Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 15536 del 22/06/2017

Cassazione civile, sez. III, 22/06/2017, (ud. 12/01/2017, dep.22/06/2017),  n. 15536

 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SPIRITO Angelo – Presidente –

Dott. OLIVIERI Stefano – Consigliere –

Dott. RUBINO Lina – Consigliere –

Dott. GRAZIOSI Chiara – Consigliere –

Dott. MOSCARINI Anna – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA INTERLOCUTORIA

sul ricorso 27227/2011 proposto da:

D.S.F., D.S.C. (OMISSIS), D.S.A.

(OMISSIS), elettivamente domiciliati in ROMA, PIAZZA DELLA LIBERTA’

20, presso lo studio dell’avvocato STEFANO VITI, che li rappresenta

e difende unitamente all’avvocato MICHELE MIRENGHI giusta procura in

calce al ricorso;

– ricorrenti –

contro

UNIPOL ASSICURAZIONI SPA, in persona del procuratore ad negotia

Dott.ssa C.R., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

MONTESANTO 68, presso lo studio dell’avvocato CLAUDIO FERRAZZA, che

la rappresenta e difende giusta procura a margine del controricorso;

– controricorrente –

e contro

F.S.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 3851/2010 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 29/09/2010;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

12/01/2017 dal Consigliere Dott. ANNA MOSCARINI;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

PEPE Alessandro, che ha concluso per la rimessione della causa alle

Sezioni Unite Civili, nel merito rigetto;

udito l’Avvocato MICHELE MIRENGHI.

Fatto

FATTO E DIRITTO

La Corte osserva:

1. Il (OMISSIS) D.S.V. perse la vita in conseguenza d’un sinistro stradale.

Secondo la ricostruzione compiuta dal giudice penale, il sinistro fu provocato dalla imprudente condotta di guida della F.S., la quale omettendo di concedere la precedenza al veicolo condotto da S.M., costrinse quest’ultimo ad una disperata manovra di emergenza, all’esito della quale investì D.S.V. ed il suo nipote minorenne.

1.2. Allegando questi fatti, nel 2003 la vedova della vittima, Fa.Ma., ed altri congiunti di D.S.V. convennero dinanzi al Tribunale di Roma F.S. e il suo assicuratore della responsabilità civile (Meieaurora s.p.a., che in seguito per effetto di ripetute fusioni muterà ragione sociale in Unipol Assicurazioni s.p.a., e come tale sarà d’ora innanzi indicata).

L’attrice domandò il risarcimento dei danni patiti in conseguenza della morte del marito; tra questi, chiese il ristoro del danno patrimoniale da perdita dell’aiuto economico ricevuto dal defunto.

1.3. Il Tribunale di Roma, con sentenza 25 febbraio 2005 n. 4797, accolse solo in parte la domanda di Fa.Ma.. Quel giudice ritenne che, godendo Fa.Ma. di redditi da pensione superiori a quelli del defunto coniuge, non fosse verosimile che il secondo destinasse alla prima una parte del proprio reddito.

Il Tribunale tuttavia, con ulteriore ed autonoma ratio decidendi, soggiunse che, avendo Fa.Ma. beneficiato dopo la morte del marito d’una pensione di reversibilità, pari al 60% circa della pensione percepita dallo scomparso, tale erogazione elideva l’esistenza stessa d’un danno patrimoniale.

1.4. La sentenza – per quanto qui unicamente rileva – venne appellata da Fa.Ma., la quale si dolse del rigetto della domanda di risarcimento del danno patrimoniale da lucro cessante.

A fondamento del gravame Fa.Ma. dedusse, da un lato, che il Tribunale aveva travisato i fatti di causa, dal momento che nella motivazione della sentenza comparivano, al posto dei nomi dei soggetti danneggiati dal giudizio, i nomi di altri e sconosciuti soggetti; e dall’altro che in ogni caso era erronea in diritto l’affermazione secondo cui nella liquidazione del danno patrimoniale da lucro cessante dovesse tenersi conto della pensione di reversibilità attribuita alla vedova della vittima dall’ente previdenziale.

1.5. La Corte d’appello di Roma, con sentenza 29 settembre 2010 n. 3851, rigettò il gravame. Anche la Corte d’appello pose, a fondamento della statuizione di rigetto, le due rationes decidendi adottate dal Tribunale, e cioè: (a) Fa.Ma. godeva d’un reddito superiore a quello del defunto marito; (b) in ogni caso, l’erogazione alla vedova della pensione di reversibilità escludeva l’esistenza d’un danno patrimoniale.

1.6. La sentenza d’appello è stata impugnata per cassazione da D.S.C., D.S.A. e D.S.F. (eredi di Fa.Ma., deceduta nelle more del giudizio), con ricorso fondato su due motivi ed illustrato da memoria.

Ha resistito la sola Unipol Assicurazioni s.p.a..

1.7. Il ricorso, fissato per l’udienza pubblica del 19 febbraio 2015, con ordinanza 1 giugno 2015 n. 11355 venne rinviato a nuovo ruolo, in attesa che le Sezioni Unite – cui era stata sottoposta analoga questione di diritto – si pronunciassero sul problema dei limiti dell’istituto della compensatio lucri cum damno, problema posto col secondo motivo del ricorso.

Il ricorso è stato quindi nuovamente fissato per l’udienza pubblica del 12 gennaio 2017, dove la causa è stata discussa e trattenuta in decisione.

I ricorrenti hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c., sia in occasione della prima udienza pubblica, sia in occasione della seconda udienza pubblica.

2.1. Col secondo motivo di ricorso i ricorrenti sostengono che la sentenza impugnata sarebbe affetta da un vizio di violazione di legge, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3. E’ denunciata, in particolare, la violazione degli artt. 1223, 1226, 2043, 2056 c.c..

Deducono, al riguardo, che erroneamente la Corte d’appello avrebbe escluso l’esistenza d’un danno risarcibile, sol perchè alla vedova della vittima era stata erogata dall’INPS la pensione di reversibilità.

Osservano che questa Corte ha più volte affermato un principio esattamente contrario.

Invocano, al riguardo, i precedenti costituiti da Sez. 3, Sentenza n. 17764 del 05/09/2005 (che ha ammesso il cumulo tra risarcimento del danno da incapacità di guadagno e pensione di invalidità civile); Sez. 3, Sentenza n. 12124 del 19/08/2003 e Sez. 3, Sentenza n. 4205 del 25/03/2002 (che hanno ammesso il cumulo tra risarcimento del danno patrimoniale da perdita delle elargizioni del congiunto deceduto, e pensione di reversibilità); Sez. 3, Sentenza n. 10291 del 27/07/2001 (che ha ammesso il cumulo tra risarcimento del danno da incapacità lavorativa e indennità di accompagnamento).

