramma del 29/7/1999 – di trattenere una somma a titolo di penale per l’inadempimento imputabile al D.R.; 2) dalle dichiarazioni di essi C. contenute nel telegramma del 2/9/1999 circa l’inesistenza di intese in ordine alla risoluzione consensuale del preliminare; 3) dalle dichiarazioni del D.R. contenute nell’atto di citazione con le quali era stata riconosciuta la risoluzione per mutuo consenso; 4) dall’atteggiamento processuale di essi ricorrenti sin dal primo atto difensivo in ordine all’asserito perfezionamento di un negozio risolutivo per mutuo consenso; 5) dalle dichiarazioni del teste B. e del teste V.. La corte di merito, inoltre, ha omesso di esaminare il telegramma di essi C. datato 2/9/1999 e il contenuto dell’atto di citazione del D.R..

La Corte rileva l’infondatezza delle dette censure che si risolvono essenzialmente, pur se titolate come violazione di legge e come difetto di motivazione, nella prospettazione di una diversa analisi del merito della causa, inammissibile in sede di legittimità, nonchè nella pretesa di contrastare valutazioni ed apprezzamenti dei fatti e delle risultanze probatorie che sono prerogativa del giudice del merito e la cui motivazione non è sindacabile in sede di legittimità se sufficiente ed esente da vizi logici e da errori di diritto: il sindacato di legittimità è sul punto limitato al riscontro estrinseco della presenza di una congrua ed esauriente motivazione che consenta di individuare le ragioni della decisione e l’iter argomentativo seguito nell’impugnata sentenza. Spetta infatti solo al giudice del merito individuare la fonte del proprio convincimento e valutare le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza, scegliere tra le risultanze istruttorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, dar prevalenza all’uno o all’altro mezzo di prova. Nè per ottemperare all’obbligo della motivazione il giudice di merito è tenuto a prendere in esame tutte le risultanze istruttorie e a confutare ogni argomentazione prospettata dalle parti essendo sufficiente che egli indichi gli elementi sui quali fonda il suo convincimento e dovendosi ritenere per implicito disattesi tutti gli altri rilievi e fatti che, sebbene non specificamente menzionati, siano incompatibili con la decisione adottata.

Va aggiunto che, come è pacifico nella giurisprudenza di legittimità, l’accertamento della risoluzione del contratto per mutuo dissenso costituisce apprezzamento di fatto del giudice di merito, non censurabile in sede di legittimità in presenza di congrua motivazione.

Del pari è pacifico che l’interpretazione degli atti di autonomia privata si traduce in una indagine di fatto affidata al giudico del merito: tale accertamento è incensurabile in Cassazione se sorretto da motivazione sufficiente ed immune da vizi logici o da errori di diritto e sia il risultato di un’interpretazione condotta nel rispetto delle norme di ermeneutica contrattuale di cui all’art. 1362 c.c., e seguenti. L’identificazione della volontà contrattuale che, avendo ad oggetto una realtà fenomenica ed obiettiva, concreta un accertamento di fatto istituzionalmente riservato al Giudice di merito – e censurabile non già quando le ragioni poste a sostegno della decisione siano diverse da quelle della parte, bensì quando siano insufficienti o inficiate da contraddittorietà logica o giuridica. Pertanto in questa sede di legittimità la censura dell’interpretazione data dai giudici di merito agli atti negoziali può essere formulata sotto due distinte angolazioni; denunciando l’errore di diritto sostanziale per non essere state rispettate le regole di ermeneutica dettate dagli artt. 1362 c.c., e seguenti;

ovvero investendo la coerenza formale del ragionamento attraverso il quale la sentenza impugnata è pervenuta a ricostruire la comune intenzione delle parti.

Va altresì ribadito che l’apprezzamento della concludenza del comportamento della parte è riservato al giudice di merito: l’art. 116 c.p.c. conferisce al giudice di merito il potere discrezionale di trarre elementi di prova dal comportamento processuale delle parti.

