Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 15513 del 14/07/2011

Cassazione civile sez. II, 14/07/2011, (ud. 04/05/2011, dep. 14/07/2011), n.15513

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCHETTINO Olindo – Presidente –

Dott. BUCCIANTE Ettore – Consigliere –

Dott. BIANCHINI Bruno – rel. Consigliere –

Dott. PROTO Cesare Antonio – Consigliere –

Dott. CORRENTI Vincenzo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

– M.B. (c.f. (OMISSIS)) rappresentata e difesa

dall’avv. Soleno Gianni ed elettivamente domiciliata presso lo studio

dell’avv. Giancarlo Pizzi in Roma, via V. Locchi n. 6, giusta procura

in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

– B.T. (c.f. (OMISSIS)) rappresentata e

difesa dall’avv. Lovati Massimo del Foro di Vigevano ed elettivamente

domiciliata presso lo studio dell’avv. Francesco De Cristofaro in

Roma, viale Bruno Buozzi n. 53, giusta procura a margine del

controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Milano, n. 1042/05,

pubblicata il 20/04/2005;

Udita la relazione della causa svolta nell’udienza pubblica del

04/05/2011 dal Consigliere Dott. Bruno Bianchini;

Udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

Generale Dott. PATRONE Ignazio, che ha concluso per il rigetto del

ricorso .

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

M.B. citò innanzi al Tribunale di Vigevano B. T., proprietaria di un immobile latistante, chiedendo che fosse condannata a rimuovere una lista di piastrelle ed una grondaia nonchè ad arretrare parte di un balcone, siccome posti sul muro di esclusiva proprietà della deducente. La convenuta si costituì, resistendo alle richieste della M. con l’addurre di non aver innovato la posizione del balcone, esistente sin dal 1947/ e che le piastrelle ed il discendente di gronda sarebbero stati appoggiati sulla propria porzione di facciata; chiese che fosse accertata la reale situazione di fatto tra i due immobili, anche con riferimento all’esistenza di eventuali servitù reciproche e che l’attrice fosse condannata a rimuovere alcuni manufatti posti a loro volta a distanza non legale dalla proprietà di essa deducente. L’adito Tribunale respinse le domande di entrambe le parti, osservando, per quello che qui ancora conserva interesse , che dagli accertamenti contenuti in una CTU, sarebbe rimasto acclarato che, sebbene i manufatti della convenuta erano risultati appoggiare per 40 cm. sul muro del fabbricato di proprietà dell’attrice, tuttavia sia il balcone che il pluviale sarebbero esistiti in loco per lo meno dal 1955 con conseguente diritto della B. – acquisito per usucapione – a mantenerli nell’attuale posizione; per la 61a di piastrelle (“beole”) invece non poteva esser affermato con sicurezza lo sconfinamento, non essendo certa la linea confinaria verticale tra i due edifici in prossimità dello spigolo formato dai rispettivi edifici, in corrispondenza del quale il rivestimento stesso si trovava.

La Corte di Appello di Milano, con sentenza n. 1042/2005, respinse il gravame della M. osservando che, se pure doveva darsi atto del vizio di ultrapetizione in cui era incorso il primo giudice nell’affermare acquisito per usucapione il diritto di mantenere parte dei manufatti nella posizione in cui essi si trovavano, tuttavia la ricostruzione storica dei passaggi di proprietà dei due latistanti edifici – originariamente appartenuti ad un unico proprietario – consentiva di affermare che il balcone, il pluviale ed il rivestimento in mattonelle sarebbero stati posti legittimamente, à sensi dell’art, 884 cod. civ., in appoggio laterale del muro comune per tutto il suo spessore, con la precisazione che l’estensione del balcone oltre la mezzeria dello stesso avrebbe costituito esercizio di una servitù di appoggio originata dalla destinazione del padre di famiglia, essendo preesistente alla divisione dell’originario fabbricato in due porzioni, poi acquistate separatamente dalle parti in causa.