Sostengono la propria tesi coi seguenti argomenti:

(a) il principio della compensatio lucri cum damno può applicarsi solo se tanto il guadagno, quanto la perdita, scaturiscano dal medesimo fatto illecito; tale condizione non è soddisfatta nel nostro caso, in quanto la pensione di reversibilità scaturisce da un titolo diverso dal fatto illecito;

(b) il diritto alla pensione viene maturato dal lavoratore durante tutto lo svolgimento dell’attività lavorativa, mentre il diritto al risarcimento del danno patrimoniale da uccisione del congiunto viene acquisito dal coniuge superstite al momento dell’illecito.

La diversità di natura e di fonte tra la pensione di reversibilità ed il risarcimento del danno impediscono pertanto – concludono gli attori – di detrarre la prima dal secondo.

2.2. Nel merito, ritiene il Collegio che il motivo ponga a questa Corte una questione di massima di particolare importanza la quale, avendo dato luogo in passato ad opinioni discordi, debba essere sottoposta all’esame delle Sezioni Unite.

Il presente ricorso pone infatti a questa Corte la seguente questione di diritto: se nella liquidazione del danno patrimoniale, consistito nella perdita del sostegno economico patito dalla vedova di persona deceduta, debba tenersi conto della pensione di reversibilità erogata dall’ente di previdenza alla danneggiata.

Tale questione giuridica viene tradizionalmente indicata come “problema della compensatio lucri cum damno”. Di essa si discute da secoli senza frutto, e ad essa sono state date di volta in volta le soluzioni più disparate tanto nei presupposti teorici, quanto negli effetti pratici. Persino nella giurisprudenza di questa Corte il problema della compensatio lucri cum damno ha trovato soluzioni contrastanti, e quel che è più grave senza che le une si facessero carico di confutare gli argomenti delle altre: sicchè può parlarsi di autentici contrasti occulti.

A fronte del ciclico perpetuarsi di divisioni dottrinarie e contrasti giurisprudenziali, ritiene questa Corte che il tema in questione dovrebbe essere dunque rimeditato funditus, e che a prescindere dalla ricerca spesso illusoria d’una soluzione dogmaticamente perfetta, ad esso sia data una sistemazione chiara, idonea ai sensi dell’art. 65 ord. giud. a prevenire le liti e rendere prevedibili le decisioni giudiziarie.

2.3. I problemi della compensatio lucri cum damno nascono al momento stesso in cui si cerca di definirla.

In dottrina, infatti, si ravvisano al riguardo ben tre orientamenti diversi: alcuni autori negano del tutto che nel nostro ordinamento esista un istituto giuridico definibile come “compensatio lucri cum damno”; altri ammettono che in determinati casi danno e lucro debbano compensarsi, ma negano che ciò avvenga in applicazione di una regola generale; altri ancora fanno della compensatio lucri cum damno una regola generale del diritto civile.

Chi aderisce al primo orientamento fa leva principalmente sulla mancanza di una regola ad hoc che definisca l’istituto, ed aggiunge un immancabile richiamo alla “iniquità” di un istituto che ha l’effetto di sollevare l’autore d’un fatto illecito dalle conseguenze del suo operato.

Chi aderisce al secondo orientamento condivide l’affermazione secondo cui non esiste nel nostro ordinamento alcuna norma generale che preveda l’istituto della compensatio lucri cum damno, ma soggiunge che il problema delle individuazione delle conseguenze risarcibili d’un fatto dannoso è una questione di fatto, da risolversi caso per caso, e che nel singolo caso non può escludersi a priori che fattori preesistenti o sopravvenute al fatto illecito consentano alla vittima di ricavarne un vantaggio. Noto e risalente, al riguardo, è l’esempio della mandria che, invadendo il fondo altrui, distrugga parte del raccolto, ma nello stesso tempo fertilizzi il terreno.

Chi aderisce al terzo orientamento, infine, sostiene che l’istituto della compensatio lucri cum damno era noto alle fonti romane (tra le quali con maggior frequenza si invocano un passo dalle Quaestiones di Paolo, tramandato da Dig., 22^, 1^, 11; ed uno dei Libri 21^ ad Quintum Mucium di Pomponio, tramandato da Dig., 3^, 5^, 11); che essa fu accettata e condivisa dai glossatori; che l’istituto fu teorizzato nei presupposti dogmatici dalla Pandettistica; che esso è implicitamente presupposto dall’art. 1223 c.c., là dove ammette il risarcimento dei soli danni che siano “conseguenza immediata” dell’illecito; che inoltre quel principio generale è desumibile da varie leggi speciali, tra le quali si invoca la L. 14 gennaio 1994, n. 20, art. 1, comma 1-bis (il quale stabilisce che nel giudizio di responsabilità contabile “deve tenersi conto dei vantaggi comunque conseguiti dall’amministrazione (…) in relazione al comportamento degli amministratori o dei dipendenti pubblici soggetti al giudizio di responsabilità”); o il D.P.R. 8 giugno 2011, n. 327, art. 33, comma 2 (il quale in tema di espropriazione per pubblica utilità stabilisce che “se dall’esecuzione dell’opera deriva un vantaggio immediato e speciale alla parte non espropriata del bene, dalla somma relativa al valore della parte espropriata è detratto l’importo corrispondente al medesimo vantaggio”).

E’ doveroso comunque soggiungere che anche gli autori i quali ammettono l’esistenza dell’istituto della compensatio lucri cum damno, esprimono poi opinioni assai diverse quando si tratta di ravvisarne il fondamento e l’ambito di operatività.

Alcuni ammettono la compensatio solo per i danni patrimoniali, altri anche per i danni non patrimoniali.

Alcuni ammettono la compensatio solo se danno e lucro siano conseguenza diretta della lesione del diritto; altri si contentano che danno e lucro traggano origine dalla condotta illecita.

Alcuni esigono, per l’applicabilità della compensatio, che danno e lucro siano generati dall’azione del danneggiante, senza il concorso di altre persone; altri ammettono che la compensatio possa operare anche quando il lucro derivi dalla condotta di un terzo.

