Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 15583 del 04/06/2021

Cassazione civile sez. III, 04/06/2021, (ud. 20/01/2021, dep. 04/06/2021), n.15583

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIVALDI Roberta – Presidente –

Dott. DI FLORIO Antonella – Consigliere –

Dott. RUBINO Lina – rel. Consigliere –

Dott. VINCENTI Enzo – Consigliere –

Dott. DELL’UTRI Marco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 30237/2019 proposto da:

M.A., elettivamente domiciliato presso la casella pec

dell’avv. GIUSEPPE BRIGANTI, che lo rappresenta e difende per

procura speciale in atti;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, (OMISSIS);

– intimato –

avverso il decreto del TRIBUNALE di ANCONA, depositata il 03/09/2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

20/01/2021 dal Consigliere Dott. LINA RUBINO.

 

Fatto

RILEVATO

che:

1.- M.A., proveniente dal Pakistan, ha proposto un ricorso articolato in sei motivi, notificato il 10 ottobre 2019, per la cassazione del Decreto n. 10361 del 2019, emesso dal Tribunale di Ancona e pubblicato in data 3 settembre 2019.

Il Ministero dell’interno ha depositato tardivamente una comunicazione con la quale si è dichiarato disponibile alla partecipazione alla discussione orale. Il ricorso è stato avviato alla trattazione in adunanza camerale non partecipata.

2. – Il ricorrente, secondo la ricostruzione dei fatti contenuta nel ricorso, ha lasciato il suo paese nel 2008, ha proposto domanda di protezione internazionale in Germania ed anche in Svizzera, assume di rischiare, in caso di rimpatrio, l’ergastolo o la pena di morte per essere stato infondatamente accusato in patria di sequestro di persona e omicidio della promessa sposa, accuse mosse dalla famiglia della donna, sciita e ostile perciò al ricorrente, di religione sunnita. La donna sarebbe stata invece uccisa dal fratello di lei, per impedirle di sposare il ricorrente.

3. – Il decreto indica che il ricorrente aveva già richiesto la protezione internazionale in Germania, che gli era stata negata; si accenna anche ad altra richiesta avanzata in Svizzera. A pag. 8 il decreto esamina il problema della domanda di protezione internazionale già presentata in altro paese Europeo, e ricostruisce la regola da applicare al caso concreto, sulla base del Regolamento UE n. 64 del 2013: lo Stato adito per ultimo avrebbe potuto rivolgere una richiesta di ripresa in carico al paese che prima si è pronunciato, entro determinati termini; non risultando che la Commissione territoriale lo abbia fatto, ritiene il tribunale che la Commissione abbia inteso esaminare la domanda nel merito esercitando la c.d. clausola di sovranità prevista nell’art. 7 del predetto regolamento, che è facoltà di ogni Stato Europeo esercitare e di conseguenza che si sia radicata la giurisdizione in Italia. Chiarito questo quanto alla sussistenza della giurisdizione italiana, il tribunale chiarisce altresì che trattasi comunque di domanda reiterata, riproponibile nei limiti della presenza di elementi nuovi, attribuendo a tale nozione l’ampia accezione costruita negli anni di fatti o allegazioni nuove e successive, o anche di nuove prove, anche relative alla prima proposizione della domanda, purchè il ricorrente solo in un momento successivo sia stato in grado di produrle. Tutto ciò premesso, ritiene il tribunale che la domanda sia stata meramente reiterata, senza presentare alcun profilo di novità, e pertanto che debba esser ritenuta manifestamente infondata.

Il Tribunale di Ancona, confermando la decisione della Commissione territoriale di Ancona, precisa ancora che il ricorrente, a monte, non fosse neppure credibile, non avendo fornito alcun particolare idoneo a far verificare la storia narrata e non risultando credibile in particolare che, stante la pendenza di un procedimento penale per omicidio, fosse riuscito ad ottenere ben due visti per l’espatrio.

Quanto alla situazione del paese di origine, il decreto impugnato afferma, sulla base di COI (Country of Origin Informations) del 2018 che la situazione in Punjab, regione di provenienza del ricorrente, non fosse di conflitto armato generalizzato. Esclude la sussistenza dei presupposti per il diritto al rifugio e quanto alla protezione umanitaria afferma che fosse necessaria una situazione di elevata vulnerabilità non riscontrabile nel caso di specie, non avendo il ricorrente allegato nulla di specifico in proposito.