Ciò posto va osservato che nel caso in esame non sono ravvisabili nè il lamentato difetto di motivazione, nè l’asserita violazione di legge: la sentenza impugnata è del tutto corretta e si sottrae alle critiche di cui è stata oggetto.

Come sopra riportato nella ampia parte narrativa che precede, la Corte di appello ha escluso la possibilità di ravvisare nel contenuto dei due telegrammi inviati da una parte all’altra il 24/7/99 e il 29/7/99 l’avvenuto e raggiunto accordo dei contraenti di risolvere consensualmente il contratto preliminare stipulato in data 13/4/99 con la caducazione delle obbligazioni scaturenti da tale contratto.

La Corte di appello è pervenuta alla detta conclusione (dai ricorrenti criticata) attraverso complete argomentazioni, improntate a retti criteri logici e giuridici – nonchè frutto di un’indagine accurata e puntuale delle risultanze di causa riportate nella decisione impugnate e, in particolare, del contenuto dei detti telegrammi e del comportamento processuale ed extraprocessuale delle parti – ed ha dato conto delle proprie valutazioni, circa i riportati accertamenti in fatto, esponendo adeguatamente le ragioni del suo convincimento facendo anche riferimento al comportamento processuale dei C. ed alla loro domanda riconvenzionale di risoluzione del contratto logicamente incompatibile con la tesi dell’avvenuta risoluzione per mutuo consenso.

Alle dette valutazioni i ricorrenti contrappongono le proprie, ma della maggiore o minore attendibilità di queste rispetto a quelle compiute dal giudice del merito non è certo consentito discutere in questa sede di legittimità, ciò comportando un nuovo autonomo esame del materiale delibato che non può avere ingresso nel giudizio di cassazione. Dalla motivazione della sentenza impugnata risulta chiaro che la Corte di merito, nel porre in evidenza gli elementi probatori favorevoli alle tesi del D.R., ha implicitamente espresso una valutazione negativa delle contrapposte tesi dei C..

Sono pertanto insussistenti gli asseriti vizi di motivazione e le dedotte violazioni di legge che presuppongono una ricostruzione dei fatti diversa da quella ineccepibilmente effettuata dal giudice del merito.

In definitiva, poichè resta istituzionalmente preclusa in sede di legittimità ogni possibilità di rivalutazione delle risultanze istruttorie, non possono i ricorrenti pretendere il riesame del merito sol perchè la valutazione delle accertate circostanze di fatto come operata dalla Corte territoriale non collima con le loro aspettative e confutazioni.

Occorre poi evidenziare che il giudice di secondo grado ha proceduto all’interpretazione dei sopra menzionati telegrammi ed alla valutazione del significato letterale e logico della espressioni ivi contenute. Il procedimento logico – giuridico sviluppato nell’impugnata decisione è ineccepibile, in quanto coerente e razionale, ed il giudizio di fatto in cui si è concretato il risultato dell’interpretazione del contenuto dei detti telegrammi è fondato su un’indagine condotta nel rispetto dei comuni canoni di ermeneutica e sorretto da motivazione adeguata ed immune dai vizi denunciati.

Nella sentenza impugnata sono evidenziati i punti salienti della decisione e risulta chiaramente individuabile la “ratio decidendi” adottata. A fronte delle coerenti argomentazioni poste a base della conclusione cui è pervenuta la corte di appello, è evidente che le censure in proposito mosse dai ricorrenti devono ritenersi rivolte non alla base del convincimento del giudice, ma, inammissibilmente in queste sede, al convincimento stesso e, cioè, all’interpretazione dei telegrammi: i ricorrenti contrappongono all’interpretazione dei detti atti negoziali ritenuta dalla corte di appello la loro interpretazione.

Peraltro le censure mosse dai ricorrenti non sono meritevoli di accoglimento anche per la loro genericità non essendo stato precisato il contenuto specifico e completo dei telegrammi dei quali lamentano l’errata interpretazione.