La maggior parte degli autori che ammettono la compensatio, infine, per l’operatività dell’istituto pretende che il fatto illecito sia stato causa, e non già mera occasione, tanto del danno, quanto del lucro: salvo poi tornare a dividersi allorchè si tratta di stabilire quando un fatto illecito possa dirsi “causa”, e quando “occasione”, del lucro.

2.4. Non minori contrasti si ravvisano nella giurisprudenza di questa Corte.

Essa, in verità, ha sempre ritenuto esistente un istituto giuridico generale definibile “compensatio lucri cum damno”. Tuttavia, quando si è trattato di stabilirne l’ambito applicativo, le soluzioni adottate sono state assai distanti tra loro.

2.4.1. Secondo un primo orientamento, la compensatio lucri cum damno opera solo quando sia il danno che il lucro scaturiscano in via “immediata e diretta” dal fatto illecito.

In applicazione di questo principio è stata esclusa la compensatio in tutti i casi in cui la vittima di lesioni personali, oppure i congiunti di persona deceduta in conseguenza dell’illecito, avessero ottenuto il pagamento di speciali indennità previste dalla legge da parte di assicuratori sociali, enti di previdenza, pubbliche amministrazioni, come pure di indennizzi da parte di assicuratori privati contro gli infortuni. In questi casi – si disse – il diritto al risarcimento del danno trae origine dal fatto illecito, mentre il diritto all’indennità scaturisce dalla legge. Mancando la medesimezza della fonte, mancherebbe l’operatività della compensatio.

In virtù di questo principio sono stati ammessi, in particolare:

(a) il cumulo della pensione di reversibilità col risarcimento del danno patrimoniale da morte dovuto alla vedova della vittima (Sez. 3, Sentenza n. 5504 del 10/03/2014; Sez. 3, Sentenza n. 3357 del 11/02/2009; Sez. 3, Sentenza n. 18490 del 25/08/2006; Sez. 3, Sentenza n. 12124 del 19/08/2003; Sez. 3, Sentenza n. 8828 del 31/05/2003; Sez. 3, Sentenza n. 2117 del 14/03/1996; Sez. 3, Sentenza n. 9528 del 22/12/1987; Sez. 3, Sentenza n. 1928 del 10/10/1970; Sez. 3, Sentenza n. 2491 del 17/10/1966; Sez. 3, Sentenza n. 2530 del 07/10/1964);

(b) il cumulo degli indennizzi erogati dallo Stato al Comune di Castellavazzo, in conseguenza del disastro del Vajont, col risarcimento del danno (patrimoniale e non) dovuto al medesimo Comune dal responsabile della sciagura (Sez. 3, Sentenza n. 3807 del 15/04/1998);

(c) il cumulo dell’indennità di accompagnamento (ex lege 11.2.1980 n. 18) col diritto al risarcimento del danno patrimoniale dovuto alla vittima di lesioni personali (Sez. 3, Sentenza n. 10291 del 27/07/2001);

(d) il cumulo della pensione di invalidità civile (L. 30 marzo 1971, n. 118, art. 2) col risarcimento del danno patrimoniale da incapacità lavorativa, a sua volta causato da lesioni personali (Sez. 3, Sentenza n. 11440 del 18/11/1997);

(e) il cumulo dell’indennizzo pagato dall’assicuratore privato contro gli infortuni col risarcimento del danno biologico dovuto alla vittima di lesioni personali (Sez. 3, Sentenza n. 4475 del 15/04/1993).

Le decisioni che aderiscono a questo orientamento non sono motivate in altro modo che col richiamo – spesso tralatizio – al principio per cui la compensatio lucri cum damno non opera quando danno e lucro traggano origine da fonti diverse (in alcune decisioni peraltro si parla di “titoli” diversi).

2.4.2. Un diverso orientamento, all’opposto, ammette con maggior larghezza l’operatività della compensatio lucri cum damno. Questo orientamento tuttavia perviene a tale risultato attraverso percorsi motivazionali diversi.

2.4.3. Talune decisioni ammettono in teoria l’istituto della compensatio, ed ammettono altresì che esso operi solo quando danno e lucro scaturiscono in via immediata e diretta dal fatto illecito: tuttavia, elevando il fatto illecito dal rango di “occasione” a quello di “causa” del vantaggio patrimoniale, giungono al risultato di detrarre quest’ultimo dal risarcimento.

In applicazione di questo principio si è escluso, ad esempio, il cumulo tra il risarcimento del danno alla persona patito dal militare di leva durante lo svolgimento del servizio in conseguenza d’un fatto colposo dell’amministrazione della difesa, e la pensione “privilegiata tabellare” dovuta alla vittima ex D.P.R. 29 settembre 1973, n. 601 (Sez. 3, Sentenza n. 9094 del 13/05/2004; Sez. 3, Sentenza n. 64 del 04/01/2002; Sez. 1, Sentenza n. 9779 del 16/09/1995).

2.4.4. Altre decisioni pervengono al medesimo risultato, ma senza dichiarare apertamente di fare applicazione dell’istituto della compensatio. In esse si afferma, piuttosto, che se non si tenesse conto del lucro derivato dall’illecito, il danneggiato sarebbe pagato due volte sine causa; ed il danneggiante sarebbe costretto a risarcire due volte lo stesso danno: una volta al danneggiato, e l’altra all’ente previdenziale od all’assicuratore sociale, in sede di surrogazione. In applicazione di questi principi si è escluso:

(a) il cumulo tra risarcimento del danno patrimoniale da incapacità di lavoro e quanto percepito dalla vittima a titolo di pensione di invalidità (Sez. 3, Sentenza n. 9228 del 12/07/2000);

(b) il cumulo tra il risarcimento del danno dovuto al lavoratore infortunato (od ai suoi congiunti) dal datore di lavoro responsabile dell’infortunio, e la rendita attribuita alla vittima (od ai suoi congiunti) dall’INAIL (Sez. 3, Sentenza n. 5964 del 16/11/1979, Rv. 402644; Sez. 3, Sentenza n. 3806 del 15/04/1998, Rv. 514496; Sez. L, Sentenza n. 3503 del 24/05/1986, Rv. 446446);

(c) il cumulo tra il risarcimento del danno dovuto alla vittima di infezione da emotrasfusione, e l’indennizzo erogatole ai sensi della I. 25 febbraio 1992 n. 210 (ex aliis, Sez. 3, Sentenza n. 991 del 20/01/2014; Sez. 3, Sentenza n. 6573 del 14/03/2013).

