Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 15613 del 15/07/2011

Cassazione civile sez. lav., 15/07/2011, (ud. 13/04/2011, dep. 15/07/2011), n.15613

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FOGLIA Raffaele – Presidente –

Dott. STILE Paolo – Consigliere –

Dott. CURZIO Pietro – Consigliere –

Dott. BERRINO Umberto – Consigliere –

Dott. TRICOMI Irene – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 24640-2009 proposto da:

POSTE ITALIANE S.P.A., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, LUNGOTEVERE MICHELANGELO

9, presso lo studio TRIFIRO’ & PARTNERS, rappresentata e

difesa

dall’avvocato TRIFIRO’ SALVATORE, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

D.B.R., elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZALE DON

MINZONI 9, presso lo studio dell’avvocato AFELTRA ROBERTO, che la

rappresenta e difende unitamente all’avvocato ZEZZA LUIGI, giusta

delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1224/2008 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 07/11/2008 R.G.N. 841/07;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

13/04/2011 dal Consigliere Dott. IRENE TRICOMI;

udito l’Avvocato ZUCCHINALI PAOLO per delega TRIFIRO1 SALVATORE;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SEPE Ennio Attilio che ha concluso per il rigetto del ricorso, in

subordine accoglimento per quanto di ragione.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. Con la sentenza n. 1224 del 7 novembre 2008 la Corte d’Appello di Milano, pronunziando sull’impugnazione proposta da Poste Italiane spa, nei confronti di D.B.R. (assunta dalla società Ali con contratto interinale dal 19 febbraio 2003 al 31 dicembre 2003, che l’aveva avviata presso la spa Poste Italiane, dove era stata addetta al servizio telex 186 presso la sede di Milano), avverso la sentenza n. 1553/06 del giudice del lavoro del Tribunale dello stesso capoluogo lombardo – che aveva dichiarato che il rapporto di lavoro temporaneo era stato stipulato in violazione di legge e aveva accertato che tra Poste Italiane spa e la D.B. era intercorso un rapporto di lavoro a tempo indeterminato dal 12 marzo 2003, emettendo una pronuncia di inefficacia del licenziamento della ricorrente con la condanna alla reintegrazione e alla corresponsione di una indennità pari alla retribuzione globale di fatto dal licenziamento alla reintegrazione, dedotto l’aliunde perceptum – accoglieva in parte l’impugnazione e – ritenendo, peraltro, non richiesta la pronuncia di inefficacia del licenziamento e che non era consentito trasformare l’atto di recesso in forza di una clausola nulla (nullità del termine in ragione della violazione della L. n. 196 del 1997, art. 1, comma 2, ossia del ricorso alla fornitura fuori dai casi previsti dalla contrattazione collettiva di cui alla L. n. 1369 del 1960, in applicazione della quale il rapporto deve essere considerato sorto sin dall’inizio con l’impresa utilizzatrice, a tempo indeterminato, analogamente a quanto stabilito dal successivo comma 2), in un licenziamento – in riforma parziale della sentenza del Tribunale di Milano, condannava Poste Italiane spa alla riammissione in servizio ed al pagamento delle retribuzioni dall’atto di messa in mora (coincidente con la richiesta di convocazione per il tentativo di conciliazione, contenente la messa a disposizione), oltre accessori di legge ex art. 429 c.p.c., comma 3.

2. Nell’addivenire a tale convincimento la Corte territoriale ha affermato di non poter condividere le conseguenze che il primo giudice aveva ritenuto di trarre dalla violazione della normativa di cui alla L. n. 196 del 1997, art. 1, comma 2. In tal caso non è consentito trasformare l’atto di recesso in forza di una clausola nulla in un licenziamento. Ad avviso del giudice di appello, pertanto, conseguivano a ciò le corrette consuete pronunce in tema di obbligo di riassunzione e di condanna al pagamento delle retribuzioni dalla sola data della costituzione in mora.

3. Per la cassazione della sentenza propone ricorso la società Poste Italiane spa che prospetta otto motivi di censura.

4. Resiste con controricorso la D.B..

5. Entrambe le parti hanno ha depositato memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

A) Con il primo motivo la ricorrente lamenta l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (art. 360 c.p.c., n. 5) adducendo che la Corte territoriale è caduta in contraddizione e non ha motivato le ragioni giuridiche in base alle quali è pervenuta a considerare costituito un rapporto a tempo indeterminato direttamente tra la società Poste Italiane spa e la D.B., pure in assenza di qualsivoglia violazione della L. n. 196 del 1997 da parte dell’azienda.

