Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 15595 del 09/07/2014


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Civile Sent. Sez. 1 Num. 15595 Anno 2014
Presidente: SALVAGO SALVATORE
Relatore: MERCOLINO GUIDO

mento danni

SENTENZA
sul ricorso proposto da
GALLUCCI SOFIA, elettivamente domiciliata in Roma, al viale Angelico n. 38,
presso l’avv. LUIGI NAPOLITANO, unitamente all’avv. GHERARDO MARONE, dal quale è rappresentata e difesa in virtù di procura speciale a margine del
ricorso – Cj 1 LL SFO /MaRICORRENTE

contro
REGIONE CAMPANIA, in persona del presidente della Giunta regionale p.t., elettivamente domiciliata in Roma, alla via Poli n. 29, presso l’Ufficio di rappresentanza della Regione Campania, unitamente all’avv. CORRADO GRANDE, dal
quale è rappresentata e difesa in virtù di procura speciale a margine del controricorso – C .

8 9-0 A A

GA”50(7.54A CONTRORICORRENTE

9.0
D.olL■
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Data pubblicazione: 09/07/2014

avverso la sentenza della Corte di Appello di Napoli n. 1378/06, pubblicata il 5
maggio 2006.
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 30 gennaio

udito l’avv. Marone per la ricorrente;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale
dott. Lucio CAPASSO, il quale ha concluso per il rigetto dei primi sei motivi di
ricorso e per l’accoglimento del sesto motivo.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1. — Sofia Gallucci, titolare di un’impresa di trasporti concessionaria di alcune autolinee nell’ambito della Regione Campania, convenne in giudizio la Regione, chiedendone la condanna al risarcimento dei danni subiti per effetto dell’illegittima privazione della concessione nel periodo compreso tra il 1° agosto 1979 e
il mese di giugno 1995.
A fondamento della domanda, espose che con sentenza del 1° febbraio 1993,
n. 112/93 il Consiglio di Stato aveva annullato le delibere adottate il 1° agosto
1979 ed il 18 gennaio 1983, con cui la Regione aveva dapprima affidato in regime
di emergenza al Consorzio salernitano dei trasporti pubblici le linee assegnate ad
essa attrice, e successivamente aveva disposto la risoluzione del rapporto concessorio.
1.1. — Con sentenza del 2 novembre 2004, il Tribunale di Napoli accolse la
domanda, condannando la Regione al pagamento della somma di Euro
3.252.208,60, oltre alla rivalutazione monetaria ed agl’interessi sul capitale annualmente rivalutato con decorrenza dalla data di maturazione dei singoli crediti.
2. — L’impugnazione proposta dalla Regione è stata parzialmente accolta

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2014 dal Consigliere dott. Guido Mercolino;

dalla Corte d’Appello di Napoli, che con sentenza del 5 maggio 2006 ha rideterminato la somma dovuta in Euro 168.896,38, oltre alla rivalutazione monetaria.
Premesso che l’impugnazione riguardava esclusivamente la liquidazione del

nanzitutto la configurabilità di un danno da lucro cessante per il mancato esercizio
delle linee in concessione, rilevando che, ai sensi dell’art. 13, ultimo comma, della
legge della Regione Campania 25 gennaio 1983, n. 16, i contributi previsti dalla
medesima legge, pur dovendo essere commisurati alla differenza tra costi e ricavi
standardizzati, non potevano risultare superiori alla perdita di esercizio aziendale
risultante dal conto economico consuntivo. Ha escluso che tale disposizione potesse essere disapplicata in quanto contrastante con l’art. 6 della legge quadro 10
aprile 1981, n. 151, osservando che quest’ultima, avente come destinatarie le Regioni a statuto ordinario, mira ad assicurare l’unità di indirizzo richiesta dal prevalere delle esigenze unitarie proprie del settore in esame, e non contiene una disciplina di dettaglio suscettibile di penetrare nello spazio riservato alla normativa regionale, ma si limita a dettare i principi generali cui le Regioni devono attenersi
per assicurare l’equilibrio economico dei bilanci dei servizi di trasporto. Ha aggiunto che l’art. 6, nel rimettere alla legge regionale l’individuazione dei principi
per la determinazione dei contributi da erogare alle singole aziende, intende solo
contenere il contributo, oltre che nel limite costituito dallo stanziamento regionale,
in quello ulteriore rappresentato dalla differenza tra costi standardizzati e ricavi
presunti, al fine di evitare che lo stanziamento possa andare disperso per sopperire
ad incapacità gestionali di singole aziende. Ha ritenuto pertanto infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 13, sollevata in riferimento agli artt.
117, 118 e 41 Cost., affermando che la norma in esame non impedisce ai privati di