Deve pertanto ritenersi corretta l’operazione ermeneutica compiuta dalla corte di appello – la quale non è incorsa nella violazione dei criteri interpretativi di cui agli artt. 1362 e 1363 c.c. – ed anche se i ricorrenti lamentano la violazione delle citate norme codicistiche, svolgendo al riguardo generiche argomentazioni, la rilevata coerente applicazione dei canoni interpretativi da parte del giudice di secondo grado, rende manifesto che è stato investito essenzialmente il “risultato” interpretativo raggiunto, il che è inammissibile in questa sede.

Va poi segnalato che le critiche concernenti l’asserito omesso o errato esame di alcune risultanze istruttorie (dichiarazioni di essi C. contenute nel telegramma del 2/9/1999; dichiarazioni del D.R. contenute nell’atto di citazione; dichiarazioni dei testi B. e V.) non sono meritevoli di accoglimento, oltre che per l’incidenza in ambito di apprezzamenti riservati al giudice del merito, anche per la loro genericità in ordine all’asserita erroneità in cui sarebbe incorso il giudice di appello nell’interpretare e valutare le dette risultanze istruttorie.

Le censure in esame non riportano il contenuto specifico e completo delle dette risultanze probatorie e non forniscono alcun dato valido per ricostruire, sia pur approssimativamente, il senso complessivo di tali risultanze. Ciò impedisce a questa Corte di valutare – sulla base delle sole deduzioni contenute in ricorso – l’incidenza causale del denunciato difetto di motivazione e la decisività dei rilievi al riguardo mossi dai ricorrenti.

Nel giudizio di legittimità, il ricorrente che deduce l’omessa o l’erronea valutazione delle risultanze istruttorie ha l’onere (per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione) di specificare il contenuto delle prove non esaminate, indicando le ragioni del carattere decisivo dell’asserito vizio di valutazione:

tale onere non è stato nella specie rispettato.

Con il secondo motivo i ricorrenti denunciano violazione degli artt. 1353, 1358 e 1372 c.c., nonchè vizi di motivazione, sostenendo che la corte di appello – se avesse correttamente applicato l’art. 1372 c.c. con conseguente riconoscimento sia dell’avvenuta risoluzione consensuale del contratto stipulato dalle parti, sia dell’impregiudicata sussistenza dell’azione risarcitoria per i danni derivanti dall’inadempimento delle obbligazioni assunte con il negozio risolto – avrebbe dovuto accogliere la domanda riconvenzionale proposta da essi C. volta ad ottenere la pronuncia di risoluzione del preliminare per inadempimento del D. R.. In proposito la corte di merito ha omesso ogni esame e motivazione su quanto prospettato da essi ricorrenti a sostegno della detta domanda riconvenzionale e cioè: a) che dalle risultanze processuali era emersa l’insussistenza di inadempimenti da parte di essi promettenti venditori con riferimento agli obblighi assunti con il preliminare che alla data del 20/7/99 non era ancora efficace non essendosi ancora verificata la condizione della cancellazione dell’ipoteca; b) che, come provato da idonea documentazione, essi C. si erano attivati per una tempestiva cancellazione dell’ipoteca; c) che il D.R. si era reso inadempiente alla pattuizioni del preliminare relative all’obbligo di pagamento di L. 720.000.000 entro il 20/7/99.

Dalle considerazioni sopra svolte esaminando il primo motivo di ricorso discende logicamente l’infondatezza del motivo in esame che trova il suo presupposto – come espressamente dedotto dai ricorrenti – nell’asserita errata interpretazione da parte della corte di appello dell’art. 1372 c.c. e nella pretesa avvenuta risoluzione per mutuo consenso del contratto preliminare stipulato dalle parti il 13/4/1999. Si tratta di presupposti la cui ricorrenza nella specie è stata sopra esclusa.