2.5. Questo Collegio auspica che i problemi interpretativi ed applicativi sin qui riassunti siano risolti affermando i seguenti principi:

(a) alla vittima d’un fatto illecito spetti il risarcimento del danno esistente nel suo patrimonio al momento della liquidazione;

(b) nella stima di questo danno occorre tenere conto dei vantaggi che, prima della liquidazione, siano pervenuti o certamente perverranno alla vittima, a condizione che il vantaggio possa dirsi causato del fatto illecito, ed abbia per risultato diretto o mediato quello di attenuare il pregiudizio causato dall’illecito;

(c) per stabilire se il vantaggio sia stato causato dal fatto illecito deve applicarsi la stessa regola di causalità utilizzata per stabilire se il danno sia conseguenza dell’illecito.

Corollario di quanto precede è che non può dirsi esistente nel nostro ordinamento un istituto definibile “compensatio lucri cum damno”. La regola tralatiziamente definita con questa espressione altro non è che una perifrasi per definire il principio di integralità della riparazione o “principio di indifferenza”, in virtù del quale il risarcimento deve coprire l’intera perdita subita, ma non deve costituire un arricchimento per il danneggiato. Tale principio è desumibile dall’art. 1223 c.c..

All’illustrazione dei princìpi appena esposti saranno dedicati i p.p. che seguono, nei quali questo Collegio ritiene utile esporre dapprima i vulnera dell’orientamento tradizionale, e quindi i criteri ritenuti applicabili per la soluzione del problema qui in esame.

2.6. L’orientamento che nega la compensatio lucri cum damno quando vantaggio e svantaggio non trovino ambedue causa immediata e diretta nell’illecito si fonda su quattro presupposti teorici non più accettabili.

2.6.1. Il primo vulnus dell’orientamento tradizionale è di tipo logico.

Esso, infatti, pretendendo la medesimezza del “titolo” per il danno e per il lucro, al fine dell’operare della compensatio, finisce per negare di fatto qualsiasi spazio a questo preteso “istituto”. E’ infatti assai raro (se non impossibile) che un fatto illecito possa provocare da sè solo, e cioè senza il concorso di nessun altro fattore umano o giuridico, sia una perdita, sia un guadagno.

Come messo in evidenza dalla dottrina prevalente da oltre un secolo, la compensatio lucri cum damno di compensazione non ha che il nome. Essa non costituisce affatto una applicazione della regola di cui all’art. 1241 c.c., così come la “compensazione delle spese” di cui all’art. 92 c.p.c. non è una compensazione in senso tecnico, nè lo è la c.d. “compensazione delle colpe” di cui all’art. 1227 c.c., comma 1.

La c.d. compensatio lucri cum damno costituisce piuttosto una regola operativa per l’accertamento dell’esistenza e dell’entità del danno risarcibile, ai sensi dell’art. 1223 c.c..

Noti sono gli esempi addotti dalla dottrina storica al riguardo: al padrone d’un animale ucciso da un terzo non si dirà che si è impoverito dell’animale ma arricchito del valore della sua pelle: gli si dirà per contro che ha patito un danno pari al valore dell’animale meno il valore della pelle; al proprietario di un frutteto tagliato da un terzo non si dirà che si è impoverito della piantagione ma arricchito dei tronchi, ma gli si dirà che ha patito un danno pari al valore della piantagione meno il valore dei tronchi; al proprietario di un veicolo distrutto da un sinistro stradale non si dirà che si è impoverito del veicolo, ma arricchito del valore del metallo venduto al rottamatore, ma si dirà che ha patito un danno pari al valore commerciale del veicolo, meno il valore del relitto.

“Lucro” e “danno”, pertanto, non vanno concepiti come un credito ed un debito autonomi per genesi e contenuto, rispetto ai quali si debba indagare soltanto se sussista la medesimezza della fonte. Del c.d. “lucro” derivante dal fatto illecito occorre invece stabilire unicamente se costituisca o meno una conseguenza immediata e diretta del fatto illecito ai sensi dell’art. 1223 c.c..

2.6.2. Il secondo vulnus dell’orientamento tradizionale è di tipo dogmatico. L’affermazione secondo cui la (pretesa) regola della compensatio opera soltanto se “danno” e “lucro” scaturiscano in modo diretto ed immediato dal fatto illecito appare infatti frutto di un equivoco, a sua volta scaturente da un inconsapevole fraintendimento della dottrina tradizionale.

Questa aveva infatti da tempo individuato, tra i presupposti della compensatio lucri cum damno, la necessità che danno e lucro derivassero dalla stessa condotta del responsabile.

Colui il quale con una condotta “A” dovesse causare un danno, e con una condotta “B” dovesse procurare un vantaggio al danneggiato, di fonte ad una richiesta di risarcimento non potrebbe certo invocare che l’importo del secondo si sottragga dal primo, a meno che non ricorrano i presupposti dell’ingiustificato arricchimento (art. 2041 c.c.). Se, infatti, tali presupposti mancassero, non potrebbe giammai attribuirsi all’autore dell’illecito una posizione più favorevole rispetto a quella di chi, senza avere commesso alcun fatto illecito, ha tuttavia arrecato ad altri un vantaggio non ripetibile ex art. 2041 c.c..

Così, ad esempio, chi investa una persona con un autoveicolo, e poi offra spontaneamente alla vittima una vacanza a (OMISSIS), non potrà pretendere di compensare il proprio debito risarcitorio con il costo del soggiorno.

La regola secondo cui la compensatio esige la medesimezza della condotta, col passare degli anni, venne applicata sempre più tralatiziamente: e poichè la condotta è uno degli elementi dell’illecito, intorno agli anni Cinquanta del 20^ sec. la giurisprudenza nell’applicare il principio in esame incorse in un’autentica metonimia, finendo con l’indicare la parte per il tutto: così l’originario requisito della “medesimezza della condotta”, da secoli fondamento della compensatio lucri cum damno, si trasformò nella “medesimezza del fatto”, e questa a sua volta nella “medesimezza della fonte” tanto del lucro quanto del danno.

Ma è ovvio che altro è affermare che danno e lucro, per essere compensati, devono scaturire da una unica condotta del danneggiante, ben altro è sostenere che debbano scaturire dalla stessa causa. Mentre infatti la prima concezione ammetteva il concorso di cause, la seconda lo esclude.

La regola applicata dall’orientamento tradizionale, in definitiva, non è affatto fondata sulla “dottrina tradizionale”, come si pretenderebbe, ma costituisce anzi una deviazione dai principi di quella.

