Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 15611 del 22/07/2020

Cassazione civile sez. I, 22/07/2020, (ud. 24/01/2020, dep. 22/07/2020), n.15611

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CRISTIANO Magda – Presidente –

Dott. TRIA Lucia – Consigliere –

Dott. ACIERNO Maria – rel. Consigliere –

Dott. FEDERICO Guido – Consigliere –

Dott. MARULLI Marco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA INTERLOCUTORIA

sul ricorso 1794/2019 proposto da:

O.J., rappresentato e difeso dall’avv. Alessandro

Praticò del foro di Torino;

– ricorrente –

contro

Ministero Dell’interno, elettivamente domiciliato in Roma Via Dei

Portoghesi 12 Avvocatura Generale Dello Stato, che lo rappresenta e

difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1069/2018 della CORTE D’APPELLO di TORINO,

depositata il 06/06/2018;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

24/01/2020 da Dott. ACIERNO MARIA.

Fatto

RAGIONI DELLA DECISIONE

La Corte d’Appello di Torino, confermando la pronuncia di primo grado, ha rigettato la domanda di protezione internazionale proposta da O.J., cittadino nigeriano. L’appellante aveva affermato di essere vissuto ad (OMISSIS) con la famiglia composta da sei fratelli e sei sorelle e di aver fatto parte di un gruppo che lottava per l’indipendenza del Biafra. Poichè il Governo nel 2014 aveva espropriati i terreni della sua famiglia organizzava, anche a seguito dell’uccisione della sorella importanti azioni dimostrative culminate nell’uccisione di poliziotti, del re locale e del figlio del commissario di polizia. Era così costretto a fuggire perchè in pericolo di vita. Il Tribunale aveva rilevato notevoli contraddizioni tra quanto dichiarato davanti la Commissione e quanto riferito in tribunale, in particolare in relazione alla natura del movimento politico, ritenuto prima coinvolto in fatti di sangue e successivamente, invece, pacifico e non violento. La Corte d’Appello ha confermato il giudizio i radicale non credibilità per le macroscopiche contraddizioni tra le due narrazioni. Ha aggiunto che sussisterebbe comunque la condizione ostativa al riconoscimento della protezione internazionale tipica, per essere l’appellante accusato di delitti comuni di sangue D.Lgs. n. 251 del 2007, ex artt. 10 e 16. La Corte d’Appello ha, altresì, escluso che la Nigeria sia un paese privo di controllo statale e soggetto a violenza generalizzata, attraverso la consultazioni di fonti, specificamente riportate, così da superare anche l’ipotesi di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c).

In relazione alla domanda relativa alla protezione umanitaria la Corte d’Appello ha escluso l’esistenza di particolari rischi o pregiudizi fuori dell’ambito della protezione internazionale anche in considerazione dell’insussistenza di una situazione di effettiva instabilità politica in Nigeria. Per quanto riguarda la documentazione relativa al grado d’integrazione raggiunta viene rilevato che la maggiore o minore integrazione dello straniero non evidenziano alcuna situazione di vulnerabilità ma esclusivamente l’apprestamento di misure di accoglienza. Le attività svolte ed anche quelle di lavoro subordinato sono finalizzate a garantire un livello di vita attiva in pendenza della procedura ed in vista del futuro accoglimento della domanda ma non costituiscono un autonomo titolo di riconoscimento della protezione umanitaria.

Avverso tale pronuncia ha proposto ricorso per cassazione il cittadino straniero affidandosi a due motivi. Ha resistito con controricorso il Ministero dell’Interno.

Nel primo motivo viene dedotta la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5 e art. 14, lett. c), ed il difetto di motivazione per essere stata esclusa la protezione sussidiaria sulla base di informazioni parziali ed inattuali.

Nel secondo motivo viene dedotta la violazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, in relazione all’art. 2 Cost. e art. 10 Cost., comma 3, nonchè l’omesso esame di fatti decisivi in relazione al rigetto della domanda di protezione umanitaria, per non avere preso in esame nonostante le specifiche allegazioni al riguardo la grave violazione di diritti umani cui si troverebbe esposto il ricorrente al rimpatrio a fronte di un buon grado d’integrazione raggiunto nel nostro paese.

Ritiene il Collegio di procedere preliminarmente all’esame del secondo motivo il quale pone in rilievo una questione di rilievo nomofilattico e connotata da relativa novità.

Con la sentenza n. 4455 del 2018, confermata da S.U. 29459 e 29460 del 2019 la giurisprudenza di legittimità ha stabilito:

– In materia di protezione umanitaria, il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, al cittadino straniero che abbia realizzato un grado adeguato di integrazione sociale in Italia, deve fondarsi su una effettiva valutazione comparativa della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al Paese d’origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, in correlazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese d’accoglienza”.