Con il terzo motivo i C. denunciano violazione degli artt. 1353, 1358, 1372 e 1351 c.c., nonchè vizi di motivazione, deducendo che la corte di appello – nell’affermare che le parti avrebbero superato le precedenti reciproche contestazioni di inadempienza con un’intesa per “acta concludentia” – ha errato posto che nei contratti relativi al trasferimento di beni immobili è richiesta la forma scritta a pena di nullità. Inoltre la corte di appello ha errato anche nell’affermare che essi C. avrebbero inteso procedere all’esecuzione del preliminare per “acta concludentia”. Il ragionamento della corte è sul punto privo del criterio logico ed è frutto del mancato esame delle questioni prospettate da essi ricorrenti con l’atto di appello e cioè: che, come emergeva sin dal primo grado, la pratica per la cancellazione di ipoteca era iniziata prima della intervenuta risoluzione del preliminare per mutuo consenso; che nessun elemento probatorio era emerso in ordine all’asserita consegna da parte di essi C. al notaio della documentazione di assenso alla cancellazione ipotecaria; che la valutazione delle dichiarazioni del teste V. era in contrasto con quanto dal detto teste affermato.

Il motivo va disatteso posto che, in buona parte, esso si basa su un presupposto avvenuta risoluzione del contratto preliminare per mutuo consenso – la cui insussistenza è stata sopra posta in evidenza.

Per quanto riguarda l’asserito errore in cui sarebbe incorsa la corte di appello nel ritenere che le parti “per acta concludentia” avrebbero posto nel nulla il precedente negozio risolutivo del preliminare, è appena il caso di segnalare che, secondo quanto ineccepibilmente accertato in fatto dal giudice di merito alla luce delle risultanze istruttorie, le parti con le intese di fatto raggiunte non concordarono di stipulare un nuovo contratto preliminare in sostituzione di quello precedente del 13/4/1999, ma si limitarono a ribadire la loro volontà di dare esecuzione all’accordo già raggiunto spostando solo la data inizialmente prevista per la formalizzazione del contratto definitivo.

Il detto convincimento della corte territoriale è sorretto da un ragionamento ineccepibile e da argomenti adeguati e congrui a sostegno della valutazione e dell’apprezzamento delle risultanze probatorie.

In proposito va segnalato che l’infondatezza delle censure mosse dai C. con il motivo in esame – in relazione al denunciato vizio di motivazione ed all’asserito errato o omesso esame delle indicate risultanze istruttorie e delle specificate tesi difensive – emerge con evidenza ed immediatezza dalle considerazioni sopra svolte esaminando il primo motivo di ricorso con riferimento alla rilevata inammissibilità delle censure con le quali si prospetta una diversa lettura del quadro probatorio posto che l’interpretazione e la valutazione delle risultanze processuali sono affidate al giudice del merito e costituiscono insindacabilmente accertamento di fatto.

Con il quarto motivo i C. denunciano nullità della sentenza impugnata e del relativo procedimento, nonchè violazione dell’art. 183 c.p.c. e art. 1489 c.c., deducendo che la corte di appello ha errato nel non accogliere l’eccezione di inammissibilità della domanda di riduzione del prezzo in quanto formulata dal D. R. solo con la memoria ex art. 183 c.p.c. in base al quale possono solo essere precisate e modificate le domande già proposte e non è consentito proporre una domanda nuova come quella relativa alla riduzione del prezzo. La corte di merito ha altresì errato nel non aver considerato che l’art. 1489 c.c. – che disciplina l’ipotesi di cosa gravata da oneri o da diritti di godimento di terzi – non è applicabile allorchè, come nella specie, l’onere o il diritto di godimento di terzi sia venuto ad esistenza dopo la stipulazione del contratto, ricorrendo in tale ipotesi una situazione di inadempimento dell’obbligo di consegnare la cosa nello stato in cui si trovava. La statuizione della corte territoriale contrasta poi con la corretta interpretazione dell’art. 1489 c.c. in base al quale la garanzia va esclusa se gli oneri ed i diritti di godimento sono apparenti ed il compratore ne ha conoscenza, il che è ravvisabile nella specie come emerge dalle risultanze processuali.

