Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 15530 del 22/06/2017


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Cassazione civile, sez. VI, 22/06/2017, (ud. 04/04/2017, dep.22/06/2017),  n. 15530

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – Presidente –

Dott. ORILIA Lorenzo – Consigliere –

Dott. CORRENTI Vincenzo – Consigliere –

Dott. ABETE Luigi – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 12918-2016 proposto da:

C.E., B.R., elettivamente domiciliati in ROMA,

VIA COLA DI RIENZO 297, presso lo studio dell’avvocato NICOLA BOSCO,

che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato GIANFRANCO

PUTATURO giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrenti –

contro

R.B.A., quale difensore di se stesso, elettivamente

domiciliato in ROMA, CIRC.NE CLODIA 165, presso lo studio

dell’avvocato SILVANA LOMBARDI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 172/2016 della CORTE D’APPELLO di TORINO,

depositata il 04/02/2016;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

04/04/2017 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO.

Fatto

MOTIVI IN FATTO ED IN DIRITTO DELLA DECISIONE

L’avv. R.B.A. conveniva in giudizio dinanzi al Tribunale di Torino B.R. e C.E., quali eredi del defunto B.E., deducendo di avere svolto attività professionale nell’interesse del defunto in numerose controversie, avendo quindi maturato un compenso pari ad Euro 28.032,86, chiedendone pertanto l’adempimento ai convenuti nella indicata qualità.

Questi si costituivano in giudizio eccependo di non essere eredi, per avere rinunziato all’eredità del B.E., rispettivamente padre e marito del B. e della C., assumendo altresì che era inverosimile che l’attore non avesse ricevuto alcun acconto da parte del cliente, dovendosi quindi dubitare dell’effettivo ammontare delle somme dovute.

Il Tribunale con la sentenza n. 6782/2014 rigettava la domanda ritenendo che i convenuti avessero validamente rinunziato all’eredità, e senza che fosse possibile ravvisare il compimento di atti di accettazione tacita ovvero ex lege.

A seguito di appello proposto dal R.B., la Corte d’Appello di Torino, con la sentenza n. 172 del 4 febbraio 2016, in riforma della decisione impugnata, condannava gli appellati al pagamento in favore dell’appellante della somma di Euro 14.016,43 cadauno, oltre interessi legali dalla domanda al saldo, disponendo altresì la restituzione delle somme versate dall’appellante in esecuzione della sentenza di primo grado. Rilevava la Corte distrettuale che i convenuti dovevano reputarsi eredi del cliente dell’appellante, sia in ragione del contenuto del doc. n. 9 di cui alla produzione di parte attrice, che concretizzava un’accettazione tacita ex art. 476 c.c., sia perchè, pur trovatisi nel possesso dei beni ereditari, non avevano proceduto alla redazione dell’inventario, nel termine di legge.

Quanto all’entità del credito, osservava che lo stesso risultava provato documentalmente e che anche le prestazioni insuscettibili di prova documentale (quali le conferenze con il cliente) apparivano coerenti con la presumibile attività svolta, tenuto conto della natura dell’affare e della documentazione prodotta.

In merito ai dubbi espressi circa eventuali pregressi pagamenti da parte del B.E., ribadiva che era onere del debitore dimostrare l’avvenuto pagamento, sicchè le richieste istruttorie delle parti risultavano del tutto esplorative ed inammissibili. Stante la ripartizione dell’eredità in pari misura tra i convenuti, i medesimi andavano quindi condannati al pagamento in favore dell’attore della metà ciascuno delle somme richieste.

B.R. e C.E. hanno proposto ricorso avverso tale sentenza sulla base di tre motivi.

R.B.A. ha resistito con controricorso.

I primi due motivi di ricorso possono essere congiuntamente esaminati per la loro connessione e vanno tuttavia disattesi.

Il primo motivo di ricorso denunzia la violazione e falsa applicazione degli artt. 476, 487, 528 e 1140 c.c., art. 111 Cost., comma 6 e art. 2697 c.c., artt. 113 e 115c.p.c., in quanto si deduce che deve escludersi che nella fattispecie sia intervenuta un’accettazione tacita dell’eredità prima della rinunzia validamente effettuata dai convenuti in data 25/3/2013.

Infatti, oltre a non avere valenza in tal senso il documento n. 9 così come valorizzato dalla Corte distrettuale, in data 28 dicembre 2012 i ricorrenti hanno ricevuto solo alcuni effetti personali del de cuius, aventi valore solo affettivo, ivi inclusa una Smart usata, non potendosi pertanto affermare che gli stessi abbiano conseguito il possesso di beni ereditari. Inoltre, sebbene la successione si fosse aperta in data 1/12/2012, la consegna dei suddetti beni è avvenuta solo il successivo 28 dicembre, sicchè, occorrendo avere riguardo a tale ultima data, l’atto di rinunzia era intervenuto prima della maturazione del termine di re mesi di cui all’art. 485 c.c..