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danno, e non anche il diritto della Gallucci al risarcimento, la Corte ha escluso in-

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gestire attività d’interesse generale al fine di conseguire un proprio utile, anche
con l’aiuto di contributi pubblici, ma esclude solo che tali attività possano essere
esercitate a spese dello Stato o della Regione. La Corte ha ritenuto altresì infonda-

vizio fuori linea, osservando che il c.t.u. si era limitato a determinarlo sulla base di
dati ipotetici ed astratti, in quanto l’attrice non aveva provato di aver espletato tale
attività nel periodo anteriore all’illegittima revoca della concessione.
Quanto al danno emergente, ha rilevato che la perdita dell’avviamento era stata determinata anch’essa con riferimento ai redditi derivanti dal servizio fuori linea, la cui effettuazione era rimasta indimostrata. Ha ritenuto invece sussistente il
danno per la perdita del valore costituito dal parco autobus, pari alla differenza tra
il valore dei beni ed il ricavato della vendita forzata, trattandosi della diminuzione
patrimoniale derivante dalla situazione di totale illiquidità determinata dalla revoca della concessione. Ha riconosciuto inoltre il danno costituito dall’esborso resosi
necessario per il riacquisto degli automezzi al momento della ripresa del servizio,
in quanto la revoca aveva impedito il graduale rinnovamento del materiale rotabile, degli impianti e le attrezzature, per il quale l’impresa avrebbe potuto fruire di
contributi in conto esercizio ed in conto capitale.
La Corte ha infine ritenuto che l’importo complessivo liquidato dovesse essere diminuito della somma ricavata dall’attività di nolo degli automezzi, e che sulla
differenza dovesse essere riconosciuta la rivalutazione monetaria ma non anche
gl’interessi, non essendo stato provato che l’importo rivalutato fosse inferiore a
quello di cui l’attrice avrebbe disposto nel caso in cui il pagamento fosse stato effettuato tempestivamente.
3. — Avverso la predetta sentenza la Gallucci propone ricorso per cassazio-

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ta la domanda di risarcimento del lucro cessante per il mancato esercizio del ser-

ne, articolato in sei motivi, illustrati anche con memoria. La Regione resiste con
controricorso.

MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo d’impugnazione, la ricorrente denuncia la viola-

zione e la falsa applicazione degli artt. 2043 e 2056 cod. civ., nonché l’omissione,
l’insufficienza e la contraddittorietà della motivazione, osservando che la sentenza
impugnata, dopo aver affermato che il giudizio riguardava esclusivamente la
quantificazione del danno, ha contraddittoriamente escluso la sussistenza del lucro
cessante per il mancato esercizio delle linee in concessione. Sostiene al riguardo
che la constatata impossibilità di ricostruire i dati gestionali dell’impresa negli anni della sua inattività non avrebbe impedito l’accertamento del danno, mai contestato nella sua realtà ontologica, ma avrebbe dovuto indurre la Corte di merito ad
avvalersi di un metodo di liquidazione diverso, fondato su altri parametri o su criteri equitativi riferiti a vicende analoghe, e comunque a precisare le ragioni per cui
non riteneva opportuno disporre una nuova c.t.u.
1.1. — Il motivo è infondato.
Nell’individuare le questioni devolute al suo esame, la Corte d’Appello ha indubbiamente affermato che l’impugnazione proposta dalla Regione concerneva
esclusivamente i criteri di quantificazione del danno, e non anche l’esistenza dello
stesso, precisando tuttavia che con tale espressione intendeva riferirsi soltanto alla
sussistenza del diritto della Gallucci al risarcimento per il danno eventualmente
subito in conseguenza dell’illegittima revoca della concessione, ed escludendo
quindi che il giudicato interno formatosi al riguardo si estendesse all’accertamento
delle singole voci di danno riconosciute dalla sentenza di primo grado. Queste ultime, d’altronde, come si evince dalla narrativa della sentenza impugnata, avevano

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1.