Diritto

RITENUTO

che:

con il primo motivo, il ricorrente lamenta la nullità della sentenza ex art. 360 c.p.c., n. 4, per violazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35-bis comma 1, lett. a) e art. 13, nonchè degli artt. 737,135 c.p.c., art. 156 c.p.c., comma 2 e dell’art. 111 Cost., comma 6.

Sostanzialmente lamenta la presenza di lacune motivazionali nel decreto del tribunale che non argomenta compiutamente in merito alle ragioni per cui il racconto del ricorrente è stato ritenuto contraddittorio e insufficiente.

Sostiene che la motivazione non si confronterebbe con la specifica vicenda del richiedente, perchè avrebbe dovuto valutare la capacità delle istituzioni del Pakistan di offrire una effettiva protezione al richiedente, e le condizioni del sistema carcerario, ed avrebbe dovuto anche valutare la situazione del Punjab (area di provenienza, profondamente instabile) in relazione alla specifica situazione del richiedente.

Muovendo dalla censura di inesistenza della motivazione argomenta in ordine alla pochezza e incoerenza della motivazione laddove ha ritenuto poco credibile il racconto del ricorrente.

Il motivo è infondato. La motivazione, lungi dall’essere meramente apparente, è coerente ed idonea a sostenere la decisione, in quanto argomenta diffusamente in ordine al convincimento del tribunale sulla scarsa credibilità del ricorrente: fa riferimento alla mancanza di ogni prova in relazione alla pendenza del procedimento penale – che, dati gli anni trascorsi dall’espatrio, egli avrebbe ben avuto tempo e modo di procurare – alla mancanza di riscontri, alla contraddittorietà tra l’esistenza di un procedimento penale per omicidio ed il fatto che il ricorrente sia espatriato, per sua stessa affermazione, legalmente, cioè che gli siano stati rilasciati i visti per l’espatrio. Quanto alla necessità di confrontarsi con la capacità delle istituzioni del Pakistan di assicurare adeguata protezione, o forse un giusto processo a chi venga ingiustamente accusato di omicidio – non è ben chiarito nel ricorso – essa cade a fronte di una valutazione legittima e idoneamente motivata di non credibilità della storia personale del ricorrente.

In nessun conto si può tenere, peraltro, la denuncia del padre della fidanzata con la quale si incolpa il ricorrente della morte della figlia, prodotta solo in questa sede dal ricorrente che dichiara di non averla potuta produrre in precedenza. Si tratta infatti di un documento inammissibile in questa sede, in quanto non rientrante nelle tipologie di documenti la cui produzione è consentita unitamente al ricorso per cassazione, previste dall’art. 372 c.p.c..

All’interno del medesimo motivo di ricorso da pag. 29 in poi, il ricorrente introduce una diversa censura, deducendo la violazione dell’art. 14, lett. c), da parte del provvedimento impugnato: deduce la violazione dei principi sottesi a tale ipotesi di protezione sussidiaria, che sono distinti da quelli sottesi alle due precedenti ipotesi perchè prescindono dalla credibilità o meno della vicenda personale narrata. Lamenta che non siano state acquisite informazioni tratte da fonti attendibili e aggiornate.

Anche questa censura è infondata: come riferisce la stessa ricorrente e COI sulle quali si fonda la decisione risalgono al 2018 per una decisione resa nel 2019: esse sono da ritenere aggiornate, a meno che non sia il ricorrente stesso a mettere in luce – e tanto non accade nel caso di specie – circostanze nuove, atte ad elevare il livello di pericolosità diffuso nella regione di provenienza che sono state evidenziate solo nel rapporto successivo. Anche sotto questo profilo, dunque, il primo motivo è infondato.