In particolare, la ricorrente pone in evidenza che la Corte non fornisce una motivazione sul fatto per il quale l’omissione della causale nel contratto di prestazioni di lavoro interinale, così come prevista dalla L. n. 196 del 1997, art. 3, comma 3, possa essere sanzionata con la trasformazione del rapporto di lavoro in capo alla utilizzatrice, quando la ben più grave violazione della carenza della forma scritta di tale contratto, ovvero l’assenza di tutti i requisiti di forma e contenuto previsti dalla citata norma, è sanzionata con la conversione del contratto a tempo indeterminato in capo alla fornitrice.

In definitiva, secondo tale assunto, la Corte, pur affermando di non ritenere applicabile nella fattispecie in esame nè la L. n. 1369 del 1960, nè le previsioni della L. n. 196 del 1997, art. 10 non dice, però, in base a quali altre norme dovrebbe ritenersi sussistente il rapporto “tra le parti reali”, cioè tra impresa utilizzatrice ed il lavoratore.

B) Con il secondo motivo ci si lamenta della violazione e falsa applicazione della L. n. 196 del 1997, artt. 1, 3 e 10 (art. 360 c.p.c., n. 3) e si prospetta il seguente quesito di diritto: se, laddove l’impresa utilizzatrice non abbia violato alcuna delle disposizioni della L. 24 giugno 1997, n. 196, art. 1 e sia stato stipulato un regolare contratto di fornitura, sia possibile applicare la disciplina di cui alla medesima L. 24 giugno 1997, n. 196, art. 10 o, comunque, dichiarare “ope iudicis” la costituzione di un rapporto di lavoro subordinato e a tempo indeterminato tra l’impresa utilizzatrice e il lavoratore interinale a seguito della omessa indicazione nel contratto per prestazioni di lavoro temporaneo dei motivi di ricorso al lavoro interinale (art. 3, comma 3, lett. a).

In pratica, secondo tale tesi, lo speciale sistema sanzionatorio di cui alla L. n. 196 del 1997, art. 10 operante nei rapporti tra fornitore e prestatore di lavoro, è insuscettibile di estensione analogica al rapporto tra quest’ultimo ed il soggetto utilizzatore della sua prestazione, tanto più che non è previsto alcun onere di specificazione della causale del contratto a carico di chi utilizza l’altrui prestazione lavorativa.

C) Oggetto del terzo motivo di censura è la violazione e falsa applicazione della L. n. 196 del 1997, artt. 1, 3 e 10 (art. 360 c.p.c., n. 3) ed il quesito posto è il seguente: se le sanzioni previste dalla L. n. 196 del 1997, art. 10 siano tassative e non estensibili per analogia; se l’indicazione di tale omissione possa dar luogo alla costituzione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato tra lavoratore ed impresa beneficiaria, ancorchè tale sanzione non sia prevista dall’art. 10 cit., che nel più grave caso di omissione della forma scritta del contratto per prestazioni di lavoro temporaneo prevede la trasformazione del contratto a tempo indeterminato con l’impresa fornitrice.

D) Con il quarto motivo di ricorso è dedotta violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., nonchè dell’art. 2697 c.c.. Omessa e insufficiente motivazione circa un punto decisivo della controversia (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5).

Assume la ricorrente che erroneamente il Giudice d’Appello ha ritenuto che essa avrebbe offerto circostanze inidonee a fornire la prova della causale specifica del contratto concluso con l’impresa fornitrice e la D.B., avendo fatto oggetto di capitolo di prova la circostanza che quest’ultima era stato utilizzata per far fronte alle assenze del personale.

In proposito è articolato il seguente quesito di diritto: se ai sensi degli artt. 115 e 116 c.p.c., il Giudice sia tenuto a valutare le prove addotte dalle parti, ovvero possa ignorare le prove fornite da una parte pur in assenza di qualunque prova contraria dedotta dall’altra parte, nonchè se ai sensi dell’art. 2697 c.c., il Giudice possa pervenire all’accoglimento delle pretese di una parte in assenza di qualsivoglia prova a sostegno delle medesime ed anzi in presenza di significativi elementi di prova che depongono in senso contrario.

E) Con il quinto motivo di ricorso è dedotta violazione e falsa applicazione della L. n. 196 del 1997, art. 1 (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5). Ad avviso della ricorrente il giudice d’appello si contraddice e non motiva le ragioni giuridiche in base alle quali è pervenuto a considerare che la causale sostitutiva non sarebbe stata adeguatamente dimostrata.