costituito oggetto di specifica contestazione nell’atto di appello, con cui la Regione aveva censurato, in particolare, la liquidazione del lucro cessante sotto il duplice profilo dell’errata determinazione dei contributi di esercizio non percepiti dal-

tali contestazioni, alle quali si aggiungevano quelle riguardanti l’accertamento del
danno emergente, investivano il Giudice d’appello del potere di riesaminare nella
sua interezza la statuizione concernente il quantum debeatur, senza incorrere in
contraddizione con il giudicato formatosi in ordine all’an debeatur, il quale, com’è
noto, copre soltanto l’astratta potenzialità dannosa del fatto illecito, ma non preclude l’accertamento che in concreto il danno non si è verificato (cfr. Cass., Sez.
II, 13 settembre 2012, n. 15335; 31 luglio 2006, n. 17297; Cass., Sez. III, 2 maggio 2002, n. 6257; Cass., Sez. lav., 18 novembre 1995, n. 11953).
In quanto motivata per un verso dall’impossibilità di fruire dei contributi regionali in misura superiore alle perdite di esercizio risultanti dai conti economici
consuntivi e per altro verso dalla mancata prova dell’effettivo svolgimento del
servizio fuori linea, l’esclusione del lucro cessante non si pone in contrasto neppure con la discrezionalità spettante al giudice di merito nella scelta dei criteri più
idonei per la liquidazione del danno. L’accoglimento della domanda di risarcimento del danno da lucro cessante esige infatti la prova, anche presuntiva, di elementi
oggettivi dai quali sia possibile desumere, in termini di certezza o comunque di
elevata probabilità, e non già di mera potenzialità, l’esistenza di un pregiudizio economicamente valutabile (cfr. Cass., Sez. III, 16 maggio 2013, n. 11968; 11
maggio 2010, n. 11353; 19 febbraio 2009, n. 4052); alla mancanza di tali elementi, la cui allegazione e dimostrazione incombe al danneggiato, non può sopperirsi
mediante una c.t.u., la quale, non costituendo un mezzo di prova, ma uno strumen-

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l’attrice e della mancata prova dell’effettivo svolgimento del servizio fuori linea:

to posto a disposizione del giudicante ai fini di una migliore valutazione di elementi il cui apprezzamento richieda il possesso di particolari cognizioni tecniche,
non può essere disposta al fine di dispensare le parti dagli oneri probatori posti a

stanze non provati (cfr. Cass., Sez. I, 5 luglio 2007, n. 15219; Cass., Sez. lav., 5
ottobre 2006, n. 21412; Cass., Sez. II, 11 gennaio 2006, n. 212); né all’inadempimento dei predetti oneri avrebbe potuto ovviarsi mediante il ricorso al metodo equitativo, la cui utilizzazione, presupponendo l’avvenuta dimostrazione dell’esistenza di un danno risarcibile e l’impossibilità o la particolare difficoltà di fornire
la prova del suo preciso ammontare, non esonera la parte dalla prova dell’esistenza
di un pregiudizio patrimoniale, sulla base di elementi idonei a fornire parametri
plausibili di liquidazione (cfr. Cass., Sez. VI, 19 dicembre 2011, n. 27447; Cass.,
Sez. III, 12 ottobre 2011, n. 20990; 30 aprile 2010, n. 10607).
2. — Con il secondo motivo, la ricorrente deduce la violazione della legge n.
151 del 1981 e della legge regionale n. 16 del 1983, nonché il vizio di motivazione, censurando la sentenza impugnata nella parte in cui ha escluso il diritto di essa
ricorrente a fruire del contributo previsto dalla disciplina regionale. Afferma infatti che la domanda non aveva ad oggetto il riconoscimento di tale contributo, il
quale costituiva soltanto il parametro per la liquidazione del danno complessivamente sofferto dall’impresa, precisando comunque che la legge regionale poteva
essere assunta come riferimento soltanto per il periodo successivo alla sua entrata
in vigore, mentre per il periodo precedente avrebbe dovuto trovare applicazione la
legge statale. Contesta l’interpretazione della disciplina di settore fornita dalla
Corte di merito, sostenendo che la ratio delle norme indicate consiste nel commisurare le sovvenzioni pubbliche a parametri oggettivi, in modo da ancorare per

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loro carico o richiesta a fini esplorativi, per la ricerca di fatti, elementi o circo-

quanto possibile il contributo finanziario pubblico al dato oggettivo del servizio
prestato, anziché alle risultanze della contabilità aziendale: il contributo regionale
dev’essere pertanto determinato in misura pari alla differenza tra i costi standar-