Da pag. 31 in poi, sempre all’interno del primo motivo, introduce una terza censura del tutto autonoma dalle precedenti: censura il rigetto della domanda volta al riconoscimento della protezione per motivi umanitari, lamentando che il tribunale non si sia attenuto alle regole, fissate ormai nel loro contenuto anche dalla consolidata giurisprudenza di legittimità, in base alle quali va effettuato il giudizio di comparazione per verificare la sussistenza o meno di una condizione di vulnerabilità del ricorrente suscettibile di protezione. In particolare, il giudicante non avrebbe tenuto in conto la giovane età, il lungo percorso migratorio del ricorrente (che non ricostruisce: pur dichiarando di aver lasciato il Pakistan nel 2008, nulla dice delle tappe della sua vita di migrante prima di raggiungere l’Italia), il suo percorso di integrazione in Italia (che non specifica) la sua vicenda personale (ritenuta non credibile dal giudice di merito). Sotto questo profilo, le censure, del tutto generiche, sono inammissibili.

Aggiunge che davanti alla Commissione non è stata effettuata la videoregistrazione, e che, pur essendo comparso all’udienza davanti al tribunale non è stato approfonditamente ascoltato in sede di interrogatorio libero. La censura è infondata: “nel giudizio d’impugnazione, innanzi all’autorità giudiziaria, della decisione della Commissione territoriale, ove manchi la videoregistrazione del colloquio, all’obbligo del giudice di fissare l’udienza, non consegue

automaticamente quello di procedere all’audizione del richiedente, purchè sia garantita a costui la facoltà di rendere le proprie dichiarazioni, o davanti alla Commissione territoriale o, se necessario, innanzi al Tribunale. Ne deriva che il Giudice può respingere una domanda di protezione internazionale solo se risulti manifestamente infondata sulla sola base degli elementi di prova desumibili dal fascicolo e di quelli emersi attraverso l’audizione o la videoregistrazione svoltesi nella fase amministrativa, senza che sia necessario rinnovare l’audizione dello straniero (Cass. n. 5973 del 2019). Nel caso di specie, peraltro, per affermazione dello stesso ricorrente, anche laddove fosse mancata la videoregistrazione, del ricorrente è stata disposta la comparizione ed è effettivamente comparso di conseguenza è stato messo in grado di approntare le sue difese.

Si aggiunga che, circostanza determinate, ma valorizzata dal ricorrente solo con gli ultimi motivi di ricorso, trattasi nel suo caso di domanda reiterata. A questo proposito, questa Corte ha già dichiarato che in tema di protezione internazionale, l’inammissibilità della domanda di tutela fondata sui medesimi presupposti di fatto indicati a sostegno di una precedente istanza può essere dichiarata, ai sensi del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 29, comma 1, lett. b, senza che sia necessaria la rinnovazione dell’audizione del richiedente (Cass. n. 22875 del 2020).

Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta l’omesso esame di alcuni elementi decisivi per il giudizio – ex art. 360 c.p.c., n. 5 – e nello specifico che non il tribunale abbia adeguatamente considerato il rischio per lui di subire un processo e una condanna ingiusti, l’attuale situazione socio – economico – politica del Pakistan e i risvolti della narrazione del ricorrente ai fini della protezione umanitaria.

La censura è inammissibile: i fatti, la cui considerazione il ricorrente deduce siano stata omessa sono in realtà stati considerati e valutati, con decisione non rispondente nei suoi esiti alle aspettative dei ricorrente, che pretenderebbe di rimettere in discussione in questa sede l’esito del giudizio in fatto.

Con il terzo motivo è censurata la violazione – ex 360 c.p.c., n. 3 – dell’art. 2Cost., art. 10Cost., comma 3, art. 32 Cost.; L. n. 881 del 1977, art. 11; D.Lgs. n. 25 del 2008, artt. 8,9,10,13,27,32; dell’art. 16 della Direttiva Europea 2013/32, D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 2,3,5,6,7 e 14, in relazione agli artt. 11 e 117 c.p.c.; del T.U. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 e art. 19, comma 2.

Si assume essere stato violato il dovere di cooperazione istruttoria, giacchè il Tribunale si è limitato a ritenere non credibile il ricorrente ma non avrebbe approfondito, negando fra l’altro l’audizione, che pure il ricorrente aveva richiesto, peraltro senza analizzare la situazione del Pakistan.