2.6.3. Il terzo vulnus dell’orientamento tradizionale è un corollario del secondo: negando infatti l’operare della (pretesa) regola della compensatio se non quando lucro e danno abbiano per causa unica ed immediata la condotta del danneggiante, si accorda alla vittima un risarcimento integrale in tutti i casi in cui in conseguenza del fatto illecito abbia ottenuto un vantaggio patrimoniale per effetto d’una norma di legge (ad esempio, nel caso di percezione di benefici da parte di enti previdenziali, assicuratori sociali, pubbliche amministrazioni) o d’un contratto (ad esempio, nel caso di percezione di indennizzi assicurativi).

In questi casi, si afferma, il fatto illecito costituirebbe una mera occasione del lucro, e non la causa di esso, con conseguente esclusione della compensatio.

Questa opinione, oltre che tralatiziamente erronea nei presupposti, appare incoerente:

(a) con la nozione di “causalità” che si è venuta sviluppando nella giurisprudenza di questa Corte ormai da molti anni in qua.

(b) coi principi generali della responsabilità civile.

2.6.3.1. E’ erronea nei presupposti, perchè storicamente nacque da un vero e proprio equivoco: ovvero l’erroneo recepimento d’una glossa di Bartolo, altrettanto erronea nell’interpretare un passo di Paolo (Dig., 22^, 1^, 11). In quel passo Paolo si chiedeva se il pubblico amministratore, che avesse riscosso crediti erariali maggiorati di interessi superiori a quelli dovuti, potesse compensare per tal via la perdita patita dall’erario in conseguenza dell’inadempimento di altri debitori morosi. Chiosando questo passo, che nulla aveva a che vedere col nostro problema, Bartolo ne trasse la conclusione che hominis culpa non compensatur cum provisione legali: principio che nei secoli successivi ebbe immeritata fortuna, e venne fino alla fine dell’Ottocento invocato dai sostenitori della tesi dell’inoperatività della compensatio quando il lucro nasca dalla legge.

2.6.3.2. L’orientamento tradizionale è poi incoerente con la moderna nozione di causalità giuridica (art. 1223 c.c.), la quale ha abbandonato da tempo la distinzione scolastica tra “causa remota”, “causa prossima” ed “occasione”, sostituendola con la nozione di “regolarità causale”. Secondo tale nozione, per stabilire se un fatto possa dirsi causato da un altro non è proficuo arrovellarsi a discettare se il secondo sia stato causa o mera occasione del primo: non foss’altro che per la difficoltà, quando non per l’impossibilità, di distinguere tra l’una e l’altra.

Occorrerà, invece, per affermare l’esistenza d’un nesso di causalità giuridica tra lesione dell’interesse e danno, ricorrere al criterio della “regolarità causale”, altrimenti detto della “probabilità dell’evidenza”, in virtù del quale una condotta è causa di un evento tutte le volte che, senza la prima, il secondo non si sarebbe verificato.

Questa Corte infatti, nell’interpretare l’art. 1223 c.c., ha ripetutamente affermato che ai sensi dell’art. 1223 c.c., “tutti gli antecedenti in mancanza dei quali un evento dannoso non si sarebbe verificato debbono considerarsi sue cause, abbiano essi agito in via diretta e prossima o in via indiretta e remota” (così Sez. 3, Sentenza n. 12103 del 13/09/2000; nello stesso senso, ex permultis, Sez. 3, Sentenza n. 21255 del 17/09/2013; Sez. 3, Sentenza n. 15789 del 22/10/2003); e che “il nesso di causalità va inteso in modo da ricomprendere nel risarcimento anche i danni indiretti e mediati che si presentino come effetto normale secondo il principio della c.d. regolarità causale, con la conseguenza che, ai fini del sorgere dell’obbligazione di risarcimento, il rapporto fra illecito ed evento può anche non essere diretto ed immediato se, ferme restando le altre condizioni, il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo” (ex multis, Sez. 3, Sentenza n. 16163 del 21/12/2001).

Non è dunque, corretto interpretare l’art. 1223 c.c., in modo asimmetrico, e ritenere che “il rapporto fra illecito ed evento può anche non essere diretto ed immediato” quando si tratta di accertare il danno, ed esigere al contrario che lo sia, quando si tratta di accertare il vantaggio per avventura originato dal medesimo fatto illecito.

2.6.3.2. La tesi secondo cui l’illecito sarebbe mera “occasione” del lucro, quando questo è ottenuto dalla vittima in virtù della legge o del contratto, collide infine coi principi generali della responsabilità civile.

Non vi è dubbio che nel rapporto tra l’assistito e il soggetto obbligato al pagamento del beneficio previdenziale il diritto del primo scaturisce dalla legge, e l’illecito è mera condicio iuris per l’erogazione di esso. E tuttavia è solo nell’ambito di questo rapporto, che il fatto illecito può dirsi mera occasione o condicio iuris dell’attribuzione patrimoniale.

Ben diversa è la prospettiva se ci si pone nell’ottica del rapporto di diritto civile che lega vittima e responsabile.

In questo diverso rapporto giuridico si tratta di stabilire non già se il beneficio dovuto per legge o per contratto spetti o meno, ma di quantificare con esattezza le conseguenze pregiudizievoli dell’illecito. E per quantificare tali conseguenze dal punto di vista economico non può spezzarsi la serie causale, e ritenere che il danno derivi dall’illecito e l’incremento patrimoniale no: per la semplice ragione che, senza il primo, non vi sarebbe stato il secondo.

Dunque l’affermazione secondo cui l’illecito non sarebbe “causa” in senso giuridico delle attribuzioni erogate alla vittima per legge o per contratto non tiene conto dell’intrecciarsi dei due ordini di rapporti: quello tra danneggiato e terzo sovventore, e quello tra danneggiato e danneggiante. Che l’illecito non sia “causa” dell’attribuzione patrimoniale è affermazione che potrà ammettersi forse nell’ambito del primo di tali rapporti, ma non certo nell’ambito del secondo.

2.6.4. Il quarto vulnus dell’orientamento tradizionale è anch’esso di tipo sistematico, e riguarda l’ipotesi in cui il lucro derivato dal sinistro consista nella percezione d’un beneficio previdenziale od assicurativo, per il quale la legge attribuisca all’ente erogatore il diritto di surrogazione.

L’orientamento che nega la compensatio tra il danno ed i benefici erogati alla vittima dall’ente previdenziale o dall’assicuratore sociale, infatti, può sortire il paradossale effetto di abrogare di fatto l’azione di surrogazione spettante (ex art. 1203 c.c., art. 1916 c.c., o in virtù delle singole norme previste dalla legislazione speciale) a quest’ultimo.