La censura non coglie nel segno.

Del tutto insussistente è l’asserita violazione dell’art. 183 c.p.c. atteso che il D.R. – come puntualmente rilevato nella sentenza impugnata – con la memoria autorizzata a norma del comma 5, citato art. si è limitato a chiedere la riduzione del prezzo di acquisto previsto nel contratto preliminare: con tale domanda è stata solo modificata la richiesta come formulata con l’atto introduttivo del giudizio senza mutare i termini sostanziali della controversia e senza comportare alcuna violazione del principio del contraddittorio, nè menomazione del diritto di difesa dell’altra parte. Sono infatti rimasti inalterati la causa petendi e i fatti costitutivi fatti valere a sostegno della domanda in precedenza proposta (esecuzione specifica dell’obbligo di concludere il contratto a seguito della violazione da parte dei C. dell’obbligo assunto con il preliminare di stipulare il definitivo).

La richiesta di riduzione del prezzo di acquisto – volta a precisare e ridurre uno degli elementi della pretesa, ossia il prezzo – costituisce una mera modifica (emendatio) e non modifica (mutatio) della domanda di esecuzione specifica ex art. 2932 c.c..

Per quanto riguarda poi la denunciata violazione dell’art. 1489 c.c. va in via preliminare rilevato che nella sentenza impugnata non si fa alcun richiamo a detto art. avendo la corte di appello ritenuto fondata la richiesta di riduzione del prezzo ponendo in evidenza che dalla locazione dell’immobile promesso in vendita – in virtù di contratto stipulato dai promettenti venditori dopo il preliminare ed all’insaputa del promissario acquirente – discendeva una “indubbia” diminuzione di valore di tale bene con conseguente e correlata riduzione del prezzo di acquisto come fissato nel preliminare.

La decisione impugnata è sul punto ineccepibile – contrariamente a quanto sostenuto dai ricorrenti con il motivo in esame – e conforme ai principi più volte affermati da questa Corte la quale ha già altre volte riconosciuto l’autonomia della domanda di riduzione del prezzo avendo affermato che nel contratto preliminare di vendita, nel caso che la cosa sia affetta da vizi, il promissario acquirente che non voglia domandare la risoluzione del contratto, può agire contro il promittente per l’adempimento, chiedendo, anche disgiuntamente dall’azione prevista dall’art. 2932 c.c., l’eliminazione dei vizi, oppure, in alternativa, la riduzione del prezzo; tali due azioni, infatti, mirando entrambe ad assicurare, in modo alternativo tra loro, il mantenimento dell’equilibrio del rapporto economico di scambio previsto dai contraenti, costituiscono mezzi di tutela di carattere generale che, in quanto tali, devono ritenersi utilizzabili anche per il contratto preliminare, non rinvenendosi nel sistema positivo, nè in particolare nel disposto dell’art. 2932 c.c., ragioni che impediscano di estendere anche a tale tipo di contratto la tutela stabilita, a favore della parte adempiente dai principi generati in tema di contratti a prestazioni corrispettive. La pronunzia del giudice assume in tal caso la funzione di un legittimo intervento riequilibrativo delle contrapposte prestazioni, rivolto ad assicurare che l’interesse del promissario acquirente alla sostanziale conservazione degli impegni assunti non sia eluso da fatti ascrivibili al promittente venditore (tra le tante, sentenze 2175/2008 n. 12852; 15/12/2006 n. 26943; 29/10/2003 n. 16236; 17-4- 2002 n. 5509; 3-1-2002 n. 29; 8-10-2001 n. 12323; 19-12-2000 n. 15958; 19-4-2000 n. 5121).

