Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 1557 del 27/01/2014


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Civile Sent. Sez. 5 Num. 1557 Anno 2014
Presidente: MERONE ANTONIO
Relatore: TERRUSI FRANCESCO

SENTENZA

sul ricorso 24637-2008 proposto da:
RIPONI ORAZIO nq di legale rappresentante della
Soc.tà RIPONI, RIPONI F.LLI DI ORAZIO RIPONI & C. SNC
in persona del legale rappresentante pro tempore,
elettivamente domiciliati in ROMA VIA F. DENZA 50-A,
presso lo studio dell’avvocato LAURENTI LUCIO, che li
rappresenta e difende unitamente all’avvocato BARBARA
SAVORELLI giusta delega a margine;
– ricorrenti contro

AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro
tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI

Data pubblicazione: 27/01/2014

PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO
STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;
– controricorrente nonchè contro

AGENZIA DELLE ENTRATE UFFICIO DI MILANO 2;

avverso la sentenza n. 76/2007 della COMM.TRIB.REG.
di MILANO, depositata il 17/07/2007;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 21/11/2013 dal Consigliere Dott.
FRANCESCO TERRUSI;
udito per il ricorrente l’Avvocato LAURENTI NICOLA
delega Avvocato LAURENTI LUCIO che ha chiesto
l’accoglimento;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. SERGIO DEL CORE che ha concluso per il
rigetto del ricorso.

– intimato –

29637-08

Svolgimento del processo
Con sentenza in data 17-7-2007 la commissione tributaria
regionale della Lombardia confermava la decisione con la
quale la commissione tributaria provinciale di Milano
aveva respinto un ricorso della Riponi f.11i s.n.c. e del
I

contro un avviso di

socio in proprio Orazio Riponi

rettifica e di liquidazione della dichiarazione Invim
decennale relativa a un capannone industriale.
La rettifica aveva avuto a oggetto il valore finale del
bene, dichiarato in lire 728.192.500 e accertato in lire
1.710.000.000.
Per quanto ancora rileva, il giudice d’appello motivava
affermando che nessun legittimo interesse del contribuente
era stato leso nella fase procedimentale dell’accertamento
di maggior valore, in relazione alla relativa sequenza di
atti – a rilevanza soltanto interna – prevista dall’art.
22 del d.p.r. n. 643 del 1972, giacché l’amministrazione
non di tali atti doveva dar conto al contribuente, sebbene
dei soli criteri valutativi seguiti ai fini della maggior
pretesa. Il che era avvenuto, avendo l’ufficio infine
enunciato, in sintesi, ma con sufficiente precisione, i
parametri estimativi implicati, vale a dire tutte le
caratteristiche volte a denotare il valore del bene in
esame, senza che da parte dei contribuenti fossero stati
documentati elementi contrari.

I

La società e il socio hanno proposto ricorso per
cassazione, deducendo quattro motivi illustrati anche da
memoria.
L’amministrazione ha replicato con controricorso.
Motivi della decisione
I. – Col primo mezzo, deducendo violazione e falsa

applicazione di norme di diritto (art. 1 e 21-octies della
l. n. 241-90 e 22 del d.p.r. n. 643-72), la parte
ricorrente sostiene che la commissione tributaria
regionale avrebbe errato nell’affermare che l’omessa
trasmissione della dichiarazione Invim al comune, da parte
dell’amministrazione finanziaria, non aveva leso alcun
interesse legittimo del contribuente al rispetto dell’art.
22 del d.p.r. n. 643-72, senza rilevare che in tal senso
l’atto finale era stato invece emanato in violazione delle
regole procedimentali, e con eccesso di potere, per
difetto di istruttoria.
– Col secondo mezzo si deduce l’omessa motivazione
circa il fatto controverso costituito dalla non conformità
dell’iter, in concreto seguito dall’amministrazione
finanziaria, a quanto indicato dalla norma citata. La
commissione tributaria regionale avrebbe omesso, in
particolare, di motivare in ordine alla natura vincolata o
discrezionale dell’atto di rettifica, e alla natura
eventualmente dovuta del suo contenuto ai sensi dell’art.
21-octies della 1. n. 241-90.
III. – I mentovati due motivi, tra loro connessi e
suscettibili di unitario esame, sono infondati.

2

L’art. 22 del d.p.r. n. 643-72, per le fattispecie ratione
temporis

soggette al testo, disciplina la partecipazione

del comune all’accertamento. Lo fa prevedendo che
“l’ufficio del registro entro trenta giorni dal
ricevimento delle dichiarazioni di cui all’art. 18, primo
e terzo comma relative ad immobili alienati a titolo

oneroso o acquistati a titolo gratuito da persone fisiche,
deve trasmettere ai comuni nei cui territori sono situati
i beni le copie delle dichiarazioni stesse. Nei novanta
giorni successivi al ricevimento della copia degli atti di
cui al comma precedente il comune interessato può
formulare motivate proposte di rettifica degli elementi
compresi nelle dichiarazioni che comportino la
liquidazione di una maggiore imposta, salvo che si tratti
di valori già definitivi a fini delle imposte di registro
o di successione. Le proposte di rettifica non condivise
dall’ufficio devono essere trasmesse alla commissione di
cui al comma successivo, operante presso ciascun ufficio,
la quale determina i singoli elementi controversi. Se la
commissione non delibera entro quarantacinque giorni dalla
trasmissione della proposta, l’ufficio procede
all’accertamento, sentito l’ufficio tecnico erariale nella
cui circoscrizione sono situati i singoli immobili”.
Invero presso ogni ufficio del registro è all’uopo
costituita la commissione per l’esame delle proposte del
comune. E a essa si applicano le disposizioni dell’art. 45
del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre
1973, n. 600.