F) La violazione e la falsa applicazione della L. n. 56 del 1987, art. 23 (art. 360 c.p.c., n. 3) rappresentano i vizi denunziati con il sesto motivo di doglianza attraverso il quale si evidenzia che il contratto individuale recava le ragioni della sua stipula, seppur con rinvio alla disciplina del CCNL di settore, nonchè il periodo di durata del rapporto. Al riguardo, si chiede pronuncia sul seguente quesito: “se un contratto, ancorchè stipulato in base alla L. n. 196 del 1997, che abbia i requisiti previsti per il contratto a termine, possa essere valutato, ai fini della legittimità, in base alla disciplina prevista per il contratto a termine.” G) Attraverso il settimo motivo si deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 1206, 1207, 1217, 1219, 2094, 2099 e 2697 c.c. (art. 360 c.p.c., n. 3) e si pone il seguente quesito: “se, per il principio di corrispettività della prestazione, il lavoratore, a seguito dell’accertamento giudiziale dell’illegittimità del contratto per prestazioni di lavoro temporaneo, ha diritto al pagamento delle retribuzioni soltanto dalla data di riammissione in servizio, salvo che abbia costituito in mora il datore di lavoro, offrendo espressamente la prestazione lavorativa nel rispetto della disciplina di cui all’art. 1206 e segg. c.p.c.”.

1. Osserva la Corte che i motivi di ricorso da l a 6 impongono la disamina della disciplina del contratto di fornitura di prestazioni di lavoro temporaneo, cosiddetto lavoro interinale, come disciplinato dalla L. n. 196 del 1997, comunemente nota come Legge Treu, disciplina applicabile nella fattispecie in esame “ratione temporis”.

Attraverso tale istituto il legislatore introduceva nell’ordinamento una ipotesi di flessibilità che si differenziava in modo netto dallo schema di lavoro subordinato delineato dall’art. 2094 c.c. e dalla L. n. 1369 del 1960.

Tuttavia, è bene ricordarlo, in conformità alla “ratio legis” di protezione dei lavoratori da forme di sfruttamento conseguenti alla dissociazione tra la titolarità formale del rapporto e la sua effettiva destinazione, cioè fra l’autore dell’assunzione e l’effettivo beneficiario delle prestazioni lavorative, il divieto di intermediazione ed interposizione nelle prestazioni di lavoro di cui della L. n. 1369 del 1960, art. 1, non veniva eliminato dalla disciplina, di cui alla suddetta legge n. 196 del 1997, che anzi espressamente lo richiamava all’art. 10 (Cass., n. 23569 del 2007).

2. E’ nota la definizione che la L. n. 196 del 1997, art. 1 offre del suddetto contratto, individuando una fattispecie complessa alla quale partecipano tre soggetti: l’impresa fornitrice, il prestatore di lavoro temporaneo e l’impresa utilizzatrice.

Infatti, tale norma stabilisce che il contratto di fornitura di lavoro temporaneo è il contratto mediante il quale un’impresa di fornitura di lavoro temporaneo (denominata impresa fornitrice), iscritta all’albo previsto dall’art. 2, comma 1, pone uno o più lavoratori (denominati prestatori di lavoro temporaneo), da essa assunti col contratto previsto dall’art. 3 (contratto per prestazioni di lavoro temporaneo), a disposizione di un’impresa che ne utilizza la prestazione lavorativa (denominata impresa utilizzatrice), per il soddisfacimento di esigenze di carattere temporaneo individuate ai sensi del comma 2.

E’, altresì, acquisito, per quel che riguarda il contratto di fornitura, che l’art. 1, comma 2, lett. a), affida alla contrattazione collettiva l’individuazione dei limiti o dei contenuti che condizionano l’ambito di applicazione della legge. Così, si può ricorrere al lavoro interinale nei casi previsti dai contratti collettivi nazionali della categoria di appartenenza dell’impresa utilizzatrice, stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi (gli altri casi di cui alle lett. b) e c) riguardano, rispettivamente, le ipotesi di temporanea utilizzazione in qualifiche non previste dai normali assetti produttivi aziendali e di sostituzione dei lavoratori assenti, fatte salve le ipotesi di cui al comma 4).