E’ noto infatti che limite oggettivo della surrogazione è il danno effettivamente causato dal responsabile, il quale non può mai essere costretto, per effetto dell’azione di surrogazione, a pagare due volte il medesimo danno: una al danneggiato, l’altra al surrogante (principio pacifico e consolidato: ex permultis, Sez. 3, Sentenza n. 4642 del 27/04/1995, Rv. 492023; Sez. 3, Sentenza n. 8597 del 07/08/1991, Rv. 473411; sino a risalire a Sez. 3, Sentenza n. 380 del 15/02/1971, Rv. 349954).

Pertanto, una volta che il responsabile del sinistro sia costretto a pagare l’intero risarcimento senza tener conto del beneficio previdenziale od assicurativo percepito dalla vittima per effetto dell’illecito, non potrebbe poi essere costretto dall’ente previdenziale od assicurativo a rifondergli le somme da questo pagate alla vittima.

Questo risultato però cozza contro evidenti ragioni di diritto e di giustizia.

Quanto alle prime, l’orientamento tradizionale priva l’assicuratore sociale o l’ente previdenziale d’un diritto loro espressamente attribuito dalla legge (ex permultis, art. 1916 c.c., applicabile anche alle assicurazioni sociali in virtù del rinvio di cui all’art. 1886 c.c.; D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, artt. 10-11, con riferimento all’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro; L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 42, comma 1, con riferimento alle prestazioni di malattia erogate dall’INPS).

Quanto alle seconde, l’orientamento tradizionale – privando l’ente previdenziale o l’assicuratore sociale dell’azione di surrogazione addossa alla fiscalità generale, e quindi alla collettività, un onere il cui peso economico serve non a ristorare la vittima, ma ad arricchirla: così posponendo di fatto l’interesse generale a quello individuale.

2.7. Si badi comunque che l’istituto della surrogazione e la stima del danno da fatto illecito non sono legati da alcun nesso di implicazione bilaterale.

Se le conseguenze del fatto illecito sono state eliminate dall’intervento d’un assicuratore, privato o sociale che sia; ovvero da un qualsiasi ente pubblico o privato, il pagamento da tale soggetto compiuto, se ha avuto per effetto o per scopo quello di eliminare le conseguenze dannose, andrà sempre detratto dal credito risarcitorio – come correttamente rilevato dal Procuratore Generale nelle sue conclusioni -, a nulla rilevando nè che l’ente pagatore non abbia diritto alla surrogazione, nè che, avendolo, vi abbia rinunciato.

La detrazione dell’aliunde perceptum è infatti necessaria per la corretta stima del danno, non per evitare al danneggiante un doppio pagamento. La situazione non è dissimile da quella del fideiussore che paghi il debito altrui, e poi muoia senza lasciare eredi: la circostanza che nessuno più possa esercitare il regresso verso il debitore principale non impedisce certo che il diritto del creditore si riduca in misura pari a quanto percepito dal garante.

2.8. Detto delle ragioni per le quali non è condivisibile l’orientamento tradizionale che concepisce la compensatio lucri cum damno come un istituto giuridico autonomo, e la ammette nei ristretti limiti sopra censurati, occorre ora stabilire se ed a quali condizioni il vantaggio patrimoniale scaturito da un fatto illecito vada imputato nel risarcimento, con conseguente riduzione di quest’ultimo di un importo pari al vantaggio.

2.9. Che nella stima del danno risarcibile debba tenersi conto dei vantaggi economici procurati alla vittima dall’illecito è principio che discende dal c.d. “principio di indifferenza” del risarcimento.

Il principio di indifferenza è la regola in virtù della quale il risarcimento del danno non può rendere la vittima dell’illecito nè più ricca, nè più povera, di quanto non fosse prima della commissione dell’illecito.

Esso si desume da un reticolo di norme diverse.

Innanzitutto dall’art. 1223 c.c., secondo cui il risarcimento deve includere solo la perdita subita ed il mancato guadagno.

In secondo luogo dagli artt. 1909 e 1910 c.c., i quali assoggettano l’assicurazione contro i danni al c.d. principio indennitario, e di conseguenza escludono che la vittima d’un danno possa cumulare il risarcimento e l’indennizzo.

Il principio in esame è altresì confermato indirettamente dall’art. 1224 c.c., comma 1, u.p.: tale norma, stabilendo che nelle obbligazioni pecuniarie sono dovuti dal giorno della mora gli interessi legali “anche se il creditore non prova di aver sofferto alcun danno”, rende palese che, là dove il legislatore ha inteso derogare al principio di indifferenza, ha sentito la necessità di farlo in modo espresso.

Il “principio di indifferenza” è altresì desumibile da varie norme codicistiche che lo richiamano implicitamente: si considerino al riguardo le fattispecie previste dall’art. 1149 c.c. (che prevede la compensazione tra il diritto del proprietario alla restituzione dei frutti e l’obbligo di rifondere al possessore le spese per produrli); art. 1479 c.c. (che nel caso di vendita di cosa altrui prevede la compensazione tra il minor valore della cosa e il rimborso del prezzo); art. 1592 c.c. (compensazione del credito del locatore per i danni alla cosa con il valore dei miglioramenti).

Anche varie previsioni contenute in leggi speciali confermano l’esistenza del principio in esame: ad esempio la L. 14 gennaio 1994, n. 20, art. 1, comma 1-bis (compensazione del danno causato dal pubblico impiegato con i vantaggi conseguiti dalla pubblica amministrazione); il D.P.R. 8 giugno 2011, n. 327, art. 33, comma 2 (il quale in tema di espropriazione per pubblica utilità prevede la compensabilità del credito per l’indennità espropriativa col vantaggio arrecato al fondo); come pure – a contrario il D.Lgs. 15 marzo 2010, n. 66, art. 1905 (Codice dell’ordinamento militare), il quale nel prevedere che la speciale elargizione ivi prevista a favore delle vittime di incidenti verificatisi nel corso o in conseguenza di attività operative svolte dalle Forze armate sul territorio nazionale, soggiunge che tale elargizione “non esclude il risarcimento del maggior danno eventualmente dovuto”: norma che risulterebbe inutile, se le erogazioni indennitarie fossero di per sè sempre e comunque cumulabili col risarcimento del danno.

Da tali disposizioni si desume l’esistenza d’un principio generale, secondo cui vantaggi e svantaggi derivati da una medesima condotta possono compensarsi anche se alla produzione di essi hanno concorso, insieme alla condotta umana, altri atti o fatti, ovvero direttamente una previsione di legge.

