Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 15538 del 21/07/2020

Cassazione civile sez. trib., 21/07/2020, (ud. 11/02/2020, dep. 21/07/2020), n.15538

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CRUCITTI Roberta – Presidente –

Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – Consigliere –

Dott. CONDELLO Pasqualina A.P. – Consigliere –

Dott. FRACANZANI Marcello M. – Consigliere –

Dott. GILOTTA Bruno – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 24537/2013, promosso da:

Agenzia delle Entrate, in persona del direttore pro tempore,

rappresentata dall’Avvocatura Generale dello Stato, con domicilio

legale in Roma, via dei Portoghesi, n. 12, presso l’Avvocatura

Generale dello Stato;

– ricorrente –

contro

L.G.F.;

– intimato –

per la cassazione della sentenza 78/36/13 del 10 aprile 2013 della

Commissione tributaria regionale per il Piemonte.

Fatto

RILEVATO

CHE:

Da indagini bancarie del Nucleo di polizia tributaria di Novara emerse che L.G.F., esercente la vendita di prodotti di monopolio con annesso bar, nel 2005 aveva eseguito versamenti maggiori dei ricavi dichiarati, per una differenza non giustificata di Euro 204.820,24.

Sul base del relativo P.V.C. la Direzione Provinciale dell’Agenzia delle Entrate di Novara notificò l’avviso di accertamento n. (OMISSIS) con il quale contestò, ai fini i.r.p.e.f. e i.r.a.p., ricavi non dichiarati per Euro 204.820,24, e ai fini i.v.a., una maggiore imposta per Euro 20.912,00.

L’accertamento, impugnato dal contribuente, fu annullato dalla Commissione tributaria provinciale di Novara, che ritenne che il contribuente avesse giustificato versamenti in contanti per circa Euro 500.000,00, provenienti dalle vendite dei prodotti di monopolio e dagli incassi del bar.

Questa motivazione è stata confermata dalla Commissione tributaria regionale per il Piemonte con la sentenza sopra indicata.

Ricorre per la cassazione di questa sentenza, per tre motivi, l’Agenzia delle entrate.

Per la trattazione è stata fissata l’adunanza in camera di consiglio dell’11 febbraio 2020, ai sensi dell’art. 375 c.p.c., u.c., e dell’art. 380 bis 1 c.p.c., il primo come modificato ed il secondo introdotto dal D.L. n. 168 del 2016, conv. in L. n. 197 del 2016.

Diritto

CONSIDERATO

CHE:

1 – Con il primo motivo la ricorrente denuncia “omessa od insufficiente motivazione, ovvero omesso esame su fatto discusso e decisivo (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) in relazione all’indisponibilità della contabilità del contribuente”.

Spiega che l’appello contro la sentenza di primo grado si era fondato sull’assenza di qualunque documentazione contabile, oltre a quella già presa in considerazione dalla Guardia di finanza, che giustificasse i versamenti bancari contestati. Nè in sede amministrativa nè in sede contenziosa il contribuente, facendosi schermo della contabilità semplificata, aveva prodotto documenti contabili che dimostrassero il versamento per contanti di incassi per 500.000 Euro, come fiduciosamente ritenuto dei giudici di primo grado. La sentenza della Commissione tributaria regionale aveva ripetuto quest’errore, affermando che nel 2005, i ricavi del contribuente, per quanto riguarda il genere di monopolio, ammontavano a Euro 443.330,40, mentre nello stesso esercizio quelli derivanti dall’attività di bar erano di Euro 56.170; e poichè il contribuente in quello stesso anno aveva versato per contanti circa Euro 500.000, non c’era motivo per ritenere che egli avesse avere avuto ricavi non dichiarati.

Queste affermazioni, sostiene la ricorrente, erano del tutto prive di fondamento probatorio.

Con il secondo motivo la ricorrente denuncia “omessa od insufficiente motivazione, ovvero omesso esame su fatti discussi e decisivi (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) in relazione alle ulteriori “anomalie” evidenziate dall’ufficio appellante a confutazione della corrispondenza tra ricavi e versamenti”.

Spiega che l’assunto del contribuente circa una logica corrispondenza fra incassi e versamenti in conto corrente urtava contro il fatto che in molti casi i versamenti giornalieri erano stati multipli, a dimostrazione che non tutti i versamenti fossero riferibili con certezza agli incassi dichiarati e che tutta la gestione aziendale del contribuente era basata su un amplissimo uso del denaro contante; con il fatto che per certi periodi non risultavano effettuati versamenti o risultavano versamenti di esiguo importo; e con il fatto che erano risultate scarse operazione di prelievo o di pagamento tramite POS, a dimostrazione del fatto che facesse fronte alle esigenze quotidiane con risorse liquide.

Di queste anomalie nè la Commissione tributaria regionale e la Commissione tributaria provinciale avevano tenuto alcun conto.

