Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 1555 del 23/01/2020

Cassazione civile sez. lav., 23/01/2020, (ud. 17/01/2019, dep. 23/01/2020), n.1555

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NOBILE Vittorio – Presidente –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –

Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere –

Dott. PAGETTA Antonella – Consigliere –

Dott. LEO Giuseppina – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 18392/2015 proposto da:

C.A., domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso LA

CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e

difeso dall’avvocato SERGIO CONSOLI;

– ricorrente –

contro

R.D.V., in proprio e nella qualità di erede di

L.E. e L.G., nella qualità di erede di

L.E., elettivamente domiciliate in ROMA, VIALE GIULIO CESARE

21/23, presso lo studio dell’avvocato VALERIO SCELFO, rappresentate

e difese dall’avvocato GIUSEPPE VASTA;

I.N.A.I.L. – ISTITUTO NAZIONALE PER L’ASSICURAZIONE CONTRO GLI

INFORTUNI SUL LAVORO, C.F. (OMISSIS), in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA

IV NOVEMBRE 144, presso lo studio degli avvocati LUCIANA ROMEO,

LUCIA PUGLISI, che lo rappresentano e difendo;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 438/2015 della CORTE D’APPELLO di CATANIA,

depositata il 15/04/2015 r.g.n. 356/2009.

Fatto

RILEVATO

che la Corte territoriale di Catania, con sentenza depositata il 15.4.2015, riformando integralmente la pronunzia del Tribunale della stessa sede n. 3210/2008, ha rigettato la domanda di C.A., nei confronti di L.E. e R.D., diretta al riconoscimento della natura subordinata del rapporto di lavoro intercorso tra le parti dal maggio 1998 al 17.3.2001, al pagamento delle relative differenze retributive pretesamente spettanti secondo le previsioni del CCNL lavoratori domestici, nonchè l’indennità sostitutiva delle ferie mai godute, la tredicesima mensilità ed il TFR, ed altresì quella, nei confronti dell’INAIL, volta ad ottenere la costituzione della rendita a seguito dell’infortunio sul lavoro verificatosi “mentre prestava la propria opera come giardiniere presso la villa del L. e della R.”;

che per la cassazione della sentenza ricorre il C. articolando un motivo, cui resistono con controricorsi R.D., in proprio e quale erede di L.E. (deceduto nelle more del giudizio), e L.G., quale erede di quest’ultimo, nonchè L’INPS;

che sono state depositate memorie nell’interesse del lavoratore; che il PG nonha formulato richieste.

Diritto

CONSIDERATO

che, con l’unico motivo di ricorso, si deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 2094 c.c., in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 e si deduce che la Corte di merito non avrebbe valutato gli elementi c.d. sussidiari o complementari della subordinazione, commettendo, in tal modo, un errore di qualificazione del rapporto di cui si tratta, al quale, a parere del ricorrente, si sarebbe dovuto riconoscere, contrariamente alle conclusioni cui è pervenuta la Corte territoriale, il connotato della subordinazione;

che il motivo non è fondato; ed invero, poichè i giudici di seconda istanza hanno preso in considerazione gli elementi che connotano la subordinazione e, dopo avere vagliato le risultanze istruttorie, sono pervenuti, attraverso un percorso motivazionale del tutto coerente, ad escluderne la sussistenza con riferimento alla fattispecie. Al riguardo, è da premettere che il caso all’esame ripropone la vexata quaestio della distinzione tra rapporto di lavoro autonomo e rapporto di lavoro subordinato in una fattispecie che, per alcuni versi, presenta dei connotati peculiari. Deve, del resto, prendersi atto che oggi i due cennati tipi di rapporto non compaiono che raramente nelle loro forme e prospettazioni “primordiali” e più semplici, in quanto gli aspetti molteplici di una vita quotidiana e di una realtà sociale in continuo sviluppo e le diuturne sollecitazioni che ne promanano hanno insinuato in ognuno di essi elementi per così dire perturbatori che appannano, turbano, appunto, la primigenia simplicitas del “tipo legale” e fanno dei medesimi, non di rado, qualcosa di ibrido e, comunque, di difficilmente definibile.