commisurato il danno subito da essa ricorrente per l’illegittima risoluzione della
concessione.
3. — Con il terzo motivo, la ricorrente lamenta, ai sensi dell’art. 360 nn. 3 e 5
cod. proc. civ., la violazione degli artt. 117 e 118 Cost., riproponendo la questione
di legittimità costituzionale dell’art. 13 della legge regionale n. 16 del 1983. Sostiene infatti che tale disposizione contrasta apertamente con i principi stabiliti
dalla legge quadro, i quali prevedono un criterio di quantificazione del contributo
volto a consentire alle aziende di trasporto di conseguire degli utili, nonostante
l’applicazione di tariffe predefinite inferiori ai prezzi di mercato. Aggiunge che
l’interpretazione fornita dalla sentenza impugnata si pone in contrasto non solo
con la libertà d’iniziativa economica privata, tutelata dall’art. 41 Cost., ma anche
con il principio di sussidiarietà oggi sancito dall’art. 118 Cost., in quanto, rendendo sostanzialmente impossibile il conseguimento di un utile di esercizio, impedisce ai privati di impiegare le loro risorse nello svolgimento di un’attività d’interesse generale.
4. — I predetti motivi devono essere esaminati congiuntamente, in quanto riflettenti profili diversi della medesima questione.
Come si evince dalla narrativa del ricorso, il risarcimento liquidato dalla sentenza di primo grado in favore dell’attrice comprendeva tre distinte voci di danno,
individuate nella relazione del c.t.u. e costituite rispettivamente dalla mancata
fruizione dei contributi di esercizio previsti dalla legge regionale per il ripiana-

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dizzati ed i ricavi presunti, alla quale avrebbe dovuto essere conseguentemente

mento delle perdite derivanti dallo svolgimento del servizio di linea e dalla mancata percezione degli utili derivanti dallo svolgimento del servizio fuori linea, riconosciute a titolo di lucro cessante, nonché dal danno emergente, comprendente a

sborso sostenuto per il riacquisto degli automezzi ai fini della ripresa del servizio.
Sebbene, pertanto, la controversia non avesse ad oggetto il riconoscimento dei
contributi di esercizio, ma il risarcimento dei danni derivanti dall’illegittima risoluzione del rapporto di concessione, l’ammontare dei contributi costituiva uno dei
parametri adottati ai fini della liquidazione del lucro cessante, la cui applicazione
era stata specificamente contestata nell’atto di appello, avendo la Regione sostenuto che, nel determinare l’importo dovuto, il Giudice di primo grado non aveva tenuto conto dei limiti imposti dalla normativa regionale di settore. Non merita
dunque censura la sentenza impugnata, nella parte in cui, riesaminando la liquidazione del danno compiuta dal Giudice di primo grado, ha proceduto alla verifica
delle condizioni cui la legge regionale subordinava la fruizione dei contributi di
esercizio da parte delle aziende esercenti servizi di trasporto pubblico locale, la
cui sussistenza era stata contestata dall’appellante.
4.1. — L’esame della disciplina dettata dalla normativa di settore conferma
poi che, come ritenuto dalla Corte di merito, il riconoscimento dei contributi non
avrebbe mai potuto dar luogo ad un utile d’impresa, il cui mancato conseguimento
potesse costituire oggetto di risarcimento come lucro cessante.
Ai sensi dell’art. 2 della legge regionale della Campania n. 16 del 1983 (abrogata dalla legge regionale 28 marzo 2002, n. 3, ma applicabile ratione temporis
alla fattispecie in esame), i contributi in questione dovevano essere calcolati per
ciascuna azienda entro il 31 dicembre dell’anno precedente a quello al quale si ri-

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sua volta la perdita dell’avviamento, la perdita di valore del parco autobus e l’e-

ferivano, e dovevano risultare pari alla differenza tra il costo economico standardizzato dei servizi, determinato con riferimento a criteri e parametri di rigorosa ed
efficiente gestione, ed i ricavi del traffico presunti, derivanti dall’applicazione di

riamente aver luogo, ai sensi del terzo comma, per trimestralità anticipate, sulla
base delle percorrenze autorizzate nell’anno precedente a quello cui il contributo si
riferiva, e con successivo conguaglio, il quale, a norma dell’art. 10, doveva essere
corrisposto entro il 31 maggio dell’anno seguente, sulla base delle percorrenze risultanti dai programmi di esercizio approvati dalla Regione o a quelle certificate
dal Consiglio comunale, dell’eventuale revisione del costo economico standardizzato in dipendenza di variazioni verificatesi nel corso dell’esercizio, dei parametri
di utilizzo dei veicoli e del personale risultanti a consuntivo per ciascuna azienda e
dei ricavi effettivamente conseguiti. Tali disposizioni rispecchiavano i principi
enunciati dall’art. 6 della legge quadro n. 151 del 1981, il quale, dopo aver disciplinato la determinazione del costo economico standardizzato e dei ricavi presunti
sulla base di criteri testualmente riprodotti dalla legge regionale, prevedeva anch’esso, al secondo comma, che l’erogazione del contributo dovesse avvenire in
via preventiva sulla base delle percorrenze autorizzate ed effettuate nell’anno precedente, con successivo conguaglio in base alle percorrenze effettuate nell’anno a
cui si riferivano i contributi stessi. La norma in esame fu in seguito abrogata dall’art. 4, comma terzo, della legge 15 dicembre 1990, n. 385, il quale dispose che, a
partire dal 10 gennaio 1991, i contributi di esercizio fossero corrisposti secondo il
principio della competenza, in tal modo attribuendo carattere preventivo alla determinazione della sovvenzione, e rendendola quindi idonea a generare un credito
liquido ed esigibile, ma non escludendo la possibilità del recupero del contributo,