3. Ebbene, nel caso in esame la Corte territoriale ha spiegato che l’appellante si era discostata dalla causale indicata nel contratto di fornitura avendo introdotto una ragione sostitutiva e la documentazione prodotta era inidonea a dimostrare punte di più intensa attività o il bisogno di sopperire ad un rilevante numero di assenze, per cui veniva violata la normativa di cui alla L. n. 196 del 1997, art. 1, comma 2, sanzionata dall’art. 10, comma 1, con il richiamo alla normativa di cui alla L. n. 1369 del 1960, in applicazione della quale il rapporto deve essere ritenuto sorto sin dall’inizio con l’impresa utilizzatrice a tempo indeterminato, analogamente a quanto disposto dal successivo comma 2, e si verteva nella caso previsto dall’art. 3, comma 1, lett. a).

La norma di cui all’art. 3, comma 1, stabilisce, infatti, che il contratto di lavoro per prestazioni di lavoro temporaneo è il contratto col quale l’impresa fornitrice assume il lavoratore a tempo determinato corrispondente alla durata della prestazione lavorativa presso l’impresa utilizzatrice (ipotesi contemplata dalla lett. a); a tempo indeterminato (ipotesi contemplata dalla lett. b).

Lo stesso art. 3, comma 2 prevede, inoltre, che col contratto di cui al comma 1 il lavoratore temporaneo, per la durata della prestazione lavorativa presso l’impresa utilizzatrice, svolge la propria attività nell’interesse nonchè sotto la direzione ed il controllo dell’impresa medesima, mentre nell’ipotesi di contratto a tempo indeterminato rimane a disposizione dell’impresa fornitrice per i periodi in cui non svolge la prestazione lavorativa presso un’impresa utilizzatrice.

Infine, l’art. 3, comma 3 prescrive che il contratto di lavoro temporaneo deve essere stipulato in forma scritta ed indica analiticamente gli elementi che devono entrare a far parte del contenuto dello stesso contratto, tra i quali prevede espressamente alla lett. a) i motivi del ricorso alla fornitura di prestazioni di lavoro temporaneo.

4. Orbene, la Corte d’Appello, nel richiamare la L. n. 1369 del 1960 richiamata dalla L. n. 196 del 1997, art. 10, comma 1, ha tratto la conclusione che nella fattispecie doveva ritenersi instaurato un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato tra le parti reali, impresa utilizzatrice e lavoratore, sin dall’origine, date le modalità concrete del rapporto e che non era consentito trasformare l’atto di recesso in forza di una clausola nulla, in un licenziamento.

Tale soluzione da rilievo all’importanza effettiva ricoperta dalle norme sanzionatorie di cui alla L. n. 196 del 1997, art. 10 che coinvolgono la responsabilità diretta anche dell’impresa utilizzatrice, per cui occorre soffermarsi sulla disciplina contenuta in tale disposizione normativa.

5. L’art. 10, comma 1, come si è accennato, stabilisce che continua a trovare applicazione la L. n. 1369 del 1960 sia nei confronti dell’impresa utilizzatrice che si avvalga di soggetti diversi da quelli di cui all’art. 2, oppure violi le disposizioni di cui all’art. 1, commi 2, 3, 4 e 5, sia nei confronti dei soggetti che forniscono prestatori di lavoro dipendente senza essere iscritti all’albo di cui all’art. 2, comma 1.

Com’è noto la L. n. 1369 del 1960, all’art. 1, nel vietare l’intermediazione e l’interposizione di manodopera, sancisce che i prestatori di lavoro, occupati in violazione dei divieti previsti, sono considerati, a tutti gli effetti, alle dipendenze dell’imprenditore che effettivamente abbia utilizzato le loro prestazioni.

La L. n. 196 del 1997, art. 10, comma 2 prevede, inoltre, sia l’ipotesi in cui manchi la forma scritta del contratto di fornitura, nel qual caso il lavoratore si considera assunto dall’impresa utilizzatrice con contratto di lavoro a tempo indeterminato, sia quella in cui difetti la forma scritta del contratto per prestazioni di lavoro temporaneo tra il lavoratore e l’impresa fornitrice, ne qual caso il contratto si trasforma in contratto a tempo indeterminato con quest’ultima.

Comunque, è interessante osservare come nessun riferimento esplicito sia effettuato dal citato art. 10 all’art. 3, comma 3, lett. a), norma, quest’ultima, considerata, invece, di raccordo dal giudice d’appello.

6. In ragione di quanto esposto, in riferimento ai motivi di ricorso, punto centrale della fattispecie sottoposta all’attenzione di questa Corte sono le conseguenze derivanti dall’accertamento svolto dal giudice d’appello in ordine alla riscontrata genericità, nel contratto per prestazioni di lavoro temporaneo intercorso tra l’impresa fornitrice e il lavoratore, del richiamo ai casi in cui era possibile ricorrere al lavoro temporaneo a tempo determinato in base ai contratti collettivi dell’impresa utilizzatrice.