Va altresì aggiunto che, come precisato nella giurisprudenza di legittimità, in materia di esecuzione specifica dell’obbligo di concludere un contratto la condizione di identità della cosa oggetto del trasferimento con quella prevista nel preliminare non va intesa nel senso di una rigorosa corrispondenza, ma del rispetto dell’esigenza che il bene da trasferire non sia oggettivamente diverso per struttura e funzione da quello considerato e promesso e che pertanto in presenza di difformità non sostanziali, non incidenti sull’effettiva utilizzabilità del bene, ma soltanto sul relativo valore, il promissario acquirente non resta soggetto alla sola alternativa della risoluzione del contratto o dell’accettazione senza riserva della cosa viziata o difforme, ma può esperire l’azione di esecuzione specifica dell’obbligo di concludere il contratto definitivo a norma dell’art. 2932 c.c. chiedendo cumulativamente e contestualmente l’eliminazione delle accertate difformità o la riduzione del prezzo (sentenze citate e 16/7/2001 n. 9636; 18-6-1996 n. 5615; 26-1-1995 n. 947; 24-11-1994 n. 9991; 26-4- 1993 n. 4895).

La decisione impugnata è in sintonia con i principi enunciati e pertanto si sottrae ai rilievi critici sviluppati nel motivo di ricorso in esame.

Con il quinto motivo i ricorrenti denunciano nullità della sentenza impugnata e del relativo procedimento, nonchè violazione degli artt. 115, 345 e 347 c.p.c., deducendo che per la configurazione del fatto notorio occorre la sussistenza di un duplice presupposto: 1) che si tratti di un fatto percepito dalla collettività come indubitabile ed incontestabile; 2) che si tratti di un fatto di comune conoscenza appartenendo alla cultura media della collettività. Nella specie non vi è dubbio che la capacità di quantificare nella misura del 25% il deprezzamento dell’immobile derivante dal vicolo locatizio richieda valutazioni implicanti cognizioni che difettano ai più. Peraltro le indagini di mercato richiamate dalla corte di appello sono riconducibili alla valutazione di esperti tecnici e non a nozioni di comune esperienza. La corte di appello, inoltre, ha violato l’art. 345 c.p.c. avendo fatto riferimento a relazioni peritali prodotte dal D.R. dopo la costituzione nel giudizio di appello.

Il motivo non è meritevole di accoglimento.

In proposito va osservato che il ricorso alle nozioni di comune esperienza, come questa Corte ha ripetutamente precisato, attiene all’esercizio di un potere discrezionale riservato al giudice del merito il cui giudizio circa la sussistenza di un fatto notorio è sindacabile in sede di legittimità solo se sia stata posta a base della decisione un’inesatta nozione del notorio inteso come fatto che l’uomo di media cultura conosce in un dato tempo ed in un determinato luogo: pertanto il giudice del merito non è tenuto ad indicare gli elementi sui quali la determinazione si fonda.

Quanto alla nozione di fatto notorio nella specie ravvisabile nella impugnata decisione della corte di merito – e che, secondo il ricorrente, sarebbe errata – è indubitabile che in essa rientri anche la conoscenza della diminuzione nella misura del 25% del valore degli immobili a causa del vincolo locativo stante anche la diffusione delle rilevazioni statistiche, in materia economica, tra le quali possono certamente essere annoverate anche quelle concernenti i valori degli immobili e la percentuale dell’incidenza su tale valore nell’ipotesi di esistenza del vincolo locativo.

L’affermazione della corte di appello deve pertanto ritenersi fondata su una corretta ed ortodossa applicazione della normativa in tema di notorio dovendosi intendere per notorio quel fatto (nella specie la rilevata diminuzione di valore degli immobili) che l’uomo di media cultura conosce in un dato tempo e in un determinato luogo, anche se relativo a un settore delimitato dell’attività umana.