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tariffe minime stabilite dalla Regione. L’erogazione dei contributi doveva origina-

sulla base alle risultanze effettive dell’esercizio (cfr. Cass., Sez. I, 7 febbraio 2007,
n. 2707); tale facoltà nell’ambito della Regione Campania ha trovato conferma
nell’art. 17, comma primo, della legge regionale 5 agosto 1999, n. 5 e nell’art. 1,

alla dichiarazione d’illegittimità costituzionale di tali disposizioni, nella parte in
cui prorogavano il termine perentorio a tal fine previsto dall’art. 10 della legge regionale n. 16 del 1983 (cfr. Corte cost., sent. n. 156 del 2007). Alla stregua di tale
disciplina, non può dunque condividersi l’affermazione della ricorrente, secondo
cui la contabilità effettiva dell’azienda di trasporto non assumeva alcun rilievo ai
fini del riconoscimento e della liquidazione del contributo, da effettuarsi esclusivamente in base ai costi standardizzati ed ai ricavi presunti: se è vero, infatti, che
tali elementi costituivano la base di calcolo delle trimestralità da corrispondersi
anticipatamente, non potendosi conoscere il risultato della gestione prima della
chiusura dell’esercizio finanziario, è anche vero però che nella determinazione del
conguaglio occorreva aver riguardo ad eventuali sopravvenienze che avessero
comportato un incremento del costo standardizzato e soprattutto ai ricavi effettivamente realizzati.
L’obiettivo della normativa in esame consisteva nell’assicurare il ripianamento delle perdite eventualmente sopportate dalle aziende esercenti i servizi di trasporto pubblico locale per effetto dell’obbligatoria applicazione ai servizi di linea
delle tariffe imposte dalla Regione; la fissazione di tali tariffe in base a criteri di
politica sociale, rendendole inidonee a garantire la copertura integrale dei costi del
servizio, era infatti destinata inevitabilmente a provocare uno squilibrio nella gestione dell’attività, il cui affidamento in concessione a soggetti privati o ad aziende
pubbliche operanti secondo criteri di economicità imponeva, in correlazione con

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comma terzo, della legge regionale 12 novembre 2004, n. 8, ed è perdurata fino

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l’interesse pubblico sotteso allo svolgimento del servizio, la somministrazione dei
mezzi necessari per porre rimedio al deficit di bilancio; per evitare che tale contribuzione si risolvesse in un rimborso a piè di lista, era tuttavia previsto che la sua

alla qualità del servizio, con la conseguente esclusione della copertura di ulteriori
perdite dovute ad una gestione non improntata a principi di correttezza ed efficienza economico-finanziaria. E’ in quest’ottica che il quarto comma dell’art. 2
della legge regionale stabiliva che le eventuali perdite e disavanzi non coperti dai
contributi regionali come sopra determinati restassero a carico delle singole aziende od esercizi di trasporto, in tal modo escludendo la configurabilità a carico
della Regione di un obbligo di contribuire indiscriminatamente al riequilibrio delle gestioni.
L’art. 13, sesto comma, della legge regionale introduceva poi un ulteriore limite all’erogazione dei contributi, prevedendo che gli stessi non dovessero comunque superare, nel loro ammontare complessivo, la perdita di esercizio aziendale risultante dal conto economico consuntivo; a tal fine, il secondo comma del
medesimo articolo prescriveva la trasmissione al Servizio regionale trasporti di
una copia del conto economico consuntivo relativo all’attività di trasporto pubblico, redatto secondo uno schema tipo definito dal Ministero del tesoro, il quale rispondeva anche alla finalità di consentire la rilevazione dei costi effettivi dell’attività e l’analisi comparata tra le diverse imprese o aziende, in funzione dell’eventuale riordino del servizio previsto dall’ultimo comma (cfr. Corte cost., sent. n.
156 del 2007 cit.). Per effetto di questa disposizione, il contributo di esercizio, determinato in base al raffronto tra il costo economico standardizzato, riveduto nei
sensi di cui all’art. 10, ed i ricavi effettivamente conseguiti, era dovuto soltanto nei

