Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 15571 del 21/07/2020

Cassazione civile sez. I, 21/07/2020, (ud. 07/07/2020, dep. 21/07/2020), n.15571

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE CHIARA Carlo – Presidente –

Dott. VANNUCCI Marco – Consigliere –

Dott. DI MARZIO Mauro – Consigliere –

Dott. CAIAZZO Rosario – Consigliere –

Dott. CAMPESE Eduardo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 17427/2019 r.g. proposto da:

O.S., (cod. fisc. (OMISSIS)), rappresentato e difeso,

giusta procura speciale allegata in calce al ricorso, dall’Avvocato

Rosaria Tassinari, presso il cui studio elettivamente domicilia in

Forlì, al viale G. Matteotti n. 115;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, (cod. fisc. (OMISSIS)), in persona del

Ministro pro tempore;

– intimato –

avverso la sentenza della CORTE DI APPELLO DI BOLOGNA depositata il

23/04/2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

giorno 07/07/2020 dal Consigliere Dott. Eduardo Campese.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. O.S., nativo della (OMISSIS) ((OMISSIS)), ricorre per cassazione, affidandosi a quattro motivi, contro la sentenza della Corte di appello di Bologna del 23.4.2019, dichiarativa della inammissibilità del gravame da lui proposto, con citazione del 26 aprile 2017, iscritta a ruolo il successivo maggio 2017, avverso l’ordinanza ex art. 702-bis c.p.c. e ss., resa dal tribunale di quella stessa città l’8/11 agosto 2016, che gli aveva negato il riconoscimento dello status di rifugiato, della protezione sussidiaria o di un permesso di soggiorno per motivi umanitari. Il Ministero dell’Interno è rimasto solo intimato.

1.1. In particolare, quella corte ha ritenuto l’appello inammissibile perchè proposto ben oltre il termine di trenta giorni previsto dal D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 3 ed ha specificato che detta tardività nemmeno poteva essere giustificata dalla mancata traduzione in lingua comprensibile all’appellante del provvedimento impugnato.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il primo motivo di ricorso denuncia “Violazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 10, commi 4 e 5”. Esso ascrive alla corte territoriale di non aver considerato che, in materia di protezione internazionale, le norme che prevedono la necessità di traduzione dei provvedimenti emessi nei confronti dello straniero nella prima lingua da lui indicata o, in mancanza, in una delle lingue veicolari secondo l’indicazione di preferenza dal medesimo fornita, sono di carattere imperativo, quale garanzia di pieno espletamento delle possibilità di difesa del destinatario dell’atto: la loro violazione, quindi, comporta la nullità dell’atto e giustifica la tardività dell’impugnazione, il cui termine decorre da quando la parte abbia avuto un’adeguata conoscenza della natura dell’atto e del rimedio avverso lo stesso proponibile.

1.1. Tale doglianza è infondata.

1.2. Invero, il Collegio condivide i principi recentemente sanciti da Cass. n. 23760 del 2019, secondo cui il D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 10, comma 5, non può essere interpretato nel senso di prevedere, fra le misure di garanzia a favore del richiedente la protezione internazionale, anche la traduzione in lingua nota del provvedimento giurisdizionale decisorio che definisce le singole fasi del giudizio.