Tanto premesso, occorre rilevare che i motivi sono fondati quanto alla doglianza concernente la omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione della pronuncia d’appello che, applica la misura della costituzione del rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato tra l’impresa utilizzatrice e il lavoratore con argomentazioni che non danno contezza del complessivo percorso giuridico. Tuttavia la fondatezza sotto tale profilo non comporta la cassazione della sentenza impugnata, perchè il suo dispositivo è conforme a diritto sulla base di una diversa motivazione che questa Corte provvedere ad enunciare ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 4, nel testo introdotto dal D.Lgs. n. 40 del 2006.

Ritiene questa Corte che deve essere data prevalenza alla L. n. 1369 del 1960 che è richiamata dalla L. n. 196 del 1997, art. 10, comma 1.

Tale comma, come si è accennato, prevede la sanzione a carico dell’impresa utilizzatrice, tra l’altro, per le violazioni di cui all’art. 1, comma 2, lett. a) della stessa cit. Legge. Quest’ultima norma stabilisce che il contratto di fornitura di lavoro temporaneo può essere concluso nei casi previsti dai contratti collettivi nazionali della categoria di appartenenza dell’impresa utilizzatrice, stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi.

Pertanto non è sufficiente il solo richiamo, nel contratto di prestazione di lavoro temporaneo tra impresa fornitrice e lavoratore, alle causali generali dei suddetti contratti collettivi per farne discendere la instaurazione a carico dell’impresa utilizzatrice di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, in quanto, trattandosi di fattispecie complessa voluta dal legislatore per attenuare la rigidità del precedente impianto di divieto di intermediazione di mano d’opera, occorre che l’utilizzatore si faccia carico di dimostrare, sussistendo la contestazione in proposito, l’avvenuto rispetto, nello svolgimento del rapporto diretto con il prestatore di lavoro, delle causali previste dai contratti collettivi nazionali della sua categoria di appartenenza, a loro volta trasfuse nel contratto di fornitura intercorso con l’impresa fornitrice ai sensi della L. n. 196 del 1997, art. 1, comma 2, lett. a.

In tal modo, non solo si perviene ad una lettura logica e coerente, in armonia con la norma di cui all’art. 1, comma 2, lett. a), della disposizione sanzionatoria di cui alla L. n. 196 del 1997, citato art. 10, comma 1, ma si supera, altresì, la visione parcellizzata, estranea agli intenti del legislatore, dei tre rapporti in esame, vale a dire quello di fornitura tra impresa fornitrice ed impresa utilizzatrice, quello di prestazione del lavoro temporaneo tra impresa fornitrice e lavoratore e quello finale tra impresa utilizzatrice e prestatore di lavoro temporaneo, essendo preminente la esigenza di valutare l’effettiva attuazione, nel corso di esecuzione del rapporto ultimo tra prestatore di lavoro ed impresa utilizzatrice, delle causali indicate nel contratto di fornitura.

In pratica si impone una lettura unitaria dei rapporti tra i soggetti della complessa fattispecie in considerazione del collegamento che non può non sussistere tra la causale del rapporto di fornitura (quello tra l’impresa fornitrice e l’impresa utilizzatrice) ed il rapporto di lavoro temporaneo intercorso tra l’utilizzatrice ed il prestatore di lavoro, nel quale deve persistere la ragione giustifìcatrice che aveva indotto la prima ad avvalersi della fornitura di lavoro ex lege n. 196 del 1997. La verifica della persistenza di tale causa giustificatrice non può che passare attraverso la prova che in concreto l’impresa utilizzatrice dovrà fornire in giudizio della sussunzione del rapporto di lavoro temporaneo nei casi previsti dalla contrattazione collettiva di cui alla L. n. 196 del 1997, citato art. 1, comma 2, lett. a). Solo in tal modo potrà ritenersi rispettata la finalità enucleatale dal richiamo della L. n. 196 del 1997, art. 10, comma 1, alla L. n. 1369 del 1960, vale a dire quella di evitare il ricorso a forme elusive del divieto di intermediazione di mano d’opera, come quelle che potrebbero discendere, ad esempio, dalla divaricazione tra causale del contratto di fornitura ed effettiva ragione dell’utilizzazione del lavoro temporaneo.