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determinazione avesse luogo in base a criteri oggettivi collegati alla tipologia ed

limiti necessari a ristabilire l’equilibrio della gestione, e cioè a ripianare le relative
perdite; qualora pertanto, come nella specie, tali perdite non si fossero verificate, a
causa del mancato svolgimento del servizio per qualsiasi causa, nessun importo

curare un utile di esercizio, ma solo a coprire il disavanzo della gestione.
4.2. — Tale finalità trovava conferma sia nell’art. 1, primo comma, della legge regionale, il quale assegnava ai contributi di esercizio l’obiettivo di conseguire
l’equilibrio economico dei bilanci dei servizi di trasporto, senza fare alcun riferimento ad un eventuale profitto, che nell’art. 2, primo comma, lett. b), il quale, nel
disciplinare la determinazione dei ricavi presunti, stabiliva che essi dovessero essere tali da coprire il costo effettivo del servizio almeno nella misura stabilita annualmente con decreto del Ministro dei trasporti, in tal modo escludendo, in linea
di principio, la possibilità di trarre un guadagno dall’erogazione del contributo. Le
predette disposizioni riproducevano testualmente i principi enunciati dall’art. 6
della legge quadro, il quale, pur non recando una norma analoga a quella di cui all’art. 13, sesto comma, della legge regionale, poneva anch’esso a carico delle imprese di trasporto le perdite ed i disavanzi non coperti dai contributi, in tal modo
escludendo l’obbligo delle Regioni di assicurarne la copertura integrale, e quindi,
a fortiori, quello di garantire alle imprese un margine di guadagno.
Che l’obiettivo perseguito dal legislatore statale fosse, non diversamente da
quello avuto di mira dal legislatore regionale, esclusivamente il riequilibrio della
gestione, è stato d’altronde chiarito, in riferimento all’analoga disciplina dettata
dalla Regione Molise, anche dalla giurisprudenza amministrativa, la quale ha affermato che la funzione del contributo di esercizio non era quella di consentire, sia
pure in via eventuale, il conseguimento di un utile, ma solo quella di garantire una

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poteva essere riconosciuto all’impresa, non essendo il contributo destinato ad assi-

forma di abbattimento totale o parziale delle perdite di esercizio, in quanto la finalità perseguita dalla legge n. 151 del 1981 consisteva nel contribuire al sostegno
delle aziende esercenti servizi di trasporto locale fino al conseguimento della co-

2004, n. 2398). Per quanto rileva in questa sede, non può pertanto riconoscersi alcuna rilevanza al ritardo con cui il legislatore regionale ha provveduto a dare attuazione ai principi stabiliti dalla legge quadro: anche a voler ritenere che la disciplina introdotta da quest’ultima risultasse sufficientemente dettagliata, e quindi idonea a regolare la materia in esame fino al momento in cui la Regione ha esercitato il proprio potere legislativo, la sua applicazione non consentirebbe infatti di
pervenire a conclusioni diverse da quelle risultanti dalla sentenza impugnata.
E’ manifestamente infondata, inoltre, la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 13 della legge regionale della Campania n. 16 del 1983, nella parte in cui,
prevedendo un criterio di determinazione dei contributi di esercizio inidoneo ad
assicurare il conseguimento di un utile alle imprese esercenti servizi di trasporto
pubblico locale, si porrebbe in contrasto con i principi enunciati dalla legge quadro: la coincidenza delle finalità perseguite dal legislatore regionale con quelle individuate dal legislatore statale, avente il suo riflesso nella sostanziale identità dei
criteri previsti per la liquidazione delle sovvenzioni, consente infatti di escludere
la configurabilità della lamentata violazione dell’art. 117 Cost. Quanto al dedotto
contrasto con il principio di sussidiarietà, indipendentemente dalla considerazione
che la vicenda in esame si è svolta interamente prima dell’entrata in vigore della
legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, che ha sostituito l’art. 118 Cost., si osserva che il principio, introdotto dal quarto comma del nuovo testo, secondo cui
«Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma

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pertura del disavanzo d’esercizio, e non oltre (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 23 aprile

iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale» non ha alcuna attinenza con la questione in esame: la sussidiarietà
c.d. orizzontale, alla quale si riferisce la predetta disposizione, postula infatti l’ini-

di attività aventi carattere tipico e riferibili esclusivamente a quei soggetti, nelle
quali l’ente territoriale non ha alcun titolo per intervenire, ed alle quali può in vario modo concorrere, anche mediante l’erogazione di sovvenzioni, sulla base di
una valutazione della necessità che il servizio o l’attività possano continuare a beneficio della collettività di riferimento (cfr. Cons. Stato, Sez. cons. atti norm., parere 25 agosto 2003, n. 1440); esprimendosi in forme diverse dall’esercizio di una
attività economica organizzata, essa non ha nulla in comune con la prestazione di
servizi d’interesse generale suscettibili di essere erogati in forma d’impresa, e resta
pertanto estranea all’assunzione diretta o indiretta di tali servizi da parte degli enti
pubblici, nonché al concorso degli stessi agli oneri derivanti dalla gestione. Non è
infine configurabile, nella specie, una violazione dell’art. 41 Cost., dal momento
che il contemperamento tra l’interesse pubblico alla prestazione del servizio e la
tutela della libertà dell’iniziativa economica privata può giustificare il concorso
dell’ente territoriale al ripristino dell’equilibrio della gestione compromesso dall’applicazione di tariffe inidonee ad assicurare la copertura dei costi, ma non impone necessariamente la salvaguardia di un equo margine di profitto per l’impresa.
5. — Con il quarto motivo, la ricorrente denuncia la violazione dell’art. 360
nn. 4 e 5 cod. proc. civ., nonché il vizio di motivazione, in riferimento all’omesso
esame di documenti decisivi, censurando la sentenza impugnata nella parte in cui
ha ritenuto non provato il lucro cessante per il mancato esercizio del servizio fuori
linea, senza considerare che lo stesso costituisce certamente un’attività remunera-

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ziativa spontanea di cittadini, famiglie, associazioni e comunità nello svolgimento

tiva per le aziende concessionarie di servizi di trasporto pubblico, in quanto le tariffe praticate non sono condizionate da prezzi imposti. Aggiunge che, in mancanza della prova del danno, la Corte di merito avrebbe potuto far ricorso all’equità,

svolto il servizio in sostituzione di essa ricorrente o quelli di un’altra azienda concessionaria di servizi di trasporto pubblico.
5.1. — Il motivo è in parte inammissibile, in parte infondato.
In quanto imperniate sulla redditività del servizio fuori linea, quale attività
complementare al servizio di linea, che le imprese concessionarie di servizi di trasporto pubblico locale sono autorizzate a svolgere in via esclusiva al fine di assicurarsi un margine di guadagno, le censure proposte dalla ricorrente non colgono
la ratio decidendi della sentenza impugnata, la quale, nel negare il riconoscimento
del pregiudizio derivante dal mancato svolgimento di tale attività, non ne ha affatto esclusa in astratto la remuneratività, ma si è limitata a rilevare in concreto che
non era stata fornita alcuna prova del suo esercizio negli anni anteriori all’illegittima revoca della concessione e degli utili che ne aveva tratto la ricorrente.
In assenza di tali elementi, la cui allegazione e dimostrazione era a carico della ricorrente, non può non condividersi il dissenso manifestato dalla Corte di merito nei confronti del metodo seguito dal c.t.u., che aveva determinato il mancato
guadagno sulla base di dati meramente ipotetici ed astratti; la mancanza di qualsiasi collegamento con l’organizzazione e l’attività della ricorrente avrebbe reso
impraticabile anche il confronto con i risultati di altre gestioni, delle quali avrebbero d’altronde dovuto essere precisate almeno le dimensioni e le caratteristiche,
indispensabili per attribuire ai parametri di riferimento quei connotati di concretezza e specificità che, rendendo plausibile la ricostruzione del pregiudizio effetti-

