Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 15549 del 21/07/2020

Cassazione civile sez. I, 21/07/2020, (ud. 03/03/2020, dep. 21/07/2020), n.15549

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE CHIARA Carlo – Presidente –

Dott. DI MARZIO Mauro – rel. Consigliere –

Dott. CAIAZZO Rosario – Consigliere –

Dott. SCALIA Laura – Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 2937/2019 proposto da:

A.H., elettivamente domiciliato in Roma presso la Corte di

cassazione, difeso dall’avvocato Denti Roberto;

– ricorrente –

contro

Ministero Dell’interno, (OMISSIS), elettivamente domiciliato in Roma

Via Dei Portoghesi 12 Avvocatura Generale dello Stato che lo

rappresenta e difende per legge;

– controricorrente –

avverso il decreto del TRIBUNALE di MILANO, depositata il 05/12/2018;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

03/03/2020 da Dott. DI MARZIO MAURO.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. – A.H. ricorre per due mezzi, nei confronti del Ministero dell’interno, contro il Decreto del 5 dicembre 2018 con cui il Tribunale di Milano ha respinto il ricorso avverso diniego, da parte della Commissione territoriale competente, della sua domanda di protezione internazionale o umanitaria.

2. – Il Ministero dell’interno resiste con controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – Il primo mezzo è svolto sotto la rubrica: “Violazione e/o falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14”, ma, in realtà, censura il decreto impugnato nella parte in cui ha ritenuto le dichiarazioni del richiedente non credibili, lamentando, in particolare, che il Tribunale abbia ritenuto inattendibili i documenti da lui prodotti, mentre avrebbe dovuto “interrogare direttamente le autorità del Bangladesh. In tal modo il tribunale avrebbe potuto fugare ogni dubbio in merito appunto alla genuinità o meno delle produzioni documentali, relativi all’aggressione descritta”, ed aggiungendo che nessuna contraddizione emergerebbe tra le varie versioni di detto racconto dinanzi alla Commissione territoriale e poi al giudice, asserzione, questa, indi sviluppata da pagina 10 a pagina 13 del ricorso. Dopodichè si aggiunge che la valutazione di non credibilità non rispetterebbe i parametri in proposito dettati D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5.

Il secondo mezzo denuncia violazione e/o, ex art. 360 c.p.c., n. 3, D.Lgs. n. 286 del 1998, artt. 5 e 19. Viene contrastata l’affermazione del tribunale secondo cui il ricorrente avrebbe solo affermato, ma non documentato la sua condizione lavorativa. Dopodichè si aggiunge che il Tribunale, a fronte della totale integrazione e radicamento in Italia del ricorrente, non avrebbe effettuato la nota valutazione comparativa prevista dalla Giurisprudenza di questa Corte.

2. – Il ricorso è inammissibile.

2.1. – E’ inammissibile il primo motivo.

In effetti, il provvedimento impugnato non è fondato soltanto sulla disamina dei documenti prodotti dal richiedente e ritenuti inattendibili, ma, prima ancora, e con assai doviziosa ed approfondita motivazione, sulla non credibilità della sua narrazione, sinteticamente riassumibile in ciò, che il fidanzato di una delle giovani sorelle l’avrebbe messa incinta e poi ripudiata, inducendola ad impiccarsi, sicchè egli, per vendicarla, gli avrebbe tagliato (cioè integralmente reciso di netto) non si sa bene se le gambe o i piedi: al che la vittima sarebbe nondimeno sopravvissuta.

Il Tribunale ha in proposito messo in evidenza le plurime incongruenze del racconto, ripetuto con significative variazioni per due volte dinanzi alla Commissione e poi nuovamente in sede giudiziale, aggiungendo che il richiedente neppure aveva saputo riferire l’età delle sorelle: motivazione, questa, di per sè sufficiente a sostenere la motivazione del provvedimento impugnato.