Corollario di questo principio è che il risarcimento non può creare in favore del danneggiato una situazione migliore di quella in cui si sarebbe trovato se il fatto dannoso non fosse avvenuto, immettendo nel suo patrimonio un valore economico maggiore della differenza patrimoniale negativa indotta dall’illecito.

2.10. A queste conclusioni si obiettò in passato che ammettere la compensatio in limiti così ampi solleverebbe il responsabile del danno dalle conseguenze di questo.

Osservazioni di questo tipo sono erronee per due ragioni.

La prima ragione è che nella maggior parte dei casi di compensatio l’offensore non si sottrae affatto alle conseguenze dell’illecito, ma semplicemente cambia creditore (pagherà infatti non la vittima a titolo di risarcimento, ma il terzo solvens a titolo di surrogazione).

La seconda ragione è che l’obiezione è comunque figlia d’una concezione ancestrale dell’illecito, che ravvisava nell’offensore un reo, ed una sanzione nel risarcimento. Una concezione, quindi, cui appariva inconcepibile che l’autore d’un danno potesse sottrarsi alle conseguenze di esso.

Il nostro sistema della responsabilità civile, tuttavia, in linea generale non assegna funzioni punitive al risarcimento del danno, e non vede nel responsabile un reo da sanzionare (nè di vera e propria sanzione potrebbe mai parlarsi, al cospetto degli innumerevoli casi di responsabilità presunta od oggettiva previsti dall’ordinamento).

Il nostro diritto della responsabilità civile è mirato sul danno, non sull’offensore: sicchè, nella liquidazione del risarcimento, all’entità di questo deve guardarsi, e non alla punizione del secondo (così già Sez. 3, Sentenza n. 4043 del 19/02/2013, al p. 7.1 dei “Motivi della decisione”).

2.11. Conclusione di quanto esposto sin qui è il superamento della vieta concezione della compensatio come una regola da applicare dopo avere liquidato il danno, allo scopo di “evitare l’arricchimento”: illusione ottica che, come si è cercato di dimostrare, tanti equivoci ha generato nel presente e nel passato.

In realtà quando si procede alla stima dei danni civili non ci sono affatto due operazioni da compiere (prima si liquida e poi si “compensa”).

L’operazione è una soltanto, e consiste nel sottrarre dal patrimonio della vittima ante sinistro il patrimonio della vittima residuato al sinistro. E se in tale operazione ci si imbatte in un vantaggio che sia conseguenza dell’illecito non si dirà che per quella parte si sta “compensando” danno e lucro, ma si dirà che l’illecito non ha provocato danno.

I principi appena esposti, gli unici coerenti col quadro normativo nazionale tracciato nei p.p. precedenti, risultano altresì:

(a) condivisi dalla Corte di giustizia dell’Unione Europea, la quale ha affermato che in un giudizio di responsabilità l’eccezione di compensatio “non si può, in via di principio, considerare infondata” (Corte giust. CE, 4 ottobre 1979, Deutsche Getreideverwertung, in cause riunite C-241/78 ed altre);

(b) recepita dai principi europei di diritto della responsabilità (Principles of European Tort Law – PETL, art. 10:103, secondo cui “when determining the amount of damages benefits, which the injured party gains through the damaging event, are to be taken into account unless this cannot be reconciled with the purpose of the benefit”), i quali ovviamente non hanno valore normativo, ma costituiscono pur sempre un utile criterio guida per l’interprete.

2.12. Alla luce dei princìpi esposti sin qui, ritiene questo Collegio che si può ora tornare ad esaminare il secondo motivo di ricorso.

Essendo il risarcimento del danno governato dal principio di indifferenza, nella stima di esso deve tenersi conto di tutte le conseguenze che sono derivate dall’illecito: sia in bonam, che in malam partem.

Nello stabilire se il fatto illecito abbia provocato anche conseguenze favorevoli per la vittima, deve applicarsi il principio di equivalenza causale, di cui all’art. 41 c.p., a norma del quale “il concorso di cause preesistenti o simultanee o sopravvenute, anche se indipendenti dall’azione od omissione del colpevole, non esclude il rapporto di causalità fra l’azione od omissione e l’evento”.

Nota è l’evoluzione della giurisprudenza di questa Corte in merito all’applicazione di tale norma in materia di responsabilità civile: il nesso di causa sussiste – si è ripetutamente stabilito – quando, senza l’illecito, l’evento non si sarebbe mai verificato (teoria della “regolarità causale”: ex plurimis, in particolare, Sez. U, Sentenza n. 576 del 11/01/2008).

Il risarcimento spettante alla vittima dell’illecito andrà dunque ridotto in tutti i casi in cui, senza l’illecito, la percezione del vantaggio patrimoniale sarebbe stata impossibile.

Tale condizione ricorre quando il vantaggio dovuto alla vittima è previsto da una norma giuridica che fa dell’illecito, ovvero del danno che ne è derivato, uno dei presupposti di legge per l’erogazione del beneficio.

Tale requisito sussisterà dunque certamente:

(a) rispetto al credito risarcitorio per danno biologico, quando la vittima di lesioni personali abbia percepito dall’INAIL l’indennizzo del danno biologico ai sensi del D.Lgs. 23 febbraio 2000, n. 38, art. 13;

(b) rispetto al credito risarcitorio per danno patrimoniale da incapacità lavorativa, quando la vittima di lesioni personali, avendo patito postumi permanenti superiori al 16%, abbia percepito dall’INAIL una rendita maggiorata, e limitatamente a tale maggiorazione;

(c) rispetto al credito risarcitorio per danno patrimoniale da incapacità lavorativa, quando la vittima di lesioni personali abbia percepito dall’INPS la pensione di invalidità (L. n. 118 del 1971);

(d) rispetto al credito risarcitorio per danno patrimoniale da spese mediche e di assistenza, quando la vittima di lesioni personali abbia percepito dall’INPS l’indennità di accompagnamento (L. n. 18 del 1980);

(e) rispetto al credito risarcitorio per danno patrimoniale da perdita delle elargizioni ricevute da un parente deceduto, quando il superstite abbia percepito dall’INAIL la rendita di cui al D.P.R. 30 giugno 1965, n. 124, art. 66, comma 1, n. 4.