Le Sezioni Unite hanno ulteriormente precisato Che “In tema di protezione umanitaria, l’orizzontalità dei diritti umani fondamentali comporta che, ai fini del riconoscimento della protezione, occorre operare la valutazione comparativa della situazione soggettiva e oggettiva del richiedente con riferimento al Paese di origine, in raffronto alla situazione d’integrazione raggiunta nel paese di accoglienza.

I principi esposti sono stati univocamente applicati in relazione all’insufficienza della mera allegazione del percorso d’integrazione al fine di configurare una condizione qualificata di vulnerabilità ma hanno dato luogo ad orientamenti non del tutto omogenei in ordine alla individuazione e definizione degli oneri allegativi in capo al ricorrente. In particolare, è necessario chiarire se la allegazione di una situazione generale di “violenza indiscriminata, nella quale si deducono, anche sulla base di reports prodotti, anche gravi violazioni di diritti umani, è sufficiente per integrare l’obbligo allegativo ai fini del permesso umanitario ove si alleghi allo stesso tempo un idoneo percorso integrativo. In alcune pronunce è stata ritenuta (Cass. 21123 del 2019; 7622 del 2020) la necessità dell’allegazione di fatti specifici e diversi rispetto a quelli posti a base delle protezioni tipiche, a sostegno della protezione umanitaria. In altre (13079 del 2019) è stato affermato che “la condizione di “vulnerabilità” del richiedente deve essere verificata caso per caso, all’esito di una valutazione individuale della sua vita privata in Italia, comparata con la situazione personale vissuta prima della partenza ed alla quale si troverebbe esposto in caso di rimpatrio, non potendosi tipizzare le categorie soggettive meritevoli di tale tutela che è invece atipica e residuale, nel senso che copre tutte quelle situazioni in cui, pur non sussistendo i presupposti per il riconoscimento dello “status” di rifugiato o della protezione sussidiaria, tuttavia non possa disporsi l’espulsione. Nella pronuncia, viene esclusa la necessità di un’allegazione specifica ed ulteriore di vulnerabilità, quale l’appartenenza a particolari categorie o l’esposizione a rischi già oggetto di protezioni tipiche quali la schiavitù, la tratta etc., ritenendo sufficiente che si possa procedere, ancorchè caso per caso, al giudizio comparativo tra la condizione d’integrazione del cittadino straniero e la situazione cui, con giudizio prognostico, il richiedente sarebbe esposto nel paese di origine in relazione alla sussistenza delle condizioni minime di rispetto dei diritti umani. In una pronuncia molto recente, è stato aggiunto che – il giudice deve valutare la sussistenza di situazioni di vulnerabilità personale dello straniero derivanti dal rischio di essere immesso nuovamente, in conseguenza del rimpatrio, in un contesto sociale, politico o ambientale capace di determinare una significativa ed effettiva compromissione dei suoi diritti inviolabili, considerando globalmente e unitariamente i singoli elementi fattuali accertati e non in maniera atomistica e frammentata”. (Cass. 7599 del 2020).

Si possono, di conseguenza, trarre, indicazioni non del tutto univoche, dagli orientamenti illustrati sia in relazione alla natura ed al contenuto degli oneri allegativi riguardanti la protezione umanitaria sia in ordine alla necessità di allegare una situazione di vulnerabilità ulteriore e diversa da quella che potrebbe scaturire dal giudizio comparativo richiesto da Cass. 4455 del 2018 e S.U. 29459 e 29460 del 2019. In particolare è necessario verificare se dalle allegazioni complessive, specie relative alla situazione generale, ove si indichino condizioni di deprivazione effettiva e grave del grado di vivibilità nel paese di origine e conseguentemente del godimento dei diritti umani, il rieniedente sia tenuto, in ossequio al principio dispositivo che governa la fase giurisdizionale del procedimento di protezione internazionale, ad allegazioni diverse ed ulteriori, anche quando quelle già poste a base della domanda possano essere sufficienti, ad esprimere la valutazione comparativa sopra illustrata. Ed in questa ipotesi, non è stato adeguatamente chiarito se la domanda di protezione umanitaria, fondata sulla valutazione comparativa, ove venga allegata la privazione dei diritti umani essenziali, sia idonea ad imporre l’onere di collaborazione istruttoria officiosa del giudice del merito in relazione alla condizione allegata.

Per le ragioni sopra esposte si ritiene di disporre la rimessione del ricorso alla pubblica udienza.

P.Q.M.

Dispone la rimessione del ricorso alla pubblica udienza e rinvia la causa a nuovo ruolo.

Così deciso in Roma, il 24 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 22 luglio 2020

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