Quanto alla asserita violazione dei parametri normativamente dettati in punto di valutazione della credibilità del richiedente, avuto riguardo alla mancata richiesta di informazioni in Bangladesh, è evidente che il decreto impugnato è pienamente rispettoso della previsione, dettata dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, che impone di considerare credibili le dichiarazioni coerenti e plausibili, che non sono in contraddizione con le informazioni generali e specifiche pertinenti al caso – beninteso, ove le dichiarazioni siano coerenti e plausibili, giacchè non avrebbe alcun senso pretendere che il Tribunale debba acquisire informazioni per verificare dichiarazioni non coerenti e non plausibili -, informazioni che, dunque, il Tribunale, a fronte di un racconto ritenuto del tutto implausibile, neppure aveva il dovere di acquisire.

In definitiva, è del tutto palese che il motivo è estraneo all’ambito della violazione di legge, giacchè non attiene al significato ed alla portata applicativa della disposizione richiamata in rubrica (e neppure della norma che pone i parametri di valutazione della credibilità), ma mira a mettere in discussione la sufficienza, sul piano logico, della motivazione fornita dal Tribunale (che in buona sostanza avrebbe sottovalutato le difficoltà espressive del richiedente), viceversa indubbiamente eccedente la soglia del minino costituzionale (Cass., Sez. Un., 7 aprile 2014, n. 8053), e dunque insindacabile in questa sede.

C’è da aggiungere infine che la non credibilità del richiedente non esclude l’accoglimento della domanda di protezione sussidiaria sotto l’aspetto del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), (altra cosa è se faccia o no venir meno il dovere di cooperazione istruttoria), norma nel suo complesso richiamata nella rubrica del motivo: e, però, non c’è poi in esso alcun riferimento all’esistenza, nella zona di provenienza del richiedente, di una situazione di violenza indiscriminata, situazione che peraltro il Tribunale ha escluso con il debito richiamo alle fonti. Sicchè detto aspetto è fuori del dibattito.

2.2. – E’ inammissibile il secondo motivo.

A parte il fatto che la mancata considerazione, per una sostanziale svista, del documento comprovante lo svolgimento di attività lavorativa, che il ricorrente ha inserito nel corpo del ricorso allegando di averlo ritualmente prodotto in fase di merito, costituirebbe errore revocatorio, non suscettibile di essere fatto valere con il ricorso per cassazione, giacchè l’art. 360 c.p.c., non menziona detto vizio, occorre sottolineare che (indipendentemente dal documento) il Tribunale ha preso espressamente in considerazione il fatto, osservando per un verso che lo svolgimento di attività lavorativa non è di per sè sufficiente a fondare il radicamento in termini di vita privata-familiare, e, per altro verso, che A.H. non manifesta tratti di vulnerabilità, ben potendo svolgere attività lavorativa nel suo paese, ove in effetti egli stesso aveva riferito di aver già lavorato, tanto più che la complessiva non credibilità del richiedente non consentiva neppure di affermare che la decisione di uscire dal suo Paese fosse stata determinata dall’esigenza di sottrarsi ad una situazione di grave violazione individuale dei diritti umani, nè da una situazione politico-economica molto grave con effetti di impoverimento radicale riguardante la carenza di beni di prima necessità, secondo il principio affermato da Cass. n. 4455 del 2018 e poi sostanzialmente ribadito da Cass., Sez. Un., 13 novembre 2019, n. 29460.

Sicchè la valutazione comparativa richiesta dalle menzionate decisioni di questa Corte è stata in effetti compiuta, ed il motivo mira ancora una volta a ribaltarla.

3. – Le spese seguono la soccombenza. Sussistono i presupposti processuali per il raddoppio del contributo unificato se dovuto.

P.Q.M.

dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al rimborso, in favore del controricorrente, delle spese sostenute per questo giudizio di legittimità, liquidate in complessivi Euro 2.100,00, oltre le spese prenotate a debito. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dichiara che sussistono i presupposti per il versamento, a carico della parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 3 marzo 2020.

Depositato in Cancelleria il 21 luglio 2020

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