1.2.1. Nella suddetta pronuncia si è chiarito, infatti, che “la disposizione citata prevede che in caso di impugnazione della decisione in sede giurisdizionale, allo straniero, durante lo svolgimento del relativo giudizio, sono assicurate le stesse garanzie di cui al presente articolo (l’art. 10). Anche a prescindere dall’argomento testuale, che riferisce la previsione all’ambito endo-procedimentale (“…durante lo svolgimento…”), di per sè non decisivo, occorre rilevare che il comma precedente (il 4) cit. articolo, dedicato appunto alla garanzia linguistica, prevede che tutte le comunicazioni concernenti il procedimento per il riconoscimento della protezione internazionale siano rese al richiedente nella prima lingua da lui indicata, o, se ciò non è possibile, in lingua inglese, francese, spagnola o araba, secondo la preferenza indicata dall’interessato. E’ inoltre previsto che in tutte le fasi del procedimento connesse alla presentazione ed all’esame della domanda, al richiedente sia garantita, se necessario, l’assistenza di un interprete della sua lingua o di altra lingua a lui comprensibile. Infine è prevista, ove necessaria, la traduzione della documentazione prodotta dal richiedente in ogni fase della procedura. La garanzia linguistica è quindi assicurata: a) per le comunicazioni, preordinate ad assicurare la partecipazione del richiedente; b) per tutte le interlocuzioni connesse alla presentazione ed all’esame della domanda, imponendo pertanto l’assistenza dell’interprete in caso di contatto diretto fra la parte ed il Giudice in modo da acquisire al processo un contributo dichiarativo informato e consapevole da parte del richiedente asilo (interrogatorio libero, spontanee dichiarazioni, rinnovo o integrazione del colloquio personale), con l’introduzione di una regola più ampia e protettiva di quella sancita in via generale dall’art. 122 c.p.c., comma 2; c) per le produzioni documentali, anche in questo caso introducendo una deroga al regime discrezionale di cui all’art. 123 c.p.c.. Il combinato disposto dell’art. 10, commi 4 e 5 non impone, quindi, la traduzione in lingua nota al richiedente asilo del provvedimento giurisdizionale con cui il giudice adito definisce il grado del giudizio avanti a lui. E ciò ben si comprende, ove si rifletta sul fatto che un pregiudizio scaturente dalla mancata traduzione in lingua nota dei provvedimenti giurisdizionali non sarebbe comunque configurabile, neppure in linea di principio. Infatti il richiedente asilo, ricorrente in sede giurisdizionale, partecipa al giudizio con il ministero e l’assistenza tecnica di un difensore abilitato, se del caso retribuito dall’Erario attraverso il sistema del patrocinio statuale, perfettamente in grado di comprendere e spiegare al proprio cliente nell’ambito della relazione difensiva (e tenuto a farlo per obbligo professionale), i contenuti, la portata e le conseguenze delle pronunce giurisdizionali che lo riguardano. E, d’altro canto, anche in linea generale, nel nostro ordinamento processuale la decisione che definisce il grado di giudizio viene comunicata, normalmente in via telematica, al difensore della parte regolarmente costituita, a cui pure deve essere indirizzata la notificazione dello stesso provvedimento al fine di provocare la decorrenza del termine “breve” per l’impugnazione ai sensi dell’art. 327 c.p.c.”.

2. L’infondatezza del primo motivo di ricorso determina l’assorbimento delle altre prospettate censure – recanti, rispettivamente: “Violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 3 e 5, per non avere la Corte di appello di Bologna applicato, nella specie, il principio dell’onere della prova attenuato così come affermato dalle SU con la sentenza n. 27310 del 2008 e per non aver valutato la credibilità del richiedente alla luce dei parametri stabiliti dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”; “Violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), per non avere la Corte d’Appello di Bologna verificato la sussistenza di una minaccia grave alla vita del cittadino straniero derivante da una situazione di violenza indiscriminata esistente nel Paese di origine così come definita nella sentenza della Corte di Giustizia C-465/07 meglio conosciuta come Elgafaj, e difetto di motivazione per non avere minimamente analizzato la situazione socio politica della (OMISSIS)”; “Violazione del D.Lgs. n. 286 del 1988, art. 5, comma 6, per non avere la Corte d’Appello di Bologna esaminato la ricorrenza dei requisiti per la protezione umanitaria, omettendo di verificare la sussistenza dell’obbligo costituzionale ed internazionale a fornire protezione in capo a persone che fuggono da Paesi in cui vi siano sconvolgimenti tali da impedire una vita senza pericoli per la propria vita ed incolumità, e, pertanto, per palese difetto di motivazione tutte riguardanti profili di merito non esaminati dalla corte distrettuale.

3. Non vi è necessità di pronuncia in ordine alle spese di questo giudizio di legittimità, essendo il Ministero dell’Interno rimasto solo intimato, dovendosi, invece, dare atto, – in assenza di ogni discrezionalità al riguardo (cfr. Cass. n. 5955 del 2014; Cass., S.U., n. 24245 del 2015; Cass., S.U., n. 15279 del 2017) e giusta quanto recentemente precisato da Cass., SU, n. 4315 del 2020 – che, stante il tenore della pronuncia adottata, “sussistono, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto”, mentre “spetterà all’amministrazione giudiziaria verificare la debenza in concreto del contributo, per la inesistenza di cause originarie o sopravvenute di esenzione dal suo pagamento”.

P.Q.M.

La Corte rigetta il primo motivo di ricorso, dichiarandone assorbiti gli altri.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, giusta lo stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sezione Prima civile della Corte Suprema di cassazione, il 7 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 21 luglio 2020

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