Il secondo motivo denunzia poi la violazione e falsa applicazione degli artt. 528 e 1140, art. 111 Cost., comma 6, artt. 113 e 116 c.p.c. e art. 2697 c.c., anche per omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti.

Si sostiene che la sentenza non avrebbe adeguatamente motivato quanto all’affermazione secondo cui il possesso da parte dei ricorrenti sarebbe coinciso con la missiva del 12 dicembre 2012, trascurando il fatto decisivo che il possesso era stato conseguito solo il successivo 28 dicembre 2012.

A tal riguardo rileva il Collegio che la decisione della Corte torinese si fonda sul convincimento che i ricorrenti avessero conseguito la qualità di eredi del defunto, per avere accettato tacitamente l’eredità ex art. 476 c.c., in ragione del contenuto del documento di cui al n. 9 della produzione di parte attrice, e comunque per non avere redatto l’inventario nel termine di legge, pur essendo nel possesso dei beni ereditari, divenendo pertanto eredi puri e semplici ex art. 485 c.c..

A fronte di una duplice ratio posta a giustificazione dell’accoglimento della domanda, si rileva che il ricorso risulta evidentemente carente del requisito di specificità ex art. 366 c.p.c., n. 6, nella parte in cui omette di riprodurre in ricorso il contenuto del documento che, ad avviso della Corte di merito, determinava l’accettazione tacita dell’eredità, impedendo quindi a questa Corte di poter evincere dalla stessa lettura del ricorso, la correttezza o meno della qualificazione giuridica operata dal giudice di merito. Inoltre poichè tale documento è stato preso in esame dalla sentenza impugnata, non ricorre l’ipotesi di vizio della decisione di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, novellato n. 5, come invece denunziato dai ricorrenti, che sul punto ripropongono la doglianza di insufficiente motivazione che è invece preclusa alla luce della novella.

Già tale considerazione, che consente alla sentenza di conservare una delle rationes su cui si fonda, imporrebbe il rigetto dei primi due motivi, che peraltro si rivelano infondati anche nella parte in cui mirano a confutare l’altra argomentazione spesa dalla Corte d’Appello, in merito all’avvenuto acquisto ex lege ai sensi dell’art. 485 c.c..

Ed, invero la sequenza cronologica degli eventi può così riassumersi:

– 1/12/2012 Apertura della successione con immediato avviso della morte del congiunto ai ricorrenti (cfr. pag. 6 sub 3) del ricorso);

– 28/12/2012 Consegna da parte dell’attore, e per conto della convivente del de cuius (che ne era inizialmente in possesso), degli effetti personali rinvenuti sul defunto al momento del decesso, nonchè dell’autovettura Smart, temporaneamente custodita presso un autolavaggio, luogo ove si è svolta materialmente la consegna;

– 25/3/2013 Rinunzia all’eredità da parte dei ricorrenti, con atto per notaio V..

A fronte di tale evolversi dei fatti, deve escludersi che le doglianze dei ricorrenti colgano nel segno.

Emerge, infatti, che l’apertura della successione è avvenuta in data 1 dicembre 2012, e che della stessa sono stati immediatamente resi edotti i ricorrenti, i quali hanno conseguito il possesso di alcuni dei beni ereditari in data 28 dicembre 2012.

A tal fine vanno richiamati i costanti principi di questa Corte in base ai quali per possesso, definito reale dal c.c. 1865 per distinguerlo da quello giuridico riservato all’erede, si intende una semplice relazione di fatto con il bene, tale da consentire al titolare concreti poteri di amministrazione e disposizione anche a mezzo di terzi detentori (Cass. n. 7076/1995; Cass. n. 4835 del 1980; Cass. 5 maggio 2008, n. 11018), sicchè nella fattispecie, deve reputarsi costituire esercizio del possesso ai fini qui in esame, anche il solo ritiro dell’autovettura appartenente al de cuius dall’autolavaggio ove si trovava al momento della morte, e la sua successiva collocazione in sosta, trattandosi comunque di condotta che assicura alla parte la conservazione dei suddetti poteri di amministrazione e disposizione.

Si è altresì ribadito che è sufficiente il possesso anche di un singolo bene (Cass. n. 3175/1979), dovendosi peraltro ritenere che la decisione gravata, quanto meno ab implicito, abbia considerato che il possesso concerneva beni di un qualche rilievo economico (come peraltro appare indubitabile per un’autovettura, sebbene usata, quale quella consegnata al ricorrente in occasione dell’incontro presso l’autolavaggio del 28 dicembre 2012).