Per cui la qualificazione sub specie di locatio operis o locatio operarum e la sua sussunzione sotto l’uno o l’altro nomen iuris diventa più delicata e richiede una più approfondita opera di accertamento della realtà fattuale e di affinamento di quei momenti che la teoria ermeneutica caratterizza come subtilitas explicandi e, soprattutto, come subtilitas applicandi.

Soccorre, peraltro, in questa actio finium regundorum tra lavoro autonomo e subordinato l’insegnamento della giurisprudenza che, intervenendo con molta consapevolezza sul tema, ha dato alla dibattuta questione una soluzione che può, nei principi, ormai dirsi consolidata. E’ noto, difatti, che, secondo il richiamato e consolidato insegnamento della giurisprudenza di questa Corte, l’elemento essenziale di differenziazione tra lavoro autonomo e lavoro subordinato consiste nel vincolo di soggezione del lavoratore al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro, da ricercare in base ad un accertamento esclusivamente compiuto sulle concrete modalità di svolgimento della prestazione lavorativa. In particolare, mentre la subordinazione implica l’inserimento del lavoratore nella organizzazione imprenditoriale del datore di lavoro mediante la messa a disposizione, in suo favore, delle proprie energie lavorative (operae) ed il contestuale assoggettamento al potere direttivo di costui, nel lavoro autonomo l’oggetto della prestazione è costituito dal risultato dell’attività (opus): ex multis, e già da epoca non recente, Cass. nn. 12926/1999; 5464/1997; 2690/1994; 4770/2003; 5645/2009, secondo cui, ai fini della qualificazione del rapporto di lavoro come subordinato oppure autonomo, il primario parametro distintivo della subordinazione, intesa come assoggettamento del lavoratore al potere organizzativo del datore di lavoro, deve essere accertato o escluso mediante il ricorso agli elementi che il giudice deve concretamente individuare dando prevalenza ai dati fattuali emergenti dalle modalità di svolgimento del rapporto (cfr. pure, tra le molte, Cass. nn. 1717/2009, 1153/2013). In subordine, l’elemento tipico che contraddistingue il rapporto di lavoro subordinato è costituito dalla subordinazione, intesa, come innanzi detto, quale disponibilità del prestatore nei confronti del datore di lavoro, con assoggettamento alle direttive dallo stesso impartite circa le modalità di esecuzione dell’attività lavorativa; mentre, è stato pure precisato, altri elementi – come l’assenza del rischio economico, il luogo della prestazione, la forma della retribuzione e la stessa collaborazione – possono avere solo valore indicativo e non determinante (v. Cass. n. 7171/2003), costituendo quegli elementi, ex se, solo fattori che, seppur rilevanti nella ricostruzione del rapporto, possono in astratto conciliarsi sia con l’una che con l’altra qualificazione del rapporto stesso (fra le altre – e già da epoca risalente – Cass. nn. 7796/1993; 4131/1984); ciò precisato, è da aggiungere che, anche in ordine alla questione relativa alla qualificazione del rapporto contrattualmente operata, sovviene l’insegnamento della giurisprudenza di legittimità. Alla cui stregua, onde pervenire alla identificazione della natura del rapporto come autonomo o subordinato, non si può prescindere dalla ricerca della volontà delle parti, dovendosi tra l’altro tener conto del relativo reciproco affidamento e di quanto dalle stesse voluto nell’esercizio della loro autonomia contrattuale: pertanto, quando i contraenti abbiano dichiarato di voler escludere l’elemento della subordinazione, specie nei casi caratterizzati dalla presenza di elementi compatibili sia con l’uno che con l’altro tipo di prestazione d’opera, è possibile addivenire ad una diversa qualificazione solo ove si dimostri che, in concreto, l’elemento della subordinazione si sia di fatto realizzato nello svolgimento del rapporto medesimo (v., fra le molte, e già da epoca meno recente, Cass. nn. 4220/1991; 12926/1999). Il nomen iuris eventualmente assegnato dalle parti al contratto non è quindi vincolante per il giudice ed è comunque sempre superabile in presenza di effettive, univoche, diverse modalità di adempimento della prestazione (Cass. n. 812/1993); al proposito, la Corte di legittimità ha avuto, altresì, modo di ribadire che, ai fini della individuazione della c.d. natura giuridica del rapporto, il primario parametro distintivo della subordinazione deve essere necessariamente accertato o escluso mediante il ricorso ad elementi sussidiari che il giudice deve individuare in concreto, dando prevalenza ai dati fattuali emergenti dall’effettivo svolgimento del rapporto, essendo il comportamento delle parti posteriore alla conclusione del contratto elemento necessario non solo ai fini della sua interpretazione (ai sensi dell’art. 1362 c.c., comma 2), ma anche ai fini dell’accertamento di una nuova e diversa volontà eventualmente intervenuta nel corso dell’attuazione del rapporto e diretta a modificare singole sue clausole e talora la stessa natura del rapporto lavorativo inizialmente prevista, da autonoma a subordinata; con la conseguenza che, in caso di contrasto fra i dati formali iniziali di individuazione della natura del rapporto e quelli di fatto emergenti dal suo concreto svolgimento, a questi ultimi deve darsi necessariamente rilievo prevalente nell’ambito di una richiesta di tutela formulata tra le parti del contratto (Cass. nn. 4770/2003; 5960/1999). Del resto, come è stato osservato, il ricorso al dato della concretezza e della effettività appare condivisibile anche sotto altro angolo visuale, ossia in considerazione della posizione debole di uno dei contraenti, che potrebbe essere indotto ad accettare una qualifica del rapporto diversa da quella reale pur di garantirsi un posto di lavoro. Più di recente, con la sentenza n. 7024/2015, questa Corte ha ribadito che gli indici di subordinazione sono dati dalla retribuzione fissa mensile in relazione sinallagmatica con la prestazione lavorativa; l’orario di lavoro fisso e continuativo; la continuità della prestazione in funzione di collegamento tecnico organizzativo e produttivo con le esigenze aziendali; il vincolo di soggezione personale del lavoratore al potere organizzativo, direttivo e disciplinare del datore di lavoro, con conseguente limitazione della sua autonomia; l’inserimento nell’organizzazione aziendale. E sul lavoratore che intenda rivendicare in giudizio l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato grava l’onere di fornire gli elementi di fatto corrispondenti alla fattispecie astratta invocata (cfr., tra le molte, Cass. n. 11937/2009);