La M. ha ricorso per la cassazione di tale sentenza, articolando due motivi, illustrati da memoria; la B. si è costituita con controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1 – La ricorrente lamenta, con il primo motivo, la “violazione e falsa applicazione degli artt. 99 e 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3” assumendo che la Corte di Appello sarebbe incorsa nel vizio di ultrapetizione nel porre a sostegno del rigetto della domanda di arretramento l’esistenza di una servitù per destinazione del padre di famiglia (avente ad oggetto il mantenimento dei manufatti a distanza inferiore alla legale dal confine) nonostante il fatto che la B. non avesse appellato il rigetto delle proprie richieste, determinando l’instaurarsi di una preclusione pro judicato.

La doglianza non è fondata.

1/a – Sul punto va rilevato innanzi tutto che il Tribunale respinse le domande della B. dirette alla rimozione di opere della M. a distanza non legale dal confine e che dunque la mancata impugnazione su tale capo di decisione da parte della prima non poteva determinare alcuna preclusione di giudicato sull’esistenza dei presupposti del diritto posto a base della domanda della M. stessa.

1/b – In secondo luogo la Corte di Appello, chiamata a giudicare sulla fondatezza del gravame involgente il diritto fatto valere dalla stessa M., ha dovuto necessariamente prendere in esame i presupposti della domanda agita che non erano costituiti solo dal diritto dominicale della attrice e dalla dedotta violazione delle norme sulle distanze, quanto anche dall’esistenza di fatti che avrebbero potuto incidere, come condizioni negative dell’intrapresa azione, sull’accoglimento della negatoria servitutis, così che ne risulta infondato il denunziato vizio di ultrapetizione.

1/b – Sotto diversa ma concorrente ottica valutativa va altresì messo in rilievo che la soluzione interpretativa della Corte distrettuale – che riconobbe opponibile alla M. la servitù per destinazione del padre di famiglia ex art. 1062 cod. civ. – doveva dirsi rientrante nell’ambito dell’originaria domanda, non statuendo l’acquisto da parte della B. di un diritto di servitù bensì negando alla M. il diritto di pretendere un’alterazione di un preesistente stato dei luoghi, disconosciuto il quale veniva meno anche l’interesse della stessa B. di impugnare un capo di decisione per lei favorevole.

2 – Con il secondo motivo viene fatta valere la “violazione o falsa applicazione degli artt. 880 e 884 cod. civ. in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5” sindacando come erronea l’interpretazione fornita dalla Corte distrettuale del contenuto dell’atto divisionale che rese autonome le due porzioni di fabbricato poi acquistate separatamente dalle parti in lite -, secondo la quale la comunione prò indiviso del muro maestro posto a confine, avrebbe potuto legittimare la utilizzazione esclusiva da parte di ciascuno dei comproprietari della porzione del manufatto sino alla mezzeria, sostenendosi al contrario che ciò sarebbe stato escluso dalla stessa volontà dell’originario proprietario.

2/a – Il motivo è inammissibile.

Va innanzi tutto sottolineato che la Corte non intende deflettere dalla propria costante interpretazione del vizio di violazione di legge che si traduce nel sindacato dell’ambito della interpretazione della norma (nel caso di violazione di norme di diritto) o nella sussunzione della fattispecie concreta in quella astratta (nell’ipotesi di falsa applicazione), mentre l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e impinge nella tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione (cfr Cass. 15499/04, 16312/05,10127/06 e 4178/07).

2/a – Ciò premesso, censurandosi il processo logico seguito dal giudice dell’appello nell’approdare alla soluzione interpretativa che si contesta, sarebbe stato onere del deducente – in ossequio al principio di autosufficienza del ricorso di riprodurre il contenuto del rogito del quale si è sollecitato il riesame, come pure per intero le argomentazioni del CTU sul punto, al fine di render possibile alla Corte una delibazione critica dell’interpretazione posta a base della gravata decisione.

3 – Il rigetto del ricorso comporta la condanna della ricorrente al pagamento delle spese.

P.Q.M.

LA CORTE DI CASSAZIONE Rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese che liquida in Euro 1.400,00 di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre IVA, CAP e spese generali come per legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte di Cassazione, il 4 maggio 2011.

Depositato in Cancelleria il 14 luglio 2011

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