Ancora deve ricordarsi che il possesso può essere conseguito anche successivamente all’apertura della successione, e che non varrebbe ad evitare l’onere dell’inventario un eventuale rilascio del possesso (Cass. n. 1317 del 1984, secondo la quale è sufficiente che il chiamato abbia posseduto il bene anche per un solo giorno).

Traendo le fila del discorso, può affermarsi che correttamente la decisione gravata ha ritenuto che i ricorrenti avessero conseguito il possesso di beni ereditari (tra i quali alcuni di indubbio valore anche economico, come appunto la ricordata autovettura), sicchè l’avere ritirato il veicolo costituisce circostanza idonea ad instaurare la relazione materiale con uno dei beni ereditari, tale da concretizzare il presupposto fattuale richiesto dalla previsione di cui all’art. 485 c.c., a nulla rilevando la circostanza che poi l’autovettura sia stata lasciata incustodita in luogo pubblico, posto che tale condotta, oltre a non rivelarsi inidonea a dismettere il possesso nel senso sopra indicato, farebbe in ogni caso seguito ad una presa di possesso, che rende irrilevante ai fini che qui interessano, il successivo abbandono del bene.

Essendo poi emerso che ai ricorrenti venne tempestivamente data notizia dell’apertura della successione, avendo avuto comunicazione della morte del de cuius il 1/12/2012, atteso l’avvenuto conseguimento del possesso nel termine trimestrale dall’apertura della successione, appare corretta la conclusione dei giudici di merito, per la quale i convenuti avrebbero dovuto redigere l’inventario nel termine di tre mesi dal giorno dell’apertura della successione, peraltro coincidente con quello della notizia della delazione (cfr. Cass. n. 99/1972), non potendosi avere riguardo per la decorrenza del termine de quo, alla diversa data del conseguimento del possesso, comunque avvenuto nel termine trimestrale.

Infine, non deve trascurarsi che secondo la più recente giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass. n. 4845/2003) la previsione del secondo comma dell’art. 485 c.c., sarebbe destinata ad operare non solo nel caso in cui l’erede voglia procedere all’accettazione con il beneficio dell’inventario, ma anche quando egli, essendo in possesso di beni ereditari, voglia rinunciare puramente e semplicemente all’eredità (conf. Cass. n. 11018/2008; Cass. n. 5152/2012), con la conseguenza che, non avendo i ricorrenti redatto l’inventario nei tre mesi dall’apertura della successione, la rinunzia sarebbe priva di effetti.

Quanto al terzo mezzo di gravame, con il quale si denunzia la violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., art. 111 Cost., comma 6, artt. 113 e 115 c.p.c., con riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 3, nonchè l’omessa motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, ritiene il Collegio che lo stesso debba essere disatteso.

Ed, invero, in disparte evidenti profili di inammissibilità della censura formulata ai sensi della vecchia formulazione dell’art. 360, comma 1, n. 5, ritiene il Collegio che il motivo si risolva nella non consentita richiesta di rivalutazione delle risultanze istruttorie, così come operata in maniera non sindacabile dal giudice di merito.

Questi ha, infatti, ritenuto che fosse stata offerta la prova documentale delle attività professionali svolte dall’attore su incarico del defunto, e che la prova dovesse reputarsi sussistente anche per quelle attività di norma non documentate, ma da reputarsi verosimilmente effettuate (quali le conferenze con il cliente).

Le critiche mosse nel motivo, laddove attingono l’attendibilità dei documenti prodotti dal controricorrente a comprova del diritto vantato, investono quindi l’apprezzamento della rilevanza probatoria degli stessi, intendendo fare assumere a questa Corte l’inammissibile veste di giudice di terzo grado del fatto.

Del pari insindacabile è la valutazione circa la genericità delle prove articolate dai ricorrenti ed il carattere esplorativo delle richieste di esibizione, mentre va del pari esclusa la violazione della norma di cui all’art. 2697 c.c., apparendo del tutto conforme alla costante applicazione di tale previsione l’affermazione per la quale è onere del debitore provare eventuali pagamenti.

Il ricorso deve pertanto essere rigettato.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

Poichè il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto al testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, il comma 1-quater – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

PQM

 

Rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti, in solido tra loro, al rimborso delle spese in favore del controricorrente che liquida in complessivi Euro 4.300,00 di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali pari al 15% sui compensi, ed accessori come per legge;

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte dei ricorrenti del contributo unificato dovuto per il ricorso principale a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 4 aprile 2017.

Depositato in Cancelleria il 22 giugno 2017

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