che, tutto ciò premesso, deve osservarsi che, nella fattispecie, la Corte di merito ha tenuto conto che il lavoratore non ha fornito la prova relativa al requisito della eterodirezione; ha esaminato tutti gli elementi qualificanti la subordinazione, quali enunciati dalla Corte di legittimità, pervenendo (come innanzi già sottolineato) – attraverso la delibazione dei punti di emersione probatoria ed alla luce dei richiamati, costanti insegnamenti giurisprudenziali – con un iter motivazionale del tutto coerente, ad escluderne la sussistenza con riferimento alla fattispecie, dando atto (v., in particolare, pagg. 6 e 7 della sentenza impugnata) che, “dall’istruttoria espletata in primo grado, non emerge che il C. osservasse un orario fisso e sempre uguale, anzi, dalle stesse dichiarazioni dell’interessato (rese all’udienza del 12.7.2005) emerge che l’incidente, prospettato quale infortunio sul lavoro, si è verificato intorno alle 8.00 di un giorno in cui il C. era in ferie dall’altro lavoro che espletava alle dipendenze di una ditta di pulizie, cioè in un orario di lavoro diverso da quelli che si assumono osservati continuativamente; ciò che denota quella libertà di organizzazione addotta dai presunti datori di lavoro a favore dell’autonomia del rapporto. Nè sono emersi altri elementi a supporto della subordinazione, atteso che nessuno riferisce di direttive impartite giornalmente, o di controllo della presenza o meno nel giardino del C. e del lavoro svolto giornalmente. Le modalità di espletamento del rapporto, per cui il C. decideva se, quando e con quali tempi occuparsi della cura del giardino dei proprietari della villa, fanno propendere per un’obbligazione di risultato, piuttosto che di mezzi, e tale prospettazione viene avvalorata dal fatto che il compenso mensile fosse sempre uguale, a prescindere dal numero di ore lavorate nel mese”;

che, per tutto quanto esposto, il ricorso va rigettato;

che le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza;

che, avuto riguardo all’esito del giudizio ed alla data di proposizione del ricorso, sussistono i presupposti di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.

PQM

La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate, in favore di R.D. e L.G., in Euro 3.500,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, ed in favore dell’INAIL, in Euro 3.500,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale, il 17 gennaio 2019.

Depositato in Cancelleria il 23 gennaio 2020

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