Va peraltro sottolineato che la corte di merito ha fatto riferimento ai documenti esibiti in grado di appello – relativi alle dichiarazioni scritte di titolari di agenzie immobiliari – solo per trame ulteriore argomento a sostegno e a rafforzamento di un convincimento già autonomamente raggiunto in base alla nozione di fatto notorio idoneo da solo a reggere le raggiunte conclusioni oggetto di censura da parte dei C.. Pertanto la critica a detto argomento aggiuntivo manca del carattere di decisi vita posto che l’altra espressa ragione risulta da sola sufficiente a sorreggere la decisione impugnata.

Con il sesto motivo i C. denunciano violazione degli artt. 1223, 1226 e 1241 c.c., nonchè vizi di motivazione, deducendo che la corte di appello ha errato nell’affermare che “in ordine all’an debeatur è in re ipsa la prova dei danni subiti dal D.R.”.

Al riguardo va tenuto conto che in data 29/7/1999 era stato perfezionato il negozio risolutivo per mutuo consenso del preliminare del 13/4/99. Una volta risolto il contratto per mutuo consenso occorreva rivestire con la forma scritta eventuali nuove intese intervenute dopo la data dello scioglimento del contratto. Peraltro l’obbligo, risarcitorio per il danno derivante dal mancato godimento dell’immobile non è in re ipsa giacchè non sorge automaticamente.

Nella specie è mancata da parte del D.R. la prova rigorosa del preteso danno da lucro cessante derivante dal mancato godimento dell’immobile. Ne consegue che, in mancanza di detta prova, non può nella specie configurarsi un pregiudizio economico risarcibile per non aver il D.R. potuto locare il bene ad un canone più elevato o per non aver potuto utilizzare il bene. In ogni caso la corte di merito ha omesso di esaminare la censura con la quale essi C. si erano lamentati della mancata considerazione del principio “compensatio lucri cun damno” con riferimento all’asserito danno partito dal D.R. per la mancata disponibilità dell’immobile e l’incremento patrimoniale dallo stesso conseguito per aver corrisposto in ritardo il saldo del prezzo. La corte di appello ha infine errato nel far ricorso alla liquidazione equitativa pur non avendo il D.R. assolto all’onere di fornire gli elementi probatori ed i dati di fatto in suo possesso.

Anche questo motivo, al pari degli altri, è privo di pregio.

L’infondatezza della tesi dell’appellante relativa alla avvenuta risoluzione del contratto preliminare del 13/4/1999 è stata più volte sopra evidenziata.

Per quanto riguarda la tesi dei ricorrenti secondo cui l’obbligo risarcitorio per il danno derivante dal mancato godimento dell’immobile non è in re ipsa, non sorgendo automaticamente, è sufficiente il richiamo al principio pacifico nella giurisprudenza di legittimità secondo il quale il danno derivante dal mancato godimento di un immobile è in re ipsa: il titolare del diritto di proprietà di tale immobile non è quindi tenuto a provare il detto danno subito (tra le ultime sentenza 9/6/2008 n. 15238).

Parimenti infondata è la doglianza concernente l’omessa applicazione del principio “compensatio lucri cun damno” con riferimento all’asserito incremento patrimoniale conseguito dal D.R. per aver corrisposto in ritardo il saldo del prezzo.

E’ infatti vero che alcune pronunce di questa Corte hanno affermato il principio secondo cui il risarcimento del danno per inadempimento contrattuale deve riparare il pregiudizio subito dal danneggiato sicchè, nel caso di inadempimento di contratto preliminare di vendita, è necessario tenere conto, in linea di principio, dell’incidenza economica positiva, nel patrimonio del compratore, del mancato pagamento del prezzo e, specificamente, dell’utilizzazione concreta che il promissario acquirente abbia fatto del prezzo non versato al venditore (sentenza 10/9/1991 n. 9485). E’ del pari vero, però, che – come chiarito nella giurisprudenza di legittimità – il ritardo del compratore nel pagamento del prezzo dell’immobile, in conseguenza del ritardo nella consegna dello stesso da parte del venditore, non costituisce un vantaggio detraibile dal pregiudizio subito dal compratore in difetto della prova, da fornire da parte del venditore, che tale vantaggio sussista effettivamente, per avere, ad esempio, il compratore impiegato il danaro non versato in investimenti lucrosi (sentenza 16/3/1981 n. 1457).