In definitiva, può ritenersi che si è in presenza di un collegamento negoziale che costituisce fenomeno incidente direttamente sulla causa dell’operazione contrattuale che viene posta in essere, risolvendosi in una interdipendenza funzionale dei diversi atti negoziali – il contratto di fornitura e il contratto per prestazione di lavoro temporaneo – quest’ultimo venendo dalla società fornitrice concluso allo scopo, noto all’utilizzatore, di soddisfare l’interesse di quest’ultimo ad acquisire la disponibilità di prestazioni di lavoro – rivolta a realizzare una finalità pratica unitaria. Tale collegamento, in particolare, acquisisce autonoma rilevanza giuridica, tenuto conto che le parti contrattuali, diverse, sono consapevoli del nesso teleologico tra i più atti negoziali, e lo stesso si palesa all’esterno proprio in ragione dell’obiettivo della flessibilità.

7. A ciò consegue che i motivi di cui all’art. 3, comma 3, lett. a), vale a dire quelli del ricorso alla fornitura di prestazioni di lavoro temporaneo, la cui indicazione è richiesta con riguardo al contenuto del contratto intercorrente tra impresa fornitrice e singolo lavoratore, hanno una valenza autonoma e concorrono ad integrare il disposto di cui all’art. 1, comma 2, lett. a) sulla possibilità che il contratto di fornitura tra l’impresa utilizzatrice e quella fornitrice sia concluso nei casi previsti dagli accordi collettivi nazionali della categoria di appartenenza dell’impresa utilizzatrice, il tutto nell’ottica di una visione dei rapporti tra loro collegati.

Pertanto, il contenuto del contratto di prestazione di lavoro temporaneo intercorrente tra l’impresa fornitrice ed il singolo lavoratore assume un peculiare rilievo rispetto a quanto previsto dall’art. 1, comma 2, lett. a), in quanto la mancanza o la genericità dello stesso spezza l’unitarietà della fattispecie complessa voluta dal legislatore per favorire la flessibilità dell’offerta di lavoro nella salvaguardia dei diritti fondamentali del lavoratore e fa venir meno quella presunzione di legittimità del contratto interinale che il legislatore fa discendere dall’indicazione nel contratto di fornitura delle ipotesi in cui il contratto interinale può essere concluso (citato art. 1, comma 2, lett. a). A ciò consegue che trova applicazione il disposto di cui all’art. 10 e, dunque, quanto previsto dalla L. n. 1369 del 1960, art. 1, u.c., per cui il contratto di lavoro col fornitore “interposto” si considera a tutti gli effetti instaurato con l’utilizzatore “interponente”.

8. Resta da superare, a questo punto, la questione che si pone in ordine alla connotazione temporale che viene ad assumere il rapporto che si instaura con l’utilizzatore interponente.

Come si è visto, la L. n. 196 del 1997, art. 10, comma 2 prevede l’instaurazione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato nell’ipotesi specifica della mancanza di forma scritta del contratto.

Occorre, in pratica, verificare se, nei casi diversi da quello della mancanza di forma scritta del contratto, operi egualmente la sanzione della instaurazione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato con l’utilizzatore interponente.

La risposta a tale questione è, secondo il giudizio di questa Corte, affermativa.

Invero, diverse sono le ragioni che inducono a ritenere che la suddetta sanzione si applichi anche nell’ipotesi generale di cui alla L. n. 196 del 1997, art. 10, comma 1.

8. 1, Anzitutto, il richiamo generalizzato ed indifferenziato contenuto in tale comma alla L. n. 1369 del 1960 sul divieto di intermediazione ed interposizione nelle prestazioni di lavoro non può avere altro significato, nell’intenzione del legislatore, che quello di veder applicate le conseguenze sanzionatorie di tale disciplina alle ipotesi di violazione della disposizione di cui alla L. n. 196 del 1997, art. 1, comma 2, lett. a), vale a dire la violazione alla regola, normativamente contemplata, di conclusione del contratto di fornitura di prestazioni di lavoro temporaneo nei casi previsti dai contratti collettivi nazionali della categoria di appartenenza dell’impresa utilizzatrice, stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi.

Non bisogna, infatti, dimenticare che, allorquando era vigente la L. n. 1369 del 1960, la normalità era rappresentata dalla figura del contratto di lavoro a tempo indeterminato, per cui alla sostituzione soggettiva del reale datore di lavoro interponente, quale effettivo utilizzatore della prestazione lavorativa oggetto dell’operazione di intermediazione o di interposizione, al fittizio datore di lavoro interposto si accompagnava l’instaurazione di un rapporto lavorativo normalmente a tempo indeterminato, non essendo, ovviamente, possibile costituire un rapporto a termine che rappresentava all’epoca l’eccezione.