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Ne consegue che la norma riguarda il rapporto tra l’erario
e il comune, cui del resto l’ufficio deve comunicare gli
accertamenti e le decisioni dei vari gradi del
contenzioso. Sicché la sua inosservanza non può essere
fatta valere dal contribuente e non ingenera alcuna
invalidità dell’atto impositivo.

IV. – Col terzo motivo si lamenta la violazione e la falsa
applicazione degli artt. 2697, 2727 e 2729 c.c., in quanto
la commissione tributaria regionale avrebbe respinto
l’appello basandosi sull’assunto che spettava ai
ricorrenti fornire la prova della non congruità del valore
finale accertato dall’agenzia delle entrate, mentre la
corretta applicazione dei criteri distributivi dell’onere
della prova avrebbe dovuto indurre alla contraria
affermazione che era semmai l’amministrazione gravata di
dimostrare la congruità del valore stesso.
Il motivo è infondato quanto al presupposto.
La commissione non ha affatto reso la decisione – neppure
implicitamente – sulla base di un diverso criterio di
ripartizione dell’onere della prova rispetto a quello
nella specie eccepito dai ricorrenti.
La commissione ha invece accertato che nell’atto
impositivo erano stati indicati i criteri estimativi
intesi a denotare il valore effettivo del bene in
questione, quali in particolare la collocazione periferica
della costruzione e la sua non recente epoca, nonché il
grado normale di conservazione, e ha ritenuto di
condividere il riferimento estimativo ai valori medi

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impiegati dall’amministrazione, in quanto ricavati dal
bollettino c.a.a.m., in difetto di elementi contrari;
giacché ha affermato che i contribuenti avevano omesso a
loro volta di dimostrare, eventualmente fornendo altri
mezzi di comparazione conferenti, che la pubblicazione
suddetta forniva dati diversi e incompatibili con quelli

ricavati dall’ufficio. Una simile condizione, in
particolare, secondo la commissione tributaria, non
potevasi dire soddisfatta dalla produzione della stima
asseverata di parte cui i contribuenti avevano fatto
rinvio, perché questa aveva indicato “un differente valore
medio di mercato di immobili consimili compravenduti in
zona nel 1992, ma senza allegare il benché minimo elemento
storico-documentale di supporto o di raffronto”.
In tal modo il giudice d’appello ha fatto buon governo del
criterio di ripartizione dell’onere della prova.
Difatti

e ciò è opportuno evidenziare a scanso

dell’equivoco involto dall’impugnante – l’onere della
prova, incombente sull’ufficio, può essere assolto in base
a elementi presuntivi del maggior valore. E questi
elementi, come sopra desunti, sono stati ritenuti, nel
concreto, convincenti e plausibili.
Il riferimento alla mancanza di elementi contrari, che il
contribuente aveva l’onere di allegare e di documentare,
non costituisce esplicazione di un diverso criterio di
riparto dell’onere probatorio, e non è neppure minimamente
associabile alla regola afferente dettata dall’art. 2697
c.c. Esso sta solo a significare che, ove l’ufficio abbia

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fornito – come nella specie – la prova del maggior valore
del bene sulla base di elementi ragionevoli e plausibili
(quindi in base a presunzioni semplici), il contribuente,
per smentire la concludenza del ragionamento presuntivo,
a sua volta tenuto ad allargare l’area dei fatti
rilevanti; e i in quel caso il giudice deve tenerne conto

nella motivazione. Ma se ciò non accade, vale a dire se
nessun concreto elemento contrario risulta infine in tal
senso offerto, il fatto da provare (il maggior valore,
appunto) resta definibile in base agli elementi forniti
dall’ufficio.
In sostanza, quanto la commissione tributaria regionale ha
giustamente sottolineato essere a carico del contribuente
nel caso di specie nulla aveva da spartire col concetto di
inversione dell’onere della prova. Nel senso che non si
trattava del meccanismo di ripartizione di cui all’art.
2697 c.c., sebbene dell’onere di contrasto della prova in
concreto offerta dalla parte processuale onerata. Che è
fisiologico nel processo, essendo un effetto della normale
dialettica tra elementi di prova, tutta interna al
giudizio di fatto, da svolgersi secondo canoni di
ragionevolezza.
V. – Col quarto motivo, deducendo un’omessa motivazione su
fatto controverso e decisivo, i ricorrenti lamentano che,
nell’ottica sopra considerata, posto che era stata
contestata, in appello, la congruità della stima contenuta
nell’avviso di rettifica, in base a una perizia giurata
attestante un valore diverso, compatibile col dichiarato,

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la commissione regionale non aveva motivato in merito agli
elementi forniti a sostegno della pretesa creditoria
dell’amministrazione. Sicché – questa la tesi – l’agenzia
aveva mancato di soddisfare l’onere della prova gravante a
suo carico; e ciò la commissione avrebbe dovuto verificare

Il motivo è inammissibile in quanto si risolve in un
sindacato di fatto sull’esito della valutazione
probatoria, che è di esclusiva competenza del giudice di
merito.
Difatti i ricorrenti omettono di indicare su quale
specifico fatto controverso – decisivo per il giudizio la sentenza avrebbe mancato di motivare.
VI. – Il ricorso, conclusivamente, è rigettato.
Spese alla soccombenza.
p.q.m.
La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti, in
solido, alle spese processuali, che liquida in euro
12.000,00 per compensi, oltre le spese prenotate a debito.
Deciso in Roma, nella camera di consiglio della quinta

nel contesto della valutazione a lei rimessa.

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