Con il terzo motivo l’agenzia “denuncia violazione o falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, e dell’art. 2697 c.c., anche nel relativo combinato disposto, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”, avendo la Commissione tributaria regionale ignorato il principio, consolidato in giurisprudenza, secondo il quale i dati e gli elementi tratti dalle indagini bancarie sono posti a base delle rettifiche e degli accertamenti se il contribuente non dimostra che ne ha tenuto conto per la determinazione del reddito soggetto ad imposta o che non hanno rilevanza allo stesso fine.

Ribadisce che il contribuente aveva giustificato soltanto una parte dei versamenti, senza riuscire a fornire alcuna giustificazione documentale e specifica di quelli contestati.

2 – I motivi, che riguardano tutti e tre il valore probatorio dei risultati delle indagini bancarie, segnatamente, in questo caso, dei versamenti in conto corrente, devono essere trattati unitariamente.

L’accertamento mosse da uno dei dati emersi dal p.v.c. della Guardia di finanza, secondo cui, a fronte di versamenti in contanti per Euro 787.348,24, risultavano dichiarati componenti positivi per Euro 582.528,00.

Secondo la ricorrente la differenza (Euro 204.820,24) avrebbe dovuto essere giustificata dal contribuente in forma analitica e documentale.

L’operato dell’Ufficio si è fondato sul D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, che stabilisce che i dati e gli elementi acquisiti nel corso degli accessi presso gli istituti di credito e finanziari sono posti a base delle rettifiche degli accertamenti, se il contribuente non dimostra che ne ha tenuto conto per la determinazione del reddito soggetto ad imposta oppure che non hanno rilevanza allo stesso fine. La norma pone una presunzione legale (semplice: da ult., Cass., 30704/2019; Cass., 29572/2018) che spetta al contribuente superare con una prova analitica contraria (Cass., 30786/2018), che può anche essere affidata a presunzioni (Cass., 11102/2017; Cass., 25502/2011).

Entrambe le sentenze di merito hanno ritenuto che i versamenti, per i quali il contribuente non aveva dato giustificazione, fossero compresi nell’entità dei ricavi dichiarati, e che quindi il contribuente avesse dato prova della loro irrilevanza sul piano impositivo. La Commissione tributaria regionale, in particolare, ha affermato che, poichè nel 2005 il contribuente, avendo ricavato dalla vendita di generi di monopolio Euro 443.330,40 e dal bar Euro 56.719, aveva eseguito versamenti in contanti per circa Euro 500.000,00, non ci sarebbe stato spazio per altri ricavi non dichiarati.

Entrambe le decisioni hanno comportato la svalutazione dei dati risultanti dal p.v.c., secondo le forti contestazioni del contribuente che sono state riportate nella parte espositiva della sentenza di secondo grado.

3 – Tanto puntualizzato, il ricorso dell’Agenzia delle entrate deve essere accolto.

Entrambe le sentenze di merito invero hanno eluso la motivazione dell’atto impositivo e i motivi dell’appello proposto dall’Ufficio, trascurando il dato di partenza, costituito dalla mancata giustificazione di versamenti bancari per Euro 204.820,24, e spostando i termini della controversia sul piano della congruità fra i ricavi dichiarati dal contribuente per entrambe le attività svolte.

Così operando, i giudici di merito e, in particolare la Commissione tributaria regionale, hanno omesso di valutare il dato oggettivo, costituito dall’entità di versamenti in conto corrente superiore a quella giustificata, sul quale prima il p.v.c. e dopo l’atto impositivo si erano essenzialmente fondati; così sostanzialmente violando il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, e la presunzione legale (semplice) in esso prevista e, sul piano motivazionale, l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Il riferimento che, specialmente nella parte espositiva, la sentenza fa alle forti critiche sollevate dal contribuente sui dati emersi dal p.v.c. avrebbe dovuto essere seguito da una esplicita valutazione e presa di posizione, da parte della Commissione, sul valore probatorio del documento utilizzato dall’Ufficio, anche nella direzione – paventata dall’appellante – della comprensione o dell’esclusione dei versamenti non giustificati fra i componenti attivi dei redditi dichiarati.

In ogni caso, la Commissione tributaria regionale avrebbe dovuto comunque esplicitare sulla base di quali dati abbia (implicitamente) ritenuto i versamenti non giustificati compresi fra le attività dichiarate.

La sentenza va quindi cassata e rinviata alla Commissione tributaria

regionale per un nuovo esame di merito e per il regolamento delle spese.

P.Q.M.

Accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Commissione tributaria regionale per il Piemonte, in diversa composizione, anche per la liquidazione delle spese del presente giudizio.

Così deciso in Roma, il 11 febbraio 2020.

Depositato in Cancelleria il 21 luglio 2020

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