8.2. Nè vale ad escludere una tale interpretazione il fatto che la sanzione della instaurazione di un rapporto lavorativo a tempo indeterminato è prevista espressamente dall’art. 10, comma 2 per l’ipotesi della mancanza di forma scritta del contratto: invero, è agevole osservare che se una tale sanzione è prevista per l’ipotesi meno grave del vizio formale della mancanza della forma scritta dell’accordo, a maggior ragione essa non può non essere applicata a quella più grave, in quanto ingiustificata, della violazione sostanziale dell’inosservanza della disposizione di cui alla L. n. 196 del 1997, art. 1, comma 2, lett. a), vale a dire della regola che il contratto di fornitura sia concluso per i casi prefigurati dalla contrattazione collettiva espressione dei sindacati comparativamente più rappresentativi.

8.3. Egualmente, non va sottaciuto l’insuperabile argomento sistematico per il quale, diversamente opinando, verrebbe ad essere facilmente aggirata la disciplina limitativa del contratto a termine:

invero, una volta costituito con l’impresa fornitrice interposta il contratto a termine, qualora si volesse sostenere che anche il rapporto che si instaura “ex lege” con l’impresa utilizzatrice interponente debba essere a termine, ad onta della accertata illegittimità dell’apposizione del termine, si perverrebbe alla inaccettabile ed assurda situazione per la quale la violazione del divieto di interposizione di mano d’opera consentirebbe all’interponente di beneficiare di una prestazione a termine altrimenti preclusa.

8.4. Va da sè che il termine apposto al contratto di lavoro temporaneo col fornitore interposto può essere salvato, nella imputazione “ex lege” del contratto all’utilizzatore interponente, solo se il negozio concluso è di per sè stesso conforme alla disciplina del lavoro a termine, avendone l’utilizzatore fornito la prova, in quanto diversamente sarebbe esclusa in radice la legittimità del ricorso al contratto di fornitura.

8.5. D’altra parte, un avallo alla ricostruzione fin qui operata discende anche dalla sentenza n. 58 del 16 febbraio 2006 della Corte Costituzionale che ha dichiarato incostituzionale, per irragionevolezza e contrarietà al principio di tutela del lavoro, l’intervento legislativo (L. n. 388 del 2000, art. 117, comma 1) col quale la trasformazione del contratto prevista dalla L. n. 196 del 1997, art. 10, comma 2, secondo periodo (contratto per prestazioni di lavoro temporaneo di cui alla L. n. 196 del 1997, art. 3 mancante della forma scritta ovvero degli elementi di cui all’art. 3, comma 3, lett. g) era stata sancita a tempo “determinato” invece che “indeterminato”.

Infine, con riguardo al quarto motivo di impugnazione, va rilevato che la Corte d’Appello, con congrua motivazione, che fa corretta applicazione dei suddetti principi di diritto, ha ritenuto che correttamente il giudice di primo grado avesse statuito l’illegittimità del contratto di fornitura di lavoro temporaneo per la mancata prova da parte della società utilizzatrice della sussistenza delle ragioni giustificatrici per l’assunzione a termine della lavoratrice in relazione alla causale consistente nelle punte di più intensa attività. Ciò per più argomenti: la documentazione sintetica offerta dall’appellante in primo grado, inidonea a dimostrare punte di più intensa attività o la diversa causale delle esigenze sostitutive del personale assente con diritto alla conservazione del posto di lavoro; l’affermazione, avente natura confessoria, che l’assunzione della D.B. era dovuta alla necessità di sostituire personale dimessosi e, quindi, per far fronte a carenze di organico – circostanza in contrasto con le esigenze di carattere temporaneo poste alla base della tipologia contrattuale in questione. Ugualmente inidonee, la Corte d’Appello riteneva le prove per testi volte alla conferma del prospetto documentale.

Pertanto, i motivi da uno a sei del presente ricorso sono da considerare infondati.

9. Egualmente infondato è il settimo motivo di ricorso. Lo stesso pone una questione concernente le pretese economiche del lavoratore, oltre che la loro decorrenza, che la ricorrente ricollega in via alternativa alla riammissione in servizio del lavoratore o alla effettiva offerta delle prestazioni lavorative con la relativa messa in mora della datrice di lavoro, affermando che il giudice d’appello non aveva specificato quale fosse l’atto, nella fattispecie in esame, di messa in mora.