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adottando come parametro di riferimento i conti economici dell’azienda che aveva

vamente sopportato, avrebbero potuto giustificare una liquidazione equitativa.
6. — Con il quinto motivo, la ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 360 n. 4
cod. proc. civ., la violazione e la falsa applicazione dell’art. 112 cod. proc. civ.,

l’avviamento, la Corte di merito ha pronunciato extra petita, avendo ritenuto non
provata l’effettuazione del servizio fuori linea, il cui reddito era stato assunto dal
c.t.u. come parametro per la liquidazione del danno, laddove l’appellante si era limitato a dedurre che il c.t.u. aveva determinato il danno con riferimento al reddito
d’impresa.
6.1. — Il motivo è infondato.
In ossequio al principio, già richiamato, secondo cui il giudicato formatosi in
ordine all’an debeatur copre soltanto l’astratta potenzialità dannosa del fatto illecito, ma non preclude l’accertamento che il pregiudizio in concreto non si è verificato, ove la sentenza di primo grado sia impugnata nella parte concernente la liquidazione del danno, contestandosi che dello stesso sia stata fornita la prova, il giudice d’appello è investito del potere di riesaminare nella sua interezza la statuizione riguardante il quantum debeatur, con la conseguenza che non incorre in ultrapetizione nel caso in cui, all’esito di tale revisione, escluda l’esistenza di qualsiasi
danno (cfr. Cass., Sez. lav., 18 novembre 1995, n. 11953, cit.).
7 — Con il sesto ed ultimo motivo, la ricorrente lamenta la violazione dell’art. 360 n. 3 cod. proc. civ., osservando che, nella parte in cui non ha riconosciuto gl’interessi con decorrenza dai singoli momenti riguardo ai quali la somma liquidata era destinata ad incrementarsi nominalmente per effetto degl’indici di rivalutazione, la sentenza impugnata non ha considerato che la qualità d’imprenditore
commerciale del creditore costituiva un elemento presuntivo di per sé idoneo a far

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sostenendo che, nel disconoscere il danno emergente connesso alla perdita del-

v,119Filh’?”

ritenere, sulla base dell’id quod plerumque accidit, che un tempestivo adempimento avrebbe consentito di reimpiegare utilmente la somma dovuta.
7.1. — Il motivo è inammissibile.

retta alla reintegrazione del danneggiato nella stessa situazione patrimoniale nella
quale si sarebbe trovato se il danno non fosse stato prodotto, il principale mezzo
di commisurazione attuale del valore perduto dal creditore è costituito dalla rivalutazione monetaria, mentre il riconoscimento degli interessi rappresenta una modalità di liquidazione del possibile danno ulteriore da lucro cessante, cui è consentito fare ricorso solo nei casi in cui la rivalutazione monetaria dell’importo liquidato in relazione all’epoca dell’illecito, ovvero la liquidazione in valori monetari attuali, non valgano a reintegrare pienamente il creditore. Pertanto, come ha correttamente osservato la Corte di merito, il mero ritardo nella percezione dell’equivalente monetario non dà automaticamente diritto alla corresponsione degli interessi,
occorrendo a tal fine l’allegazione e la prova del danno ulteriore subito dal creditore, che si realizza solo se ed in quanto la somma rivalutata (o liquidata in moneta
attuale) risulti inferiore a quella di cui il danneggiato avrebbe disposto, alla data
della sentenza, se il pagamento della somma originariamente dovuta fosse stato
tempestivo (cfr. Cass., Sez. III, 12 febbraio 2010, n. 3355; 24 ottobre 2007, n.
22347; 28 luglio 2005, n. 15823). E’ pur vero che l’accertamento di tale danno può
aver luogo anche sulla base di elementi presuntivi collegati al rapporto tra remuneratività media del denaro e tasso di svalutazione nel periodo in considerazione,
nonché ad altre circostanze oggettive e soggettive attinenti al caso specifico: la verifica dei presupposti per il ricorso alle presunzioni e dei requisiti di gravità, precisione e concordanza richiesti dalla legge ai fini della valorizzazione degli elementi

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Nell’obbligazione risarcitoria, che costituisce debito di valore, in quanto di-

acquisiti come fonti di presunzione, ovverosia come circostanze idonee a consentire illazioni che ne discendano secondo il criterio dell’id quod plerumque accidit,
costituisce peraltro oggetto di un apprezzamento discrezionale rimesso al giudice

illogicità della motivazione (cfr. Cass., Sez. II, 27 ottobre 2010, n. 21961; Cass.,
Sez. III, 13 novembre 2009, n. 24028; 11 maggio 2007, n. 10847).
8. — Il ricorso va pertanto rigettato, con la conseguente condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali, che si liquidano come dal dispositivo.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso, e condanna Gallucci Sofia al pagamento delle spese
processuali, che si liquidano in complessivi Euro 20.200,00, ivi compresi Euro
20.000,00 per compensi ed Euro 200,00 per esborsi, oltre agli accessori di legge.
Così deciso in Roma, il 30 gennaio 2014, nella camera di consiglio della
Prima Sezione Civile

di merito, e censurabile in sede di legittimità esclusivamente per incongruenza ed

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