Si segnala inoltre l’incoerenza della motivazione, all’interno della quale prima si giudicano inattendibili le dichiarazioni del richiedente, e poi su di esse si basa la decisione.

Il motivo ripete circostanze già esposte in generale all’interno del primo motivo, affastellando profili di diversa rilevanza giuridica, ed anche una questione, quella della omessa audizione pur in mancanza del videoregistrazione del colloquio dinanzi alla Commissione, focalizzata con l’ultima censura in esso contenuta ed ivi esaminata.

E’ parimenti infondato laddove denuncia la violazione del dovere di cooperazione istruttoria. Il ricorrente è stato chiaramente ritenuto inattendibile quanto alla vicenda personale narrata, a seguito di un giudizio rispettoso dei canoni legalmente predisposti di valutazione della credibilità del dichiarante (così come formalmente descritti dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5) per non averla supportata con alcuna ancorchè parziale documentazione (neppure quanto alla effettiva pendenza di un procedimento penale, o anche solo di indagini a suo carico). Solo ora, in sede di legittimità, assume di essere in grado di produrre copia di una denuncia fatta dodici anni fa dal padre della fidanzata, la cui produzione è inammissibile in questa sede e nella quale non si enuncia neppure con

precisione che abbia fatto seguito un procedimento penale, l’adozione di misure restrittive, la formulazione di accuse precise, una condanna.

Con il quarto motivo si deduce la violazione – ex art. 360 c.p.c., n. 3 – artt. 6 e 13 Cedu, art. 47Carta di Nizza, e art. 46 della Direttiva Ue 2013/32: il ricorrente argomenta in ordine al fatto che la Cedu imponga a tutti gli Stati aderenti di garantire un rimedio effettivo a chi richieda la protezione internazionale. Inoltre, osserva che, come chiarito anche dalla Corte di giustizia, lo Stato membro è tenuto a collaborare con il richiedente qualora questi non presenti tutti i documenti necessari. Non formula però alcuna censura chiaramente identificabile al provvedimento impugnato, se non un riferimento – del tutto generico e quindi inammissibile – alla lesione del diritto ad un rimedio effettivo.

Con il quinto motivo si deduce la nullità del decreto in relazione all’art. 360 c.p.c., per violazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35-bis comma 1, lett. a) e art. 13 e degli artt. 737,135 c.p.c., art. 156 c.p.c., comma 2, nonchè dell’art. 111 Cost., comma 6, riproducendo fin qui, quanto alla rubrica, le censure del primo motivo; in subordine lamenta la violazione di norme di diritto ex art. 360 c.p.c., n. 3, in riferimento al D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 29, lett. b).

Il ricorrente segnala solo a questo punto del ricorso che la domanda di protezione internazionale era stata già da lui proposta in Germania e in Svizzera, e lamenta che il tribunale, a conoscenza di ciò, abbia qualificato la sua domanda come reiterata, esaminandola quindi solo nei limiti imposti dal D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 29, lett. b), che consente di riproporre le domande quando vengono prospettati nuovi elementi, per tali intendendosi anche elementi preesistenti che il richiedente non sia stato in grado di produrre in precedenza per causa non imputabile. Le censure, non chiaramente formulate, lamentano da un lato che, non avendo lo stesso ricorrente chiaramente indicato quale fosse il contenuto delle domande proposte all’estero, le stesse non avrebbero potuto legittimamente essere ritenute reiterate ed esaminate nei limiti della novità della domanda; sostiene poi di aver introdotto, nel giudizio italiano, un elemento nuovo rispetto ai giudizi intrapresi all’estero, ovvero la denuncia effettuata dal padre della ragazza, che però all’interno del primo motivo sostiene di aver prodotto per la prima volta solo in questa sede, nè documenta di aver prodotto in precedenza e che la stessa non sia stata considerata. Critica inoltre la nozione di nuovi elementi estesa anche ad elementi preesistenti non potuti introdurre nel giudizio in precedenza per causa non imputabile che l’onerato deve dimostrare.