Nella specie tale prova non è stata fornita nè richiesta da parte dei C..

Infine la sentenza impugnata ha dato ampio conto della quantificazione del danno con ricorso al equitativo del cui uso ha dato congrua ragione indicando il percorso logico seguito e gli elementi di fatto presi a base del calcolo.

Di conseguenza i rilievi dei ricorrenti mentre sono infondati in ordine all’an, sono inammissibili in ordine al quantum, perchè la valutazione equitativa del danno, di cui sia stata accertata l’esistenza, è incensurabile in sede di legittimità allorchè sia ispirata da considerazioni logiche e adeguatamente motivate.

L’applicazione dell’art. 1226 c.c. presuppone infatti l’esistenza ontologica del danno, la liquidazione del quale, con valutazione equitativa, è rimessa al potere discrezionale del giudice, che vi procede quando non sia possibile o riesca difficoltosa la sua precisa determinazione.

Con il settimo motivo i ricorrenti denunciano violazione dell’art. 1383 c.c. (rectius art. 1384 c.c.) e vizi di motivazione sostenendo che la sentenza impugnata va censurata anche nella parte in cui ha omesso di pronunciarsi sulla domanda formulata da essi C. volta alla riduzione ad equità della penale.

Il motivo è inammissibile perchè relativo ad una questione che – al di là della sua incidenza ai fini della decisione – dalla lettura della sentenza impugnata non risulta (nè è stato dedotto in ricorso) che abbia formato oggetto del contraddittorio nel giudizio di secondo grado.

Sul punto va ribadito il principio pacifico nella giurisprudenza di legittimità secondo cui nel giudizio di cassazione, a parte le questioni rilevabili di ufficio (sulle quali non si sia formato il giudicato), non è consentita la proposizione di doglianze che, modificando la precedente impostazione difensiva, pongano a fondamento delle domande e delle eccezioni titoli diversi da quelli fatti valere nel pregresso giudizio di merito e prospettino comunque questioni fondate su elementi di fatto nuovi e difformi da quelli ivi proposti. I motivi del ricorso per cassazione devono infatti investire, a pena di inammissibilità, statuizioni e problematiche che abbiano formato oggetto del giudizio di appello per cui non possono essere prospettate questioni nuove o nuovi temi di indagine involgenti accertamenti non compiuti perchè non richiesti in sede di merito.

Pertanto ove il ricorrente in sede di legittimità proponga una questione non trattata nella sentenza impugnata, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura, ha l’onere (nella specie non rispettato) non solo di allegare l’avvenuta deduzione della questione avanti al giudice del merito, ma anche di indicare in quale atto del precedente giudizio lo abbia fatto, onde dar modo alla Corte di cassazione di controllare “ex actis” la veridicità di tale asserzione, prima di esaminarne il merito.

La tesi esposta dai ricorrenti con la censura in esame non è quindi deducibile in questa sede di legittimità perchè introduce per la prima volta un autonomo e diverso sistema difensivo che postula indagini e valutazioni non compiute dal giudice di appello perchè non richieste.

Il ricorso deve pertanto essere rigettato con la conseguente condanna dei ricorrenti in solido al pagamento delle spese del giudizio di cassazione liquidate nella misura indicata in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti in solido al pagamento delle spese del giudizio di cassazione che liquida in complessivi Euro 200,00, oltre Euro 4.000,00 a titolo di onorari ed oltre accessori come per legge.

Così deciso in Roma, il 18 dicembre 2009.

Depositato in Cancelleria il 26 gennaio 2010

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