Premesso che occorre precisare che la Corte d’Appello prende posizione sul punto affermando il diritto al pagamento delle retribuzioni dalla sola data della costituzione in mora “nella specie coincidente con la richiesta di convocazione per il tentativo di conciliazione, contenete la messa a disposizione”, non coglie nel segno la censura laddove pretende di far decorrere il diritto alle retribuzioni, come forma risarcitoria, dalla effettiva riammissione in servizio delle lavoratore o laddove ritiene che la notifica del ricorso cautelare non possa equipararsi, ai fini della messa in mora della parte datoriale, all’offerta delle prestazioni lavorative.

Invero, come questa Corte ha già avuto modo di statuire (Cass. sez. lav. n. 15515 del 2/7/2009), “nel caso di più contratti per prestazioni temporanee, che siano stati ripetutamente reiterati in maniera continuativa, convertiti dal giudice in un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato per violazioni delle disposizioni della L. n. 1369 del 1960, il lavoratore non ha diritto alla retribuzione dal momento della sospensione del lavoro al termine dell’ultimo contratto, ma soltanto da quando abbia provveduto a mettere nuovamente a disposizione del datore di lavoro la propria prestazione lavorativa con un atto giuridico in senso stretto di carattere recettizio o per “facta concludentia”, determinandosi, da tale momento una situazione di “mora accipiendi” del datore di lavoro, da cui deriva, ai sensi dell’art. 1206 e ss. cod. civ., il diritto del lavoratore al risarcimento del danno nella misura delle retribuzioni perdute a causa dell’ingiustificato rifiuto della prestazione. (Nella specie, sulla scorta dell’enunciato principio, la S.C. ha accolto il motivo di ricorso incidentale del lavoratore, condannando il datore di lavoro al risarcimento del danno commisurato alle retribuzioni perdute dalla data della richiesta di assunzione formulata dal lavoratore in sede di tentativo di conciliazione)”.

In maniera ancora più specifica si è affermato (Cass. sez. lav. n. 23756 del 10/11/2009) che “nel caso di scadenza di un contratto di lavoro a termine illegittimamente stipulato, la disdetta con la quale il datore di lavoro, allo scopo di evitare la rinnovazione tacita del contratto, comunica al dipendente la scadenza del termine illegittimamente apposto, configura un atto meramente ricognitivo, non una fattispecie di recesso, e la prestazione lavorativa cessa in ragione dell’esecuzione che le parti danno alla clausola nulla. Ne consegue l’inapplicabilità della L. n. 604 del 1966, art. 6 e della L. n. 300 del 1970, art. 18 benchè la conversione del rapporto a termine in rapporto a tempo indeterminato dia al dipendente il diritto al ripristino del rapporto di lavoro e, ove negato, il diritto alla tutela risarcitoria. (Nella specie, la S.C. ha confermato la decisione della corte territoriale che, acclarato che il contratto a termine di formazione e lavoro era stato stipulato da datore di lavoro diverso da quello convenuto in giudizio senza che tra i due datori fosse intervenuto trasferimento del rapporto di lavoro ad alcun titolo, aveva attribuito alla disdetta comunicata alla lavoratrice valore meramente ricognitivo dell’avvenuta scadenza del termine apposto al contratto di formazione e lavoro nell’erroneo presupposto della validità dello stesso e ne aveva tratto le conseguenze in termini di persistenza del rapporto per il periodo successivo e di diritto al risarcimento del danno pari alle retribuzioni a decorrere dalla messa in mora del datore di lavoro con l’offerta della prestazione lavorativa, identificata con la notifica del ricorso introduttivo del giudizio)”.

Da ultimo, (Cass. Sez. lav. N. 2460 del 2/2/2011) si è ribadito che “in tema di risarcimento del danno subito dal dipendente a seguito di licenziamento per trasferimento aziendale nullo, la notifica del ricorso giudiziario vale a costituire in mora il datore di lavoro ove il bene della vita richiesto sia identificabile nella prosecuzione del rapporto e nella corresponsione delle retribuzioni passate”.

Ne consegue il rigetto del ricorso.

Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza della ricorrente e sono liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alle spese del giudizio nella misura di Euro 2500,00 per onorario, oltre Euro 40,00 per esborsi, nonchè IVA, CPA e spese generali ai sensi di legge.

Così deciso in Roma, il 13 aprile 2011.

Depositato in Cancelleria il 15 luglio 2011

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