I rilievi formulati sono complessivamente

inammissibili, perchè non colgono il punto della decisione. In caso di domanda reiterata, nulla cambia se la domanda la prima volta sia stata proposta sempre in Italia o, come in questo caso, in altro paese dell’Unione. Il giudizio in Italia sulla domanda reiterata sottostà ai medesimi paletti sia che la prima volta essa sia stata proposta in Italia, sia che sia stata proposta in altro Paese Europeo, quelli indicati dal D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 29, ovvero si richiede l’introduzione di nuovi elementi, in una accezione interpretativa, consolidatasi negli anni, molto ampia. Però, nel caso di specie, la domanda reiterata non è stata ritenuta in limine inammissibile per mancanza di elementi nuovi; è stata rigettata dopo un completo esame nel merito, un esame integrale delle pretese fatte valere, non influenzato o limitato nel suo svolgimento dal fatto che analoga domanda sia stata presentata in precedenza in altro paese, all’esito del quale il racconto del richiedente è stato ritenuto inattendibile e la domanda è stata rigettata. I rilievi formulati con i quali si censura la limitazione dello spettro del giudizio in considerazione della reiterazione della domanda, sono quindi inconferenti.

In via subordinata, con il sesto motivo si deduce la violazione – ex 360 n. 3 c.p.c. – dell’art. 10 Cost., comma 3, D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, T.U. n. 286 del 1998, art. 5, commi 2 e 3, art. 19, comma 2, come modificati dal D.L. n. 113 del 2018.

Il ricorrente ribadisce quanto già sostenuto nel giudizio di merito, ovvero che al caso di specie si dovesse applicare la disciplina previgente all’entrata in vigore del c.d. decreto sicurezza, D.L. n. 113 del 2018, non potendo la disciplina ivi contenuta ritenersi retroattiva, e in subordine che si dovesse ritenere la modifica effettuata con questo decreto, che fa venir meno la tutela residuale della protezione umanitaria riducendola a poche ipotesi eccezionali tipizzate, immediatamente operativa anche per le domande introdotte precedentemente, l’art. 10 Cost., dovesse applicarsi direttamente, come immediatamente precettivo, in tutti quei casi in cui (venuta meno la protezione umanitaria) non esiste una forma di protezione a livello di normazione primaria.

Il motivo, del tutto genericamente formulato, è da un verso preliminarmente inammissibile, in quanto il ricorrente non chiarisce nè la data in cui ha proposto il ricorso amministrativo alla commissione territoriale, nè la data in cui ha proposto il ricorso giudiziario al tribunale, quindi non consentirebbe neppure a questa Corte di verificare quando la domanda sia stata proposta.

Esso è comunque irrilevante, atteso che, come questa Corte ha chiarito con un intervento a Sezioni unite (Cass. n. 29459 del 2019), il diritto alla protezione umanitaria, espressione di quello costituzionale di asilo, sorge al momento dell’ingresso in Italia in

condizioni di vulnerabilità per rischio di

compromissione dei diritti umani fondamentali e la domanda volta ad ottenere il relativo permesso attrae il regime normativo applicabile. Ne consegue che la normativa introdotta con il D.L. n. 113 del 2018, convertito in L. n. 132 del 2018, nella parte in cui ha modificato la preesistente disciplina di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 e disposizioni consequenziali, non trova applicazione in relazione a domande di riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari proposte prima dell’entrata in vigore (5 ottobre 2018) della nuova legge; tali domande saranno, pertanto, scrutinate sulla base delle norme in vigore al momento della loro presentazione, ma in tale ipotesi l’accertamento della sussistenza dei presupposti per il riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari, valutata in base alle norme esistenti prima dell’entrata in vigore del D.L. n. 113 del 2018, convertito nella L. n. 132 del 2018, comporterà il rilascio del permesso di soggiorno “per casi speciali” previsto dall’art. 1, comma 9, del suddetto decreto legge.

Il ricorso va pertanto rigettato.

Il ricorso per cassazione è stato proposto in tempo posteriore al 30 gennaio 2013, e il ricorrente risulta soccombente, pertanto è gravato dall’obbligo di versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, commi 1 bis e 1 quater, se dovuto.

PQM

La Corte rigetta il ricorso.

Dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Corte di Cassazione, il 20 gennaio 2021.

Depositato in Cancelleria il 4 giugno 2021

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