2.13. Analogamente, non v’è ragione per escludere che il valore capitalizzato della pensione di reversibilità debba sottrarsi dal risarcimento del danno patrimoniale derivato dall’uccisione d’un congiunto, e consistito nella perdita degli emolumenti da questi erogati al superstite.

La c.d. “pensione di reversibilità” (rectius, assicurazione pubblica a beneficio dei congiunti superstiti, contro il rischio di morte del lavoratore o del pensionato) ha la finalità di preservare i congiunti del de cujus dalle conseguenze patrimoniali sfavorevoli cui essi sono esposti nel momento in cui viene a mancare la principale fonte di reddito del nucleo familiare. Tanto si desume dal fatto che:

(a) la pensione di reversibilità R.D.L. 14 aprile 1939, n. 636, ex art. 13, è attribuita all’avente diritto jure proprio, ed è causalmente collegata al decesso;

(b) essa in tanto viene corrisposta, in quanto si presume che il beneficiario subisce una perdita patrimoniale in conseguenza della morte del congiunto;

(c) essa non è dovuta ai figli maggiorenni, e dunque abili al lavoro, mentre è dovuta anche ai figli maggiorenni, se inabili al lavoro;

(d) il diritto al trattamento di reversibilità da parte del coniuge della vittima si estingue se questi passa a nuove nozze;

(e) il trattamento di reversibilità dovuto al figlio della vittima si estingue, se questi svolge attività lavorativa produttiva di reddito continuativo (R.D.L. 14 aprile 1939, n. 636, art. 13);

(f) i genitori del defunto hanno diritto alla pensione di reversibilità solo se viventi a carico (D.P.R. 26 aprile 1957, n. 818, art. 19);

(h) i fratelli della vittima, in mancanza di altri aventi diritto, possono pretendere la pensione di reversibilità, ma solo se inabili al lavoro (R.D.L. n. 636 del 1939, art. 13 cit.);

(i) la pensione di reversibilità è ridotta in misura crescente, in proporzione del reddito del beneficiario (L. 8 agosto 1995, n. 335, art. 1, comma 41).

Previsioni pressochè identiche sono dettate, per i dipendenti civili e militari dello Stato, dal D.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1092, artt. 81 e segg..

Questo articolato blocco normativo rende palese che l’erogazione della pensione di reversibilità ha una funzione indennitaria, a prescindere dal fine solidaristico cui sono improntate le disposizioni che la prevedono: ed infatti spetta a chi non ha redditi propri, e si perde se il beneficiario svolge attività lavorativa o (nel caso del coniuge) contrae un secondo matrimonio.

Se la pensione di reversibilità ha lo scopo di sollevare i familiari della vittima dallo stato di bisogno causato dalla scomparsa della persona che all’interno del nucleo familiare produceva un reddito destinato alla famiglia, deve concludersi che il percettore della suddetta pensione non patisce alcun danno patrimoniale per effetto della morte del congiunto, fino alla concorrenza del valore capitale della pensione stessa.

2.13. A conforto delle osservazioni sin qui svolte, utili insegnamenti possono trarsi dalla storia di una vicenda per certi versi analoga: quella del cumulo di stipendio e risarcimento del danno da incapacità lavorativa temporanea, nel caso di danno alla salute di un impiegato.

Per più di dieci anni, tra il 1966 ed il 1978, questa Corte aveva costantemente affermato che, nel caso in cui un impiegato resti assente dal lavoro a causa di un infortunio, continuando a percepire la retribuzione, egli ha diritto di chiedere al danneggiante anche il danno da incapacità temporanea di guadagno, in quanto – si diceva in quel caso non poteva operare la compensatio lucri cum damno, avendo risarcimento e stipendio cause diverse (principio costantemente affermato a partire da Sez. 3, Sentenza n. 2284 del 27/08/1966, sino a Sez. 3, Sentenza n. 1439 del 12/05/1972).

Si badi come la motivazione addotta per consentire il cumulo di stipendio e risarcimento del danno da incapacità lavorativa era del tutto identico a quella ancora oggi invocata per giustificare il cumulo di risarcimento e pensione di reversibilità: e cioè l’inapplicabilità della compensatio lucri cum damno a causa della diversità della fonte del lucro e della perdita.

Dopo molto tempo (ed aspre critiche da parte della dottrina), questa Corte a partire dalla fine degli anni Settanta del 20^ sec. mutò avviso, stabilendo che, nel caso in cui il lavoratore infortunato abbia continuato a percepire la retribuzione durante la malattia, nulla gli compete a titolo di danno patrimoniale da inabilità temporanea, e ciò non perchè non possa applicarsi il principio della compensatio lucri cum damno, ma semplicemente perchè non esiste un danno risarcibile (Sez. 3, Sentenza n. 3507 del 11/07/1978, in seguito sempre conforme).

Ebbene, la vicenda appena descritta non appare concettualmente diversa da quella concernente il divieto cumulo di risarcimento e pensione di reversibilità, e non v’è ragione per non risolverla nello stesso modo.

2.15. Alla luce di quanto esposto sin qui, pertanto, il Collegio ritiene necessario rimettere il ricorso al Primo Presidente, perchè valuti l’assegnazione di esso alle Sezioni Unite, alle quali sottoporre le seguenti questioni di diritto:

(A) Se, in tema di risarcimento del danno, ai fini della liquidazione dei danni civili il giudice deve limitarsi a sottrarre dalla consistenza del patrimonio della vittima anteriore al sinistro quella del suo patrimonio residuato al sinistro stesso, senza far ricorso prima alla liquidazione e poi alla cd. compensatio lucri cum damno (istituto o principio non individuabile nell’ordinamento giuridico); se, di conseguenza, quando l’evento causato dall’illecito costituisce il presupposto per l’attribuzione alla vittima, da parte di soggetti pubblici o privati, di benefici economici il cui risultato diretto o mediato sia attenuare il pregiudizio causato dall’illecito, di questi il giudice debba tenere conto nella stima del danno, escludendone l’esistenza per la parte ristorata dall’intervento del terzo;

(B) Se il risarcimento del danno patrimoniale patito dal coniuge di persona deceduta, e consistito nella perdita dell’aiuto economico offertole dal defunto, va liquidato detraendo dal credito risarcitorio il valore capitalizzato della pensione di reversibilità attribuita al superstite dall’ente previdenziale.

PQM

 

(-) rimette il ricorso al Primo Presidente, perchè valuti l’opportunità di assegnarlo alle Sezioni Unite.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, il 12 gennaio 2017 e, previa riconvocazione, il 6 giugno 2017.

Depositato in Cancelleria